Concerto n. 2 in re minore per pianoforte e orchestra, op. 40 (MWV O11)


Musica: Felix Mendelssohn-Bartholdy (1809 - 1847)
  1. Allegro appasionato (re minore)
  2. Adagio. Molto sostenuto (si bemolle maggiore)
  3. Finale. Presto scherzando (re maggiore)
Organico: pianoforte solista, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, archi
Composizione: Bingen am Rhein, 5 Agosto 1837
Prima esecuzione: Lipsia, Gewandhaus Saal, 19 Ottobre 1837
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia, 1838
Guida all'ascolto (nota 1)

Scritto nel 1837, cinque anni dopo il primo e più famoso Concerto in sol minore op. 25, il Concerto in re minore op. 40, pubblicato a Lipsia l'anno successivo, presenta varie analogie strutturali con l'op. 25, sia nei tre movimenti che si susseguono senza soluzione di continuità, sia per il carallere brillante della scrittura pianistica che rivela chiare ascendenze weberiane nel tono gioiosamente virtuosistico che, tuttavia, si rivela estraneo alle forme deteriori dell'esibizionismo di bravura. Per questa ragione nel concerto non è inserita la cadenza che Mendelssohn giudicò sempre un episodio inutile in quanto, per il suo stesso carattere virtuosistico, avrebbe potuto interrompere la continuità e l'unità del discorso musicale. Concepito in un momento parlicolarmente fortunato della carriera del compositore amburghese, il Concerto si apre in un'esuberante atmosfera rivelatoria d'una esaltante gioia di vivere che talora si mostra aperta a certi atteggiamenti salottieri di carattere brillante che ricordano il pianismo di Thalberg e Kalkbrenner, compositori peraltro disprezzati da Mendelssohn per il loro pianismo esteriore. Lo stesso Mendelssohn, spesso critico nei confronti delle proprie opere, in una lettera del 12 luglio 1837 aveva scritto alla sorella Fanny: «II concerto non è molto importante come composizione, ma al pianoforte l'ultima parte fa un effetto di fuoco di artificio, tanto che io stesso ne rido, mentre Cécile non si stanca di ascoltarlo.» In realtà mentre il secondo movimento è costituito da un Adagio, concepito come un Lied ohne Worte in cui rifulge la scorrevole fluidità melodica tipica della scrittura mendelssohniana, il finale, Presto scherzando, è una esplosione di esuberante vitalità peraltro assai ammirata da Schumann che così parla del Concerto nei suoi scritti: «Certo sarebbe una spiacevole perdita se il concerto per pianoforte e orchestra andasse completamente in disuso: d'altra parte non si può dar torto ai pianisti quando dicono: "non abbiamo bisogno di nessun aiuto, anche da soli il nostro è uno strumento assolutamente completo." E quindi dobbiamo stare tranquillamente ad aspettare che arrivi il genio che sappia collegare l'orchestra al pianoforte in modo nuovo e scintillante, sì che il protagonista seduto al pianoforte possa dispiegare tutta la ricchezza del proprio strumento e della propria arte mentre però all'orchestra è affidata qualcosa di più di una semplice funzione di spettatore, potendo intervenire in scena arricchendo la trama musicale con i suoi multiformi caratteri. Una cosa però possiamo ragionevolmente chiedere ai compositori più giovani che vogliono darci, in cambio della severa e degna forma del Concerto, dei pezzi solistici oltretutto degni, non dei Capricci, non delle Variazioni, ma dei tempi d'Allegro elegantemente compiuti e ben caratterizzati, da suonare eventualmente all'inizio di un concerto. Fino ad allora dovremo spesso ricorrere a quelle antiche composizioni che, adatte ad aprire un concerto nel modo artisticamente più degno, sono anche un buon banco di prova per saggiare la solidità artistica del pianista, per esempio quelle magnifiche composizioni di Mozart e di Beethoven, oppure (se, in un ambiente più selezionato, si vuol far conoscere il volto di un grand'uomo ancora troppo poco apprezzato) una composizione di Sebastian Bach, o infine, se si vuole fare ascoltare qualcosa di nuovo, ci si rivolgerà a quelle composizioni che proseguono felicemente in modo adegualo l'antica strada, in particolare quella tracciata da Beethoven. Fra queste ultime annoveriamo, fatte le debite riserve, due recenti Concerti di I. Moscheles e di F. Mendelssohn-Bartholdy... Vogliamo rivolgere un particolare ringraziamento ai nuovi autori di Concerti per il fatto che essi non ci annoiano più, alla fine, con trilli e salti d'ottava. La vecchia Cadenza, in cui gli antichi virtuosi sfoggiavano tutta la bravura possibile, si basava su un'idea ben più solida e forse potrebbe oggi essere riutilizzata felicemente. E non si potrebbe introdurre efficacemente nel Concerto anche lo Scherzo, quale ormai ci è stato reso familiare dalla Sinfonia e dalla Sonata? Sarebbe una bella lotta con le singole parti dell'orchestra, anche se la forma complessiva del Concerto dovrebbe naturalmente subire qualche piccola modifica. Mendelssohn dovrebbe riuscire a fare ciò meglio di chiunque altro.

