Ottetto in mi bemolle maggiore per archi, op. 20 (MWV R20)


Musica: Felix Mendelssohn-Bartholdy (1809 - 1847)
  1. Allegro moderato ma con fuoco (mi bemolle maggiore)
  2. Andante (do minore)
  3. Scherzo. Allegro leggierissimo (sol minore)
  4. Presto (mi bemolle maggiore)
Organico: 4 violini, 2 viole, 2 violoncelli
Composizione: Berlino, 15 ottobre 1825
Prima esecuzione: Parigi, Salle de Concert du Conservatoire Nationale de Musique, 17 marzo 1832
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia, 1830
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Il concerto mendelssohniano si apre con uno dei capolavori giovanili del musicista, l'Ottetto in mi bemolle maggiore per 4 violini, 2 viole e 2 violoncelli op. 20, completato il 20 ottobre 1825. L'autore scrisse sulla partitura autografa queste parole: «Questo Ottetto va suonato da tutti gli strumenti nello stile di un'orchestra sinfonica. I piani e i forti debbono essere rispettati attentamente e sottolineati con più forza di quanto si usa in opere di qusto genere». In effetti l'Ottetto presenta una scrittura abbastanza complessa e rivela a tratti un respiro sinfonico, anche nel rispetto della sua ridotta struttura strumentale.

L'Allegro iniziale in mi bemolle maggiore è caratterizzato da un tema morbido e flessuoso, riproposto più volte nel corso del primo movimento, che è il più esteso dei quattro. Molto belle ed espressive le modulazioni e il gioco del ritardo e del crescendo che conferisce un senso misterioso all'elegante stesura armonica. Lo sviluppo sembra ad un certo punto arrestarsi, per poi riprendere con rinnovata energia giovanile.

L'Andante in do minore poggia su una melodia delicatamente elegiaca ed è un momento di assorta contemplazione, pur nella varietà e nell'intreccio delle tonalità. La pagina più caratteristica e significativa dell'Ottetto è lo Scherzo in sol minore del terzo tempo: qui si rivela la cifra espressiva del migliore Mendelssohn, quello universalmente ammirato del fantasioso e magico Sogno di una notte d'estate. Tutto è semplice, chiaro e scorrevole e la polifonia strumentale è quanto mai leggera e impalpabile, in un quadro sonoro formalmente ineccepibile.

Il Presto finale in mi bemolle maggiore è una fuga in cui si rivela la solida preparazione contrappuntistica del musicista e l'abilità nel trattare con straordinaria sicurezza le capacità espressive del piccolo complesso strumentale. Un senso di sereno e tonificante benessere si diffonde a conclusione dell'ascolto del mirabile Ottetto.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Felix Mendelssohn compose l'Ottetto op. 20 nel 1825, a sedici anni. Nonostante fosse in età giovanissima il compositore aveva già al suo attivo un numero cospicuo di opere sinfoniche e cameristiche, prodotte grazie alla forza di un talento trascinante, ma anche grazie all'influenza dell'ambiente berlinese (a Berlino i Mendelssohn si erano trasferiti da Amburgo nel 1811), fertilissimo e ricco di stimoli culturali, alle esperienze di viaggio, agli studi rigorosi e insieme vastissimi. Dunque le Sinfonie per archi, i Quartetti per pianoforte e per archi, i brani pianistici, i Lieder che precedono l'op. 20 sono i primi frutti di un denso travaglio formativo che trova nell'Ottetto la prima, davvero clamorosa affermazione, tanto che è lecito affermare che il compositore non superò mai in seguito, nell'ambito della musica da camera, il livello creativo di questo capolavoro giovanile.

Differenti fattori concorrono all'eccellenza della partitura. Occorre osservare innanzitutto che, nell'accezione di Mendelssohn, la stessa forma dell'Ottetto per archi era qualcosa di inedito nella storia della musica. Non mancavano, infatti, esempi di musica da camera destinati a piccoli complessi di sei, sette, otto strumenti, ma la presenza di strumenti a fiato rendeva queste composizioni concettualmente disimpegnate, retaggio di una concezione della musica come puro intrattenimento di matrice ancora settecentesca. Nel campo della musica per soli archi, quella più complessa e destinata agli intenditori, Louis Spohr aveva già creato il primo dei suoi Doppi Quartetti, composizioni in cui in realtà un Quartetto d'archi si limita ad accompagnare un altro complesso gemello, che da solo sostiene la complessità del discorso musicale. La novità del brano di Mendelssohn consiste dunque già nella complessità polifonica, che richiede un impegno pressoché paritetico a tutti gli strumenti, con una scrittura che per molti versi può essere considerata "sinfonica". E, in questa prospettiva, è illuminante l'indicazione riportata dallo stesso compositore sulla partitura autografa: «Questo Ottetto va suonato da tutti gli strumenti nello stile di un'orchestra sinfonica. I piani e i forti vanno rispettati attentamente e sottolineati con più forza di quanto si usa in opere di questo genere».

