Sonata in si minore per violoncello solo, op. 8


Musica: Zoltán Kodály (1882 - 1967)
  1. Allegro maestoso ma appassionato
  2. Adagio (con grand'espressione)
  3. Allegro molto vivace
Organico: violoncello
Composizione: 1915
Prima esecuzione: Budapest. Großer Saal der Musikakademie, 7 maggio 1918
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1922
Dedica: Eugène de Kerpely
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Figura di rilievo nel panorama dell'arte novecentesca, Kodály ha contribuito, insieme e in stretta intesa estetica e di lavoro con il connazionale Béla Bartók, a gettare le basi della moderna musica ungherese, superando le esperienze del post-romanticismo da Brahms a Richard Strauss e utilizzando l'enorme patrimonio delle melodie contadine del suo paese, raccolte ed elaborate in collaborazione con l'amico Bartók per l'edizione del "Corpus musicae popularis hungaricae", che costituisce la più completa e aggiornata raccolta di temi e canti di natura folclorica e religiosa dell'antica Ungheria. In un articolo apparso nel 1931, dal titolo significativo "L'influsso della musica contadina sulla musica colta moderna", Bartók che sentì molto l'influenza di Kodály in questo specifico campo di ricerca, ammise che la riattivazione dei vecchi "modi" ecclesiastici annidati nelle pieghe del canto popolare rappresentò la via d'uscita dalla crisi dell'armonia romantica. «Lo studio della musica contadina fu per me di decisiva importanza - scrisse Bartók - perché mi rese possibile la liberazione dalla tirannia dei sistemi maggiore e minore fino allora in vigore. Infatti la più gran parte e la più pregevole del materiale melodico raccolto si basava sugli antichi "modi" ecclesiastici o greci, e perfino su scale più primitive (pentatoniche), con la presenza di raggruppamenti ritmici più liberi, ora in tempo rubato e ora in tempo giusto. Mi resi allora conto che i "modi" antichi e ormai fuori uso nella nostra musica d'autore non hanno perduto nulla della loro vitalità. Il loro reimpiego ha permesso combinazioni armoniche di tipo nuovo. Un siffatto impiego della scala diatonica ha condotto alla liberazione dal rigido esclusivismo della scala maggiore e minore ed ebbe per ultima conseguenza la possibilità di impiegare ormai liberamente e indipendentemente tutti i dodici suoni della scala cromatica».

Si sa che inizialmente Kodály, dopo aver studiato all'Accademia musicale di Budapest, soggiornò tra il 1906 e il 1907 a Parigi, dove ebbe la rivelazione di Debussy e assimilò il linguaggio armonico e coloristico dell'arte impressionistica. Alcune sue composizioni di quel periodo risentono dell'infatuazione debussyana, che in verità durò poco tempo, in quanto Kodály si rese conto che percorrere la stessa strada del compositore francese sarebbe equivalso a rimanere in una posizione di epigono e di ripetitore di formule altrui. La sua ambizione era di scrivere musica più profondamente legata all'anima ungherese, seguendo le indicazioni di tecnica e di stile derivanti dalle canzoni popolari della propria terra. Di qui deriva quella precisa scelta di campo, di gusto e di sensibilità tipicamente magiare fatta da Kodály, che del resto non ha mai rifiutato a priori il contributo dell'arte occidentale. Il nome di questo musicista s'impose all'attenzione del mondo musicale internazionale nel 1923 con l'esecuzione del celebre Psalmus Hungaricus per tenore, coro e orchestra, che salvò l'autore da ulteriori provvedimenti disciplinari dopo quelli di cui era stato oggetto durante le prime reazioni degli ambienti conservatori alla caduta della "Comune" del comunista Béla Kun, alla quale il compositore, coerente con le sue idee di schietta fede democratica, aveva aderito. Vennero poi altri lavori che estesero e rafforzarono la fama di Kodály in Europa, come le orchestrali e brillanti Danze di Marosszék (1930), le Danze di Galánta (1933), le musiche di scena, condensate anche in una suite, dell'estroso ed umoristico Háry Janós (1926), l'opera comico-idillica La filanda magiara (1932), ricca di danze e di cori a ballo di vivace stampo popolaresco e il Budavari Te Deum per soli, coro e orchestra (1936), di imponente costruzione vocale e religiosamente ispirato alle fonti liturgiche del melos ungherese. A questa produzione va aggiunta anche l'opera sinfonica e cameristica, comprendente una Sinfonia in do maggiore dedicata nel 1961 alla memoria di Toscanini, direttore che ebbe molta stima per Kodály, l'Adagio per violino e pianoforte (1905), la Sonata per violoncello e pianoforte (1910), la Sonata op. 8 per violoncello solo (1915), i Quartetti op. 2 e op. 10 (1908 e 1918), la Missa brevis per coro e orchestra e numerosi Lieder per canto e pianoforte.

