Années de pèlérinage. Deuxième Année. Italie, S 161


Musica: Franz Liszt (1811 - 1886)
  1. Sposalizio - Andante (do diesis minore) - Andante quieto - Più lento. Quasi allegretto mosso - Adagio
  2. Il pensieroso - Lento (do diesis minore)
  3. Canzonetta di Salvator Rosa - Andante marziale (la maggiore)
  4. Sonetto 47 del Petrarca - Preludio con moto - Ritenuto. Sempre mosso con intimo sentimento (re bemolle maggiore)
  5. Sonetto 104 del Petrarca - Agitato assai - Adagio (mi maggiore)
  6. Sonetto 123 del Petrarca - Lento placido (la bemolle maggiore) - Sempre lento - Più lento
  7. Après une lecture de Dante, «fantasia quasi sonata» -Andante maestoso - Presto agitato assai - Tempo I (Andante) - Andante (quasi improvvisato) - Andante - Recitativo - Adagio - Più mosso - Tempo rubato e molto ritenuto - Andante. Più mosso - Allegro - Allegro vivace - Presto. Andante (Tempo I)
Organico: pianoforte
Composizione: 1846 - 1849
Edizione: Schott, Magonza, 1858

Il n. 1 è utilizzato nell'Ave Maria III, S 60
Guida all'ascolto (nota 1)

Liszt è stato ritenuto, a giusta ragione, il pianista per eccellenza, colui che continuò e sviluppò la via già indicata da Clementi, Beethoven e Weber e nello stesso tempo gettò le fondamenta del pianismo moderno, come riconobbe Ferruccio Busoni. Mentre Paganini, che fu quello strabiliante virtuoso dell'archetto che tutti conosciamo, ebbe seguaci, ma non successori e si può dire che rimase un fenomeno a sé, Liszt con il suo tecnicismo ferratissimo e il suo titanismo scalpitante e focoso fece scuola e la sua lezione si estese e si protrasse oltre la sua epoca, tanto è vero che ancora oggi si può parlare di stile lisztiano, se si rispettano certe caratteristiche di impostazione e di sviluppo del gioco pianistico che furono proprie del musicista ungherese.

Certo, il pianismo di Liszt fu unico nel suo genere e riempì di sé tutto il periodo romantico, distinguendosi nettamente dal pianismo di Chopin, che pure ebbe una importanza fondamentale nell'ambito dell'arte romantica. Chopin usò il pianoforte in funzione di un intimismo espressivo che rifuggiva da qualsiasi perorazione oratoriale e retorica; il pianoforte venne inteso da lui come strumento delle confessioni dell'animo e non come mezzo di esibizionismo e di autoesaltazione dell'Io, categoria creatrice e dominatrice del pensiero romantico. Per Liszt il pianoforte fu, sì, la tastiera dei sogni, delle contemplazioni e delle evasioni dalla realtà, ma anche lo strumento in cui egli seppe riversare tutta la piena dei sentimenti, con una ricerca di effetti timbrici e coloristici senza precedenti e con una invenzione di trovate, come ad esempio i passi di estrema agilità nella zona acuta dei tasti, che non sempre erano sfoghi esteriori di un temperamento scapigliato ed esuberante.

Naturalmente il virtuosismo trascendentale del pianismo lisztiano non poteva non suscitare, con il mutare dei gusti e delle mode, un sentimento di freddezza e di più distaccata adesione presso l'enorme schiera degli ascoltatori; ma non si possono ignorare i vantaggi che a suo tempo quella tendenza provocò nella musica strumentale moderna, come la maestria tecnica ingigantita attraverso l'assoluto dominio di tutte le possibilità meccaniche, dinamiche ed espressive dello strumento. Del resto le tre raccolte delle Années de pèlerinage, première année (Suisse), deuxième année (Italie) e troisième année (in quest'ultima sono incluse le fosforescenti e liquescenti sonorità de Les jeux d'eau a la Ville d'Este), le Vingtquatre Grandes Études, le Etudes d'exécutìon transcendante d'après Paganini (il terzo dei sei pezzi è l'arcinota trascrizione de La campanella dal rondò finale del Secondo Concerto in si minore per violino e orchestra di Paganini: una melodia fresca e zampillante, immersa in un vorticoso turbinìo di trilli, di scale, di tremoli e di arpeggi che evocano una atmosfera di seducente felicità sonora) e le diciannove Hungarian Rhapsodies costituiscono dei punti fermi nella storia pianistica e nessuno può negare i valori musicali sparsi a piene mani in queste pagine, pur tra alcune uscite tecnicistiche di un funambolismo circense.