Occorre poi rilevare come altri fattori di novità risiedano nella concezione formale e nell'invenzione musicale. Apparentemente rispettoso delle norme costruttive della forma classica, Mendelssohn cementa l'unità della partitura con un uso ciclico di alcune idee tematiche; e del tutto peculiare è la configurazione del discorso musicale, inquieto, duttile, sfuggente. Già il primo movimento esemplifica splendidamente questo dato, essendo costruito sulla base di un unico motivo musicale - un tornito arpeggio che viene iterato innalzandosi progressivamente - che diviene protagonista di continue, variatissime trasformazioni espressive. Similmente nell'Andante si impongono all'attenzione del'ascoltatore non il profilo della melodia, ma le continue peregrinazioni armoniche, tramiti di una sottesa irrequietezza emozionale. Alla base dello Scherzo si pone un'idea programmatica, derivata da una strofa del Faust goethiano ("II volo delle nubi, la nebbia col suo velo / hanno un chiarore dall'alto. / L'aria nel pergolato, il vento nel camino, / tutto svanisce"). Il vorticoso, leggerissimo intreccio delle voci strumentali è un vero capolavoro di scrittura, e si comprende che il compositore abbia trascritto per orchestra questo movimento, prototipo di sue successive pagine fiabesche, per inserirlo nella sua Prima Sinfonia. Prevalentemente contrappuntistica è l'impostazione del Finale, che principia con un fugato, e che lascia tuttavia spazio anche a espansioni melodiche solistiche; nella frenesia e nella trasparenza di scrittura della stretta cogliamo l'enfasi giovanile del compositore, il suo perfetto dominio del materiale, l'impronta stupefacente della sua precoce maturità.

Arrigo Quattrocchi

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Per tramite dell'Ottetto per archi in mi bemolle maggiore op. 20, privo di reali precedenti, il quindicenne Felix s'impone, con un balzo straordinariamente ambizioso, innanzitutto grazie alla novità formale d'un pezzo monumentale concepito per un organico da sé scelto e profilato: non, come peraltro si poteva trovare in letteratura (in Spohr, ad esempio), il doppio quartetto d'archi, bensì un organismo coeso, dall'inedita vocazione sinfonica, in cui, al tempo stesso, gli otto strumenti sono dotati ciascuno d'un ruolo proprio. Innovativa è anche la concezione intimamente ciclica della composizione, che esclude il solo secondo tempo da un gioco di rimandi inaspettato e tanto più sorprendente. Colpirà tuttavia di primo acchito l'ascoltatore soprattutto la grazia aurorale di un'invenzione tematica di ascendenza propriamente haydniana, nella tendenza - lo sostiene lo specialista Eric Werner - a eludere il confronto dialettico serrato tipico di Beethoven (ancora in vita alla genesi di queste pagine) a favore d'una derivazione dei temi l'uno dall'altro, nell'ottica d'una profonda integrazione organica dell'intera composizione. Integrazione che peraltro non esclude il susseguirsi di sbalzi d'umore repentini e inopinati, in una condotta delle parti d'inesausta fantasia, a dar vita a una sorta di commedia sonora senza scene, non lontana dalle figure che avrebbero animato, un anno più tardi, il numero d'opus successivo, l'Ouverture op. 21 per il Sogno di una notte di mezza estate, in cui s'alternano altrettante elfiche levità e ilarità crassa, in sintonia con la coeva traduzione grafica del soggetto shakespeariano, da Füssli a Dadd a Maclise. In simile prodigio di esuberanza giovanile, concepito per l'amico violinista ventunenne Eduard Rietz (cui spettano effettivamente episodi di virtuosismo notevole), si guadagnò il plauso entusiasta di Schumann e rimase sempre tra i lavori preferiti del suo autore, che lo ripropose a più riprese negli anni della maturità, nel 1836 e nel '43, al Gewandhaus di Lipsia.

L'Ottetto si apre col tema svettante dell'Allegro moderato ma con fuoco, che ricorda nel disegno e nel tono quello dell'Allegro con spirito del Quartetto "dell'alba" op. 76 n. 4 di Haydn (1797). Il corredo del primo tema è ricco di almeno quattro motivi differenti (si noti en passant come quasi tutti i temi dell'Ottetto siano di matrice marcatamente strumentale), che proliferano vibratili e variamente combinati in contrappunto tra energici sforzandi, aeree scalette e staccati di semicrome in punta di piedi; un ponte modulante basato sul quarto motivo introduce poi il liederistico secondo tema al quinto grado (si bemolle maggiore), caldo effluvio melodico schubertiano affidato al canto, nel registro medio, di violino IV e viola I, a sua volta accompagnato da un motivo secondario, complementare rispetto al principale e dalla ripresa di altri spunti già ascoltati nel corso dell'esposizione, che si chiude con una codetta sostanziata dal primo tema. Lo sviluppo, aperto sul primo tema, assume ben presto un piglio perentorio, in fortissimo, esibendo una prolungata staticità da cui non l'affrancano episodi dalla fisionomia imprevista, finché la comparsa del secondo tema, ben presto trattato in contrappunto, non offre all'ascoltatore un profilo familiare, dal quale si approderà, attraverso laceranti dissonanze e una sezione dinamica basata sulla sincope a tutte le voci e seguita da furiose scorribande di semicrome, all'effettiva ripresa, assai abbreviata. S'apprezzi infine il coronamento di questo primo tempo, una coda al tempo stesso imponente e ironica, fondata sul materiale del ponte modulante dell'esposizione, che protende fino alle estreme misure l'eco dell'esuberante primo tema.

Una sorta di barcarola, un Andante elegiaco impiantato al relativo minore (do) occupa la seconda posizione dell'Ottetto, elusivo tanto nella riservatezza reticente dell'espressione, quanto nell'architettura formale che vi presiede. È lecito infatti (tale la lettura di Thomas Schmidt-Beste) interpretarlo sia come un'anomala forma sonata, sia come una forma binaria non priva d'interesse. Nel primo caso, a un'esposizione ricca di ben tre temi senza contrasti drammatici evidenti segue uno sviluppo fondato sul secondo tema e una ripresa abbreviata che esclude, irritualmente, il primo tema, che fa invece la sua comparsa nella coda. Nell'altro caso, a una prima parte ne succede una seconda in cui i tre temi sono proposti in ordine diverso (quello originario I-II-III è sostituito dalla sequenza II-III-I). Il carattere oscillante del tema, costruito per giustapposizione di brevi cellule, si associa a una radicale incertezza armonica, che conduce il primo tema attraverso quattro tonalità entro 15 misure dall'attacco dell'esposizione, mentre non sempre la dissonanza perviene a una scolastica e puntuale risoluzione: caratteristiche da réverie malinconica che piaceranno ai romantici successivi, come ad esempio lo Smetana del Quartetto in mi minore.

Dalle nebbie del sogno si è bruscamente ridestati dal fragoroso pianissimo del crepitante scherzo, la «perla della partitura» (Eric Werner), quell'Allegro leggierissimo per il quale Felix riferì alla sorella Fanny di essersi ispirato ai versi conclusivi dell'episodio del sabba della streghe della Notte di Valpurga dalla Parte prima del Faust di Goethe (episodio al quale, com'è noto, Mendelssohn avrebbe dedicato in età adulta una monumentale pagina sinfonico-corale). «Il volo delle nubi», la nebbia, il vento illuminati da un chiarore sinistro presiedettero alla genesi della prima Elfenmusik, eterea invenzione dall'irrefrenabile dinamismo e dai bagliori corruschi, autentico anticipo del Sogno di una notte di mezza estate. Tanta mobilità è il prodotto di una sofisticata struttura polifonica che simula, con classica sprezzatura, un'immediata semplicità di scrittura all'interno di un discorso regolarmente organizzato in forma sonata. Nel 1829, orchestrato, il movimento sostituì come Scherzo il Minuetto della Sinfonia in do minore op. 11. L'Ottetto si chiude col trionfo d'un centrappunto a otto voci di meravigliosa forza espressiva, nell'eroica euforia e nella vertigine da perpetuum mobile (compiici forse la memoria del Flauto magico mozartiano e del Beethoven del Quartetto op. 59 n. 3?) del Presto, in cui ritornano, quasi implacabili creature ctonie, gli elfi dello Scherzo, puntualmente e irritualmente citati, in omaggio alla già citata tensione ciclica di questo lavoro sconcertante.

Raffaele Mellace


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia.
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 11 gennaio 1991
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 2 novembre 1988
(3) Testo tratto dal libretto inserito nel CD allegato al n. 237 della rivista Amadeus


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Ultimo aggiornamento 15 febbraio 2014