La Sonata per violoncello si articola in tre movimenti distinti, ma non distanti e diversi armonicamente. Il primo tempo è costruito su una melodia frastagliata nella sua politonalità, con una intonazione popolareggiante nella linea di canto e dai molti accenti spostati e poliritmici. Nell'Adagio viene messa in evidenza l'estensione più grave del violoncello. Un leggero pizzicato sottolinea e rende più incisivo il tema pensosamente tranquillo, che verso la fine del movimento ritorna con maggiore varietà armonica. Il terzo tempo ha un carattere più accentuatamente virtuosistico e vi si raccolgono incisi tematici già ascoltati in precedenza. Pur nel suo chiaro impianto tonale, non mancano echi dell'influenza debussiana con accordi di quinta, molto apprezzati dal primo Kodály. L'allegro finale è particolarmente elaborato e impegna a fondo l'abilità tecnica del solista nell'intrincato gioco delle sonorità di grado e intensità contrastanti.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Accanto e insieme al quasi suo coetaneo Béla Bartók, Zoltán Kodàly è il compositore più rappresentativo della musica ungherese del nostro secolo. In un primo tembpo, e precisamente fino agli anni immediatamente susseguenti alla prima guerra mondiale la sua figura sembrava acquistare uno spicco persino maggiore di quella di Bartók, ma in seguito fu questa ultima ad imporsi e a prevalere sul piano internazionale, data la maggiore acutezza e attualità con la quale Bartók ha saputo sviluppare le premesse stilistiche che in partenza erano comuni ai due compositori, i quali avevano cominciato ad operare in stretta collaborazione e amicizia. Ciò che li accomunava era l'appassionato interesse e amore per l'autentico folklore magiaro che le musiche «ungheresi» di sapore zingaresco di Liszt e Brahms avevano travisato o del tutto ignorato. Insieme a Bartók, Kodàly spese molti anni nella sistematica ricerca condotta con rigoroso metodo filologico, dei genuini canti costituenti l'inesauribile patrimonio folkloristico dell'Ungheria e dei popoli limitrofi dell'Europa centrale e della zona balcanica. E come Bartók, Kodàly non si limitò a questa attività scientifica, ma in un secondo tempo si valse degli elementi etnofonici che aveva scoperto come di un lievito del proprio stile, dando l'avvio ad una delle più rigogliose correnti nazionali della moderna letteratura musicale europea. Com'è risaputo, il sorgere di queste correnti fu uno dei corollari del movimento romantico e del nascente nazionalismo dei popoli europei che anelavano alla affermazione della propria autonomia politica e culturale. Spinti dal desiderio di dare alla loro patria una propria letteratura musicale, numerosi altri compositori appartenenti ai paesi europei privi d'una tradizione di musica colta ma ricchi d'una originale arte popolare, si accinsero verso la fine dell'Ottocento e nei primi anni del nostro secolo a valorizzare quei tesori folkloristici che per molti di loro rappresentavano in un certo senso il surrogato della tradizione mancante. D'altra parte ricorsero all'uso di elementi folkloristici anche compositori che operavano nell'ambito di civiltà stramature. Questi ultimi trovarono nelle strutture modali e ritmiche dei canti paesani degli elementi lessicali inediti che trascendevano gli schemi grammaticali nei quali si era andata cristallizzando la musica occidentale. Il folklore assunse così la funzione di un lievito che contribuì a stimolare gli sviluppi stilistici che contrassegnavano la musica moderna, portando all'allargamento e alla rottura del tradizionale ambito tonale e della irrigidita quadratura ritmica. Se su di un piano nazionale l'importanza di tali compositori può essere segnata dalla musica nella quale essi hanno arricchito la letteratura musicale del loro paese di musiche a carattere etnofonico, sul piano internazionale della vita musicale contemporanea la loro statura è misurata in senso assoluto dall'universalità dei significati delle loro opere e in senso storico dalla forza con la quale, partendo dai dati etnofonici particolari del loro apese, hanno saputo inserirsi nel movimento generale della moderna musica europea assumendo e risolvendo i più attuali e brucianti problemi formali che si proponevano imperiosamente alle travagliate coscienze creatrici dei compositori del nostro secolo. Da questo duplice punto di vista la figura di Béla Bartók si è andata continuamente ingrandendo in questi ultimi anni, mentre quella di Kodàly ha subito una certa flessione nell'interesse e nel giudizio del mondo musicale Fatto sta che mentre, nel primo periodo della sua attività creatrice aveva dato prova di sentire come Bartók l'imperativo categorico di un rinnovamento formale del proprio linguaggio dolo il celebre Psalmus Hungaricus «attraverso l'innegabile altezza di molte parti, comincia a farsi strada una tendenza verso l'eloquenza retorica che ingrandirà in successive opere corali come il Te Deum. Anche qualche fortunato numero sinfonico, come le brillanti Danze dì Gàlanta, fa temere un'involuzione di Kodàly verso ii pittoresco lisztiano, dove il materiale popolare viene messo in mostra nelle sue caratteristiche più vistose, anziché essere profondemente assimilato nel travaglio, di una elaborata creazione» (M. Mila). Queste opere segnano un ritorno di Kodàly verso forme classicheggianti e barocche e un conseguente scadimento dell'attualità della sua musica. La Sonata che viene eseguita oggi, appartiene però al miglior periodo del compositore. Scritta nel 1915 e pubblicata nel 1921 essa rappresenta uno dei lavori più singolari composti per violoncello solo e nella sua difficoltà d'esecuzione viene eguagliata forse soltanto dalla recente Suite per violoncello solo di Luigi Dallapiccola. Non è che in essa l'interesse virtuosistico prevalga sui valori musicali assoluti, ma l'impegno implicito nel suo assunto costruttivo è tale che solo l'arte d'un esecutore e interprete fuori del comune può dimostrarsi capace di «nascondere l'arte» con cui è architettato questo lavoro, facendone risaltare tutta la ricchezza inventiva senza l'intralcio della distrazione data dall'interesse rivolto alla tecnica richiesta per venir a capo delle sue immense difficoltà di scrittura. Ad accrescere queste difficoltà si aggiunge una doppia alterazione nell'accordatura del violoncello per cui le due corde che normalmente danno il sol e il do si trovano abbassate, cioè «scordate» di un mezzo tono in modo da emettere «a vuoto» il fa diesis e il si grave, ampliando così l'estensióne dello strumento.