Non per nulla è stato affermato da Busoni che, se Bach è l'alfa della composizione pianistica, Liszt ne è l'omega, in quanto riassume dal punto di vista della struttura tutte le esperienze precedenti maturate sotto la sigla del classicismo e preannuncia quelle libertà formali che troveranno ampio sfogo e attuazione nella musica sul finire dell'Ottocento e nel secolo ventesimo. Lo stile pianistico lisztiano è presente nella sua ampiezza e ricchezza timbrica e ritmica nella poderosa (più di 50 minuti di musica) raccolta delle Années de pèlerinage dedicata all'Italia e composta durante i viaggi compiuti nel nostro paese dall'autore tra il 1838 e il 1839. Il primo brano "Sposalizio" vuole essere una libera rievocazione delle impressioni provate alla vista della celebre tela di Raffaello sulle nozze tra Maria e Giuseppe che si trova nel museo di Brera a Milano. Liszt costruisce una tessitura sonora quanto mai dolce e di intonazione religiosa, nel solenne cadenzare degli accordi tesi verso una trasfigurazione quasi mistica, come un antico canto chiesastico. Il pezzo successivo "Il Pensieroso" è ispirato alla statua scolpita da Michelangelo per la tomba di Lorenzo e Giuliano dei Medici a Firenze, nella chiesa di San Lorenzo. È un tema di marcia funebre che si ripete in forma ossessiva, tenendo presente la quartina scritta dallo stesso Michelangelo, che dice: "Caro m'è il sonno, e più l'essere di sasso / Mentre che'l danno e la vergogna dura. / Non veder, non sentir m'è gran ventura; / Però non mi destar, deh! parla basso!". La "Canzonetta del Salvator Rosa" è una marcia scherzosa, su una trascrizione pianistica di una melodia attribuita al pittore barocco Salvator Rosa, ma probabilmente di Giovanni Battista Bononcini (1670-1747). I versi della canzoncina dicono: "Vado ben spesso cangiando loco / Ma non si mai cangiar desio / Sempre l'istesso sarà il mio foco / E sarò sempre l'istesso anch'io". Seguono tre Lieder o romanze senza parole, che si richiamano a tre sonetti di Francesco Petrarca, scritti "In vita di madonna Laura". In origine queste pagine erano state composte per la voce di tenore, ma poi Liszt le trascrisse per solo pianoforte. Molto delicata è la linea espressiva del "Sonetto 47" in re bemolle maggiore, con l'utilizzazione di quinte diminuite di penetrante effetto emotivo, tale da ricordare la musica del Venusberg del Tannhäuser, composto qualche anno più tardi da Wagner. Per comprendere meglio il sentimento intimo dell'invenzione lisztiana vale la pena di rileggere il sonetto di Petrarca: "Benedetto sia 'l giorno e 'l mese e l'anno / E la stagione e 'l tempo e l'ora e 'l punto / E 'l bel paese e 'l loco ov'io fui giunto / Da duo begli occhi, che legato m'hanno: / E benedetto il primo dolce affanno / Ch'i ebbi ad essere con Amor congiunto, / E l'arco e le saette ond'io fui punto / E le piaghe ch'infin al cor mi vanno. / Benedette le voci tante ch'io, / Chiamando il nome di mia Donna, ho sparte, / E i sospiri e le lagrime e 'l desio; / E benedette sien tutte le carte / Ov'io fama le acquisto, e 'l pensier mio, / Ch'è sol di lei, sì ch'altra non v'ha parte". Il "Sonetto 104" in mi maggiore si apre con un recitativo patetico, ma poi acquista una intensità e uno slancio cantabile, fra tonalità diverse e con precise indicazioni di esecuzione (Vibrato-Con esaltazione-Languido-Dolce dolente) in cui c'è tutta l'anima pianistica lisztiana. Ecco i versi del sonetto: "Pace non trovo, e non ho da far guerra; / E temo e spero, ed ardo, e son un ghiaccio; / E volo sopra 'l cielo, e giaccio in terra; / E nulla stringo, e tutto 'l mondo abbraccio. / Tal m'ha in prigion che non m'apre né serra, / Né per suo mi ritien né scioglie il laccio; / E non m'ancide Amor e non mi sferra, / Né mi vuol vivo né mi trae d'impaccio. / Veggo senz'occhi; e non ho lingua, e grido: / E bramo di perir, e cheggio aita; / Ed ho in odio me stesso, ed amo altrui: / Pascomi di dolor; piangendo rido; / Egualmente mi spiace morte e vita. / In questo stato son, Donna, per vui".

Il "Sonetto 123" in do maggiore è un poema d'amore realizzato con straordinaria finezza nelle varie combinazioni sonore del pianoforte; è un Lied in forma tripartita, in cui i diversi episodi sono collegati fra di loro dalla stessa melodia di canto. La poesia petrarchesca dice: "I' vidi in terra angelici costumi / E celesti bellezze al mondo sole; / Tal che di rimembrar mi giova e dole; / Che quant'io miro par sogni, ombre e fumi. / E vidi lagrimar que'duo bei lumi, / C'han fatto mille volte invidia al Sole; / Ed udii sospirando dir parole / Che farian gir i monti e stare i fiumi. / Amor, senno, valor, pietate e doglia / Facean piangendo un più dolce concento / D'ogni altro che nel mondo udir si soglia; / Ed era 'l cielo all'armonia si 'intento, / Che non si vedea'n ramo mover foglia; / Tanta dolcezza avea pien l'aere e 'l vento".

L'ultimo brano della raccolta, "Après une lecture du Dante", prende il motivo ispiratore dalla Divina Commedia, un testo molto amato da Liszt, per una raffigurazione sonora di tre momenti tipici del poema: l'inferno, l'angosciosa supplica dei dannati e l'episodio di Paolo e Francesca. L'intero movimento, che si articola in più tempi, ha l'ampiezza e il respiro di una vera e propria Sonata e sul piano formale ha molti punti di contatto con la ben più celebre Sonata in si minore del 1852-'53. Il tritono, un tempo definito dagli articoli teorici del contrappunto, il "diabolus in musica", caratterizza il tema principale su ottave discendenti, quasi ad indicare il significato dei versi danteschi dell'inizio del terzo canto dell'Inferno ("Per me si va nella città dolente, / Per me si va nell'eterno dolore, / Per me si va tra la perduta gente. / Giustizia mosse il mio alto fattore: Fecemi la divina potestate, / La somma sapienza e 'l primo amore. / Dinanzi a me non fuor cose create / Se non etterne, e io etterna duro. / Lasciate ogni speranza voi ch'entrate". Una frase cromaticamente vivace e dai colori accesi evoca la supplica dei dannati e la terribile pena che ognuno di essi reca nel corpo e nella mente. L'atmosfera si schiarisce e diventa liricamente appassionata nella scena d'amore tra Paolo e Francesca, concepita come una variazione dei temi già ascoltati. Ritornano i temi dell'inferno e dell'amore di Francesca, quest'ultimo in forma sincopata, e alla fine, dopo un'esplosione sonora in cui sono ricapitolati i vari motivi, tutto s'acqueta su accordi gravi e solenni: la porta dell'inferno si chiude definitivamente alle spalle delle "genti dolorose c'hanno perduto il ben dell'intelletto", come recita Dante, mentre sta per entrare nel girone degli ignavi e dei vigliacchi.


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 8 febbraio 1985


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Ultimo aggiornamento 1 maggio 2013