Le Rapsodie ungheresi nascono dal viaggio nella terra natale del 1839-40: accolto da eroe nazionale, Liszt si commuove e scambia le nostalgiche derivazioni e corruzioni della musica zigana per le fondamenta etno-musicali della nazione ungherese (che saranno ritrovate assai più tardi, da Bartók e Kodàly). Nessuno cesserà più di rimproverargli l'equivoco fatale: quasiché, poi, l'amore dei romantici per il folklore non fosse tutto, o quasi, fondato sull'equivoco, e non avesse nel suo seno una dose massiccia - e quanto - di oleografia astorica ed ascientifica. Di coloriti grevi è perfino il folklore di un Delacroix (per non parlare di quello di un Berlioz): è il pittoresco che decisamente prevale, e si resta nell'ambito di quel soggettivismo che si usa chiamare «sentimento della natura» e che sarebbe più appropriato chiamare «sentimentalizzazione della natura» perché è l'uomo che si proietta nella natura e non la natura nell'uomo. Nascono dunque le Rapsodie ungheresi dal viaggio in Ungheria nel 1839-40: e sono dapprima le Ungarische Nationalmelodien pubblicate tra il 1840 e il 1847 a Vienna, presso Haslinger: a dire il vero ventiquattro sono quelle composte, venti quelle pubblicate, in dieci libri o quaderni (anzi, undici, con quello dedicato al conte Apponyi). E dieci, le ultime dieci, già portano il titolo Rhapsodies hongroises. Già nel 1846 Liszt le riprende in mano, e ne rielabora diciannove, l'ultima nel 1885: la pubblicazione ne avviene tra il 1851 e il 1886, titolo Hungarian Rhapsodies.
«Lassan» e «Friska»: due movimenti di danza in misura binaria che si alternano bruschi ed improvvisi, «fantasticheria melanconica, piena di languore febbrile e cupo», il primo, «slancio focoso e balzante», il secondo, nelle parole di Raoul Aguettant. Gamma «ungherese» a due seconde aumentate (e quindi con ricchezza di intervalli dissonanti). Contrattempi. Sincopi. Trasferimento al pianoforte della tecnica percussiva del colpo d'arco del violino zigano e del «cimbalom». Bene: tutto questo lo si trova, tanto per fare un esempio, sia nella seconda sia nella terza delle Rapsodie ungheresi. Ed allora come si spiega che la terza, in si bemolle maggiore (originata dalla undicesima delle Ungarische Nationalmelodien del 1839-47 e rivista tra il 1847 e il 1853, anno della pubblicazione presso Haslinger a Vienna), suona così «diversa»? E ancor più che nell'episodio «andante», nel fantasmagorico «allegretto», squisito ricamo sonoro di staccati ribattuti, in «pianissimo», che si perde e si smorza, dopo un limpido gioco di pedali (e qui veramente il pedale «respira» con la nota, quasi con la singola nota), in una macchia armonica che è come un ritorno di vibrazioni speculari («lento, quasi echo»).
Carlo Marinelli