Chants populaires hébraïques, op. 86b

Versione per voce e orchestra

Musica: Darius Milhaud (1892 - 1974)
Libretto: tradizionale
  1. La séparation
  2. Le chant du veilleur
  3. Chant de délivrance
  4. Berceuse
  5. Gloire à Dieu
  6. Chant hassidique.
Organico: voce, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, 2 tromboni, timpani, percussioni, archi
Composizione: 1925
Edizione: Heugel & Cie., Parigi

Vedi anche la versione per voce e pianoforte, op. 86
Guida all'ascolto (nota 1)

Nel 1918 apparve in alcune librerie parigine un opuscolo di Jean Cocteau dal titolo «Le Coq et l'Arlequin» (Il Gallo e l'Arlecchino), in cui l'animatore più lucido e scanzonato della giovane avanguardia francese del tempo esprimeva pensieri brillanti e osservazioni impertinenti sull'arte in generale e sulla musica in particolare. Un parlare franco e