Háry János

Singspiel in un prologo, quattro avventure e un epilogo

Musica: Zoltán Kodály (1882 - 1967)
Libretto: Béla Paulini e Zsolt Harsányi dal poema omonimo di János Garay

Ruoli: Organico: orchestra
Composizione: 1925 - 1926
Prima rappresentazione: Budapest, Teatro dell'Opera, 16 ottobre 1926
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1929
Guida all'ascolto (nota 1)

Figura di rilievo nel panorama dell'arte novecentesca, Kodály ha contribuito, insieme e in stretta intesa estetica e di lavoro con il connazionale Béla Bartók, a gettare le basi della moderna musica ungherese, superando le esperienze del post-romanticismo da Brahms a Richard Strauss e utilizzando l'enorme patrimonio delle melodie contadine del suo paese, raccolte ed elaborate in collaborazione con l'amico Bartók per l'edizione del «Corpus musicae popularis hungaricae», che costituisce la più completa e aggiornata raccolta di temi e canti di natura folclorica e religiosa dell'antica Ungheria. In un articolo apparso nel 1931, dal titolo significativo «L'influsso della musica contadina sulla musica colta moderna», Bartók, che sentì molto l'influenza di Kodály in questo specifico campo di ricerca, ammise che la riattivazione dei vecchi «modi» ecclesiastici annidati nelle pieghe del canto popolare rappresentò la via d'uscita dalla crisi dell'armonia romantica. «Lo studio della musica contadina fu per me di decisiva importanza - scrisse Bartók - perché mi rese possibile la liberazione dalla tirannia dei sistemi maggiore e minore fino allora in vigore. Infatti la più gran parte e la più pregevole del materiale melodico raccolto si basava sugli antichi "modi" ecclesiastici o greci, e perfino su scale più primitive (pentatoniche), con la presenza di raggruppamenti ritmici più liberi, ora in tempo rubato e ora in tempo giusto. Mi resi allora conto che i "modi" antichi e ormai fuori uso nella nostra musica d'autore non hanno perduto nulla della loro vitalità. Il loro reimpiego ha permesso combinazioni armoniche di tipo nuovo. Un siffatto impiego della scala diatonica ha condotto alla liberazione dal rigido esclusivismo della scala maggiore e minore ed ebbe per ultima conseguenza la possibilità di impiegare ormai liberamente e indipendentemente tutti i dodici suoni della scala cromatica».

Si sa che inizialmente Kodály, dopo aver studiato all'Accademia musicale di Budapest, soggiornò tra il 1906 e il 1907 a Parigi, dove ebbe la rivelazione di Debussy e assimilò il linguaggio armonico e coloristico dell'arte impressionistica. Alcune sue composizioni di quel periodo risentono dell'infatuazione debussyana, che in verità durò poco tempo, in quanto Kodály si rese conto che percorrere la stessa strada del compositore francese sarebbe equivalso a rimanere in una posizione di epigono e di ripetitore di formule altrui. La sua ambizione era di scrivere musica più profondamente legata all'anima ungherese, seguendo le indicazioni di tecnica e di stile derivanti dalle canzoni popolari della propria terra. Di qui deriva quella precisa scelta di campo, di gusto e di sensibilità tipicamente magiare fatta da Kodály, che del resto non ha mai rifiutato a priori il contributo dell'arte occidentale. Il nome di questo musicista s'impose all'attenzione del mondo musicale internazionale nel 1923 con l'esecuzione del celebre Psalmus Hungaricus per tenore, coro e orchestra, che salvò l'autore da ulteriori provvedimenti disciplinari dopo quelli di cui era stato oggetto durante le prime reazioni degli ambienti conservatori alla caduta della «Comune» del comunista Béla Kun, alla quale il compositore, coerente con le sue idee di schietta fede democratica, aveva aderito. Vennero poi altri lavori che estesero e rafforzarono la fama di Kodály in Europa, come le orchestrali e brillanti Danze di Marosszék (1930), le Danze di Galánta (1933), le musiche di scena, condensate anche in una suite, dell'estroso ed umoristico Háry Janós (1926), l'opera comico-idillica La filanda magiara (1932), ricca di danze e di cori a ballo di vivace stampo popolaresco, e il Budavári Te Deum per soli, coro e orchestra (1936), di imponente costruzione vocale e religiosamente ispirato alle fonti liturgiche del melos ungherese. A questa produzione va aggiunta anche l'opera sinfonica e cameristica, comprendente una Sinfonia in do maggiore dedicata nel 1961 alla memoria di Toscanini, direttore che ebbe molta stima per Kodály, l'Adagio per violino e pianoforte (1905), la Sonata per violoncello e pianoforte (1910), la Sonata op. 8 per violoncello solo (1915), i Quartetti op. 2 e op. 10 (1908 e 1918), la Missa brevis per coro e orchestra e numerosi Lieder per canto e pianoforte.

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Kodály giunse più tardi di Bartók (tra i due compositori correva un anno di differenza) al teatro musicale e vi esordì con un Singspiel e più esattamente un Liederspiel, denominato Háry Janós (Giovanni Háry), su libretto di Pauline Béla e Harsányi Zsolt ricavato da un poema scritto nel 1843 da János Garay e intitolato Az obsitos (Il congedato). Kodály compose la musica tra il 1925 e l'inizio del 1926; vi apportò diverse e sostanziali varianti dopo la prima rappresentazione del Singspiel avvenuta con successo all'Opera di Budapest il 16 ottobre 1926. Successivamente l'autore pensò bene di ricavare una suite orchestrale di sei brani dal lavoro originale, il quale prevede accanto all'orchestra la partecipazione del coro, di diversi cantanti solisti e di un folto gruppo di attori. Naturalmente la suite punta sugli aspetti brillanti e pittoreschi della partitura e non sviluppa in tutta la loro estensione i valori sentimentali, nostalgici e fantasiosi, sparsi a piene mani in questo affresco musicale, ancora oggi rappresentato con regolare frequenza nei teatri ungheresi.

Protagonista del Singspiel è, appunto, Háry Janós, un personaggio dalla fantasia particolarmente eccitata, una sorta di spaccone eroicomico e leggendario, parente lontano del Miles gloriosus plautino, o, se si vuole, di capitan Fracassa, di Don Chisciotte, di Till Eulenspiegel e di Tartarino di Tarascona. E' lo stesso Háry a raccontare all'osteria di Nagyabony le sue imprese militari completamente inventate e le sue fanciullesche allucinazioni, inquadrate tra un prologo e un epilogo. La favola è narrata in quattro «avventure»: nella prima Háry racconta come sia riuscito a risolvere il contrasto tra due sentinelle al confine tra la Ruritania e la Galizia, riuscendo a far passare la principessa d'Austria Maria Luisa, che per ricompensa arruola il nostro eroe nella guardia imperiale. Nella seconda avventura si parla del sergente Háry alla corte imperiale di Vienna, dove riesce a curare la podagra dell'imperatore, così da farsi nominare comandante dell'esercito austriaco che dovrà affrontare Napoleone sul campo di battaglia. Nella terza avventura il generale Háry ha sconfitto nei pressi di Milano Napoleone, il quale si arrende e viene fatto prigioniero; per premio può sposare la principessa Maria Luisa. Nella quarta avventura Háry rimette nelle mani dell'imperatore d'Austria titoli e ricchezze e preferisce tornare nel suo villaggio tra le braccia della sua ragazza, Ilka. Alla fine si ode una voce che dice da lontano: «Ve lo dico chiaro e tondo: Háry è stato il più grande eroe del mondo».