Dei tre tempi della Sonata, il primo «maestoso» e «appassionato» esordisce con un motivo scandito risolutamente secondo un ritmo che riporta alla Ciaccona di Bach. Questo tema, e più ancora il secondo e più cantabile motivo, del primo movimento si dispongono nel classico schema della forma di sonata conservando però tutta la rapsodica libertà di accenti e di movenze caratteristiche dell'autentico melos ungherese. Lo stesso carattere rapsodico da ballata popolare informa anche l'Adagio, che secondo le indicazioni dell'autore dev'essere cantato «con grand'espressione». Nella parte centrale (Con moto) l'arco melodico ad ampio respiro si dissocia e si sfalda in frammenti di frasi articolate drammaticamente come in un libero recitativo che sfocia in virtuosistiche cadenze. Tutte le risorse della tecnica violoncellistica vengono largamente sfruttate: arpeggi, tri e quadricordi, pizzicati con la mano sinistra, suoni flautati, doppi trilli e tremoli e le più svariate combinazioni di tali procedimenti: tutto serve per far dire al solo violoncello ciò che solo un nutrito complesso musicale sembrerebbe in grado di esprimere. L'ultimo tempo infine, è uno di quei vivacissimi Allegri «all'ungherese» che tanto frequentemente ricorrono in Kodàly e, ancor più, in Bartók. Di particolare effetto risulta la parte centrale di questo pezzo con quei prolungati tremoli e trilli «sul Ponticello» e «sulla Tastiera» che in un impressionante crescendo portano la sonorità dal livore spettrale d'un fruscio appena percettibile all'abbagliante fortissimo che segna il reingresso del tema principale con i suoi giocosi e brillanti ritmi di danza.

Roman Vlad


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia,
Roma, Sala Accademica di via dei Greci, 13 febbraio 1981
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Eliseo, 28 aprile 1952


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Ultimo aggiornamento 8 novembre 2015