Dobbiamo parlare appunto del Secondo Concerto di quest'ultimo. Davvero egli è sempre lo stesso: continua a procedere col suo solito incedere lieto e sereno, nessuno può avere sulle labbra un sorriso più bello del suo. In questo Concerto i virtuosi non avranno molte occasioni per fare sfoggio delle loro straordinarie capacità: da loro egli non richiede quasi niente che essi non abbiano fatto e suonato già cento volte. Spesso abbiamo sentito questa lamentela da parte dei virtuosi. E hanno in parte ragione: da un Concerto non dovrebbe essere esclusa la possibilità di mostrare la propria bravura con passaggi nuovi e brillanti. Ma la musica sta sopra ogni cosa e chi sa donarcela sempre nel modo più ricco merita sicuramente la nostra lode più alta. La musica è l'effusione di un'anima bella: non importa se fluisce davanti a centinaia di persone o per se soli nel silenzio: purché sia sempre l'espressione dell'anima bella. Ecco perché le composizioni di Mendelssohn hanno un così irresistibile effetto quando è lui stesso a suonarle: le dita sono solo un mezzo e potrebbero benissimo restare nascoste; l'orecchio solo deve percepire e il cuore poi decidere. Io immagino che Mozart dovesse suonare così. Se dunque Mendelssohn merita il lodevole riconoscimento che egli ci da sempre da ascoltare una tale musica, non possiamo peraltro negare che egli lo fa talvolta in modo un pò frettoloso, talaltra in modo più incisivo. Questo Concerto appartiene appunto alle sue opere meno accurate: forse mi sbaglio, ma credo di poter affermare che egli l'ha scritto in pochi giorni, se non in poche ore. E come quando si scuote un albero: il frutto più maturo e più dolce cade al primo colpo. Si chiederà in che rapporto stia questo ora col suo Primo Concerto: è lo stesso e non lo stesso: è lo stesso in quanto è scritto da un Maestro abile ed esperto, non è lo stesso in quanto è stato scritto dieci anni più tardi (?). Qua e là si intravede Sebastìan Bach nella conduzione armonica. Melodia, forma e strumentazione sono invece tutta proprietà di Mendelssohn.

Rallegratevi dunque di questo dono, un pò leggero ma sereno; assomiglia tutto a una di quelle opere, quali talvolta si incontrano negli antichi Maestri, in cui essi riposavano dopo le loro più grandi creazioni. Il nostro giovane Maestro non dimenticherà certamente il fatto che tali antichi compositori facevano poi spesso subito una nuova, improvvisa comparsa con qualche opera poderosa, e di ciò sono una riprova il Concerto in re minore di Mozart e quello in sol maggiore di Beethoven.»

Ennio Melchiorre


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 12 Dicembre 1993


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Ultimo aggiornamento 20 settembre 2012