La musica di Kodàly, che lega i vari episodi inframmezzati dal parlato, sottolinea e descrive le varie situazioni psicologiche, ricorrendo con tagliente finezza espressiva alla tematica dei canti popolari e alle vecchie danze nuziali dei contadini. Tra i brani musicali del Singspiel meritano di essere ricordati l'introduzione al racconto che chiude il prologo, un vero e proprio fantasmagorico inno alla natura di straordinario effetto strumentale, l'intermezzo dal tono spigliato tra la prima e la seconda avventura, la scena del carillon di Vienna ricca di accenti marionettistici e umoristici, la battaglia di Milano con il felicissimo contrasto tra la marcetta vivace e petulante degli austriaci e quella lentissima e tronfia dei francesi, dagli echi quasi musorgskiani, la danza finale della terza avventura dallo spirito popolaresco e alla fine il preludio all'epilogo, dove il suono del violino solitario sembra piangere sulla bella favola finita. Ritorna un motivo di danza e tutto si rasserena con la canzone popolare di Nagyabony, che dice: «Solo due torri ci sono a Nagyabony, non le trentadue di Milano». E' il canto popolare ungherese, quello vero, originario, autoctono, impiegato come lingua primaria del discorso musicale, lasciato intatto nelle sue flessioni, nelle sue modalità, nelle sue modulazioni, a dare il tono nazionale al racconto di Kodály e a renderlo straordinariamente espressivo per la mobilità policroma delle figurazioni e delle prospettive, oltre che per l'immediatezza di un lirismo intriso di nostalgia e per il vivace taglio ritmico di molti episodi caratteristici e grotteschi.

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L'edizione musicale odierna di Háry Janós si apre con la sinfonia che evoca con varietà timbrica l'atmosfera della favola. Segue un delicato e dolce a solo del flauto, accompagnato dal cimbalo e suonato da un soldato ussaro al confine tra Russia e Ungheria. Si ode quindi il Lied di Ilka sulle parole: «Ahi! maledetto chi l'ha escogitato! Dannato sia chi l'ha solo pensato! Portano, già portano il mio amore via di qua! Ahi! Cecco Peppe, pane secco gli darà». Il coro delle ragazze ungheresi commenta allegramente la situazione. Ecco quindi Háry che canta il «Lied della mela rossa»: «Mela rossa pende dall'albero. Coglila che vale un tallero. Mela rossa coglierò, eccola! La mia bella bacerò, eccola! Mela rossa perché mai rotoli. Non piangere, amor mio cosa fai?». Risponde Ilka: «Non piango, non mi farai piangere. Al tuo petto mi dovrai stringere!». Lo zio Martino, un assonnato cocchiere, canta una spiritosa chanson à boire, un brindisi di sprizzante ilarità. Ecco il testo: «Nel Balaton c'è del pesce fin che vuoi, oi, oi, oi! Su nei boschi trovi ghiande finché vuoi, oi, oi, oi, oi! Porcaro che gridi, pescatore ridi dalla gioia, ia, ia, ia, ia, ia, ia! Sta nel piatto, ci sta bene il cappone! Che buon vino fanno sopra le colline! Se vuoi bere, amico, bevi se lo dico. Lunga vita, ah, ah, ah! Batti il ferro finché è caldo di calore! Che te ne fai della botte che non bolle! Mettici del vino, lo togli dal tino! Se vuoi bere, eh, eh, eh!». Molto espressivo per la sua carezzevole cantabilità è il duetto seguente tra Háry e la fidanzata sulle rive del Danubio, con al centro una sorta di canzone a ballo più animata rispetto alle due parti laterali in tempo andante poco rubato. Háry dice: «Tibisco, dove andrai? Oltre il Tibisco il mandriano sta. Lega il baio al palo senza briglie, senza sella, che farà? Danubio, dove andrai? Oltre il Danubio il pastore sta. Pascola il gregge l'erba. Il pastore sta all'erta, lei verrà. Tibisco dove andrai? Oltre il fiume il porcaro cosa fa? Mangia con lei il buon gulash, con il mestolo di legno, con forchetta. Dal fuoco». Le parole del duetto sono: «Danubio, dove andrai? Tibisco, dove andrai? Oltre il fiume, tu casetta cosa fai? Sempre il pensiero va lì. Il mio cuore tornerebbe lì con lui!». Vigoroso, brillante e ricco di inflessioni strumentali di sapore popolaresco è l'intermezzo strumentale (Andante maestoso, ma con fuoco), tra le pagine più acclamate e famose di Háry Janós e inclusa giustamente anche nella suite orchestrale. Maria Luisa canta la sentimentale canzone del cucù in tempo di minuetto: «Cucù, bel cucù! Scendi da lassù! Oh, mio bel cucù non mi fuggire mai più! Se tu te n'andrai il mio cuore spezzerai. T'accarezzo, guarda, ti chiamo col flauto, una gabbia c'è quaggiù! Tu sei la mia vita. Diventa più mite. Ti scongiuro da quaggiù! Ho le ali pronte per venire con te, sempre con te tu m'avrai!». Ed eccoci al parodistico glockenspiel viennese, una marcia da soldatini di piombo. Ilka canta con malinconia (Andante con moto) il Lied sulle parole: «Chi t'ha fatto fin qui arrivare? Hai dovuto tre fosse saltare! Se ti rompi la caviglia dove trovi uno che ti piglia? Non sono malata, sono bianca, se vedi che sono bianca l'amore mi fa impallidire, senza di te non posso guarire». La stessa Ilka canta la canzone della gallina: «Ho due chiocce, sono qui dall'autunno scorso. Tu sapevi che erano mie e gli hai dato l'orzo! Vieni rossa, vieni grigia, vieni, vieni al ballo. Non l'ho perso, meno male. Ho persino un gallo. Ehi, gallo rosso, oca piedi bianchi, il pastore anche lui ha le piume ai fianchi. Zafferano, maggiorana, pepe, alloro, rosmarino, gatto che vergogna! Gatto, quest'è troppo! Per merenda era lì non hai preso il topo!». Marcia militare e coro dei soldati che cantano: «Ehi! suona la tromba, pronti, su, e armi in spalla! Ehi! Non temiamo nulla al mondo! Fino alla corte di Parigi marceremo! Sù, capitano fino a Parigi andremo! Háry Janós seguiremo!».

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La seconda parte inizia con la sveglia dei soldati che cantano in coro: «Sono andato a fare il soldato. Ho salutato mia madre. Che peccato! Vedo che non potrò prenderla con me mai più. Ahi! te l'affido a te, Dio che sei lassù. Fosse il grano già sbocciato i bianchi colombi non l'avrebbero mangiato. Bianchi colombi, di che cosa faccio la farina? Ahi! l'amor mio, che cosa mi cucina? Da noi vedi solo due torri, Milano ha trentadue torri. Sono quelle due ch'io amo, non le trentadue di Milano». Segue la marcia dei soldati francesi e dopo l'apparizione di Napoleone si ode una marcia funebre, di tono grottesco. Napoleone canta la canzone del vecchio cucco: «Vecchio cucco, oh, oh, oh, oh! Sei caduto, oh, oh, oh! Son caduto in un buco, ora striscio come un bruco. Vecchio cucco, oh! oh! oh! Vecchio cucco, oh! oh! oh!». Ad uno squarcio di musica zingaresca segue il Lied di Ebelasztin, rivale di Háry, che chiede compassione: «Ecco che cos'è la vita! La mia pace è smarrita! Ahimé, dove ho la testa. Ahimé, non è vita questa! Ahi! Quanti guai, come farò? La mia vita consumerò. Ahimé, che brutti tormenti, non ho linimenti! Lasciami, voglio morire. Tanto non mi puoi guarire. Ahimé, cosa mi farai tu? Lo so, non mi lascerai più!». Ben ritmata e di stampo tipicamente ungherese è la canzone del reclutamento cantata da Háry e dal coro: «Se vuoi arruolarti e fare il dragone da noi all'accampamento vivi da padrone. La vita che ti aspetta non ha paragoni. Se vuoi vieni a vedere chi sono i dragoni, se vuoi divertirti, ci sono i dragoni! Si va sui bei campi, si corre, si vince, al quartiere festa si fa, la donna si stringe, la vita che t'aspetta non ha paragoni. Se vuoi vieni a vedere chi sono i dragoni». Nel palazzo imperiale di Vienna la principessa Maria Luisa e un coro di donne cantano una piacevole melodia festosa: «I lumi son qui, son per lo sposo, ho visto laggiù anche la sposa. Dove riporrò il mio bel toupet! Due ragazze, un diadema con tante perle, vanno per i prati a cogliere fiori di bei colori. Chiede all'altra la più curiosa: Chi è venuto a chiederti in sposa? Sono già dieci, un diadema ho con tante perle. I miei promessi. Dammi un consiglio, a quale di essi dare la mano per non avere lo stelo secco al posto del fiore? Mi piace Giorgio perché è giocondo, il suo vestito ha fili d'oro, ha un puledro bello e gagliardo. Ha la dispensa piena di lardo. Due, Gabriele, quant'è carino. Tre, Adalberto, è inesperto, ha sempre in mano l'otre di vino. Quarto, Francesco, ma è manesco e poi pretesco. Allora Abramo? Ma non lo amo. Calvo e guercio, sdentato e lercio. Sesto, Roberto, settimo Ladislao, ottavo Giuseppe o Sigismondo? Dì, sù, quale sposo vuoi? Dimmelo sù! Vuoi solo Janós? Voglio Janós perché è stato sempre un vero benefattore. Voglio da sola la sua persona. Da che parte sto? Chi vuol fare la comare? Farò la sposa e sarò fedele!». Segue la scena dell'entrata della corte imperiale per sola orchestra, vagamente somigliante nel taglio ritmico al quadro della reggia nel secondo atto della Turandot pucciniana. Marcia dei principini e coro dei bambini, accompagnato dalle trombe : « A, B, C, D: comincia qui tutta la mia scienza, tutta la sapienza. Tracannerò tre pinte di vino, sono un porcellino M, N, O - S, T, U? non pianger più, scaccia la tristezza con la contentezza, S, T, U! ». La fidanzata di Janós canta un nostalgico Lied: « Son povera, così sono nata. Di te mi sono innamorata. T'hanno rubato a me, povera, adesso sì che sarò povera. Voglio andare via da qui, lontano. Se mi cerchi, cercherai invano. Non mi potrai prendere più con te. Chi mi vorrà si dovrà perdere». Háry canta alla corte di Vienna, pensando al suo villaggio e alla sua terra: «La corte di Vienna arerò. I nostri guai vi seminerò, quel triste frumento crescerà sotto gli occhi di sua maestà. Per gli ungheresi questo c'è, messe di pene e di povertà. Ahi, imperatore, guarda giù al tuo popolo in schiavitù». La composizione termina con un coro di largo respiro, in cui si richiamano i temi principali esaltanti il melos e l'anima ungheresi: «O popolo magiaro, orgoglioso e fiero cuore, comprendo davvero il tuo martirio». Háry e Ilka dicono: «Tibisco, dove andrai? Oltre il fiume, casetta cosa fai? Il pensiero va sempre lì!». Il coro ripete: «Popolo benedetto! Da noi vedi solo due torri, Milano ha trentadue torri». Háry Janós risponde: «Sono quelle due ch'io amo, non le trentadue di Milano», cui fa eco con armonie lontane il coro. L'impressione che si ricava all'ascolto di Háry Janós conferma quello che Kodály scrisse in un articolo del 1946 a proposito del ruolo del musicista nella società in cui vive: «L'artista deve capire che nell'elevarsi al di sopra del suo popolo egli ne incarna la parte creativa. Il compositore che aspiri oggi ad una reale universalità non può sentirsi che il profeta, il tribuno dei fini del suo popolo, l'interprete dei dubbi e delle speranze del suo popolo».


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 25 maggio 1980


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Ultimo aggiornamento 12 dicembre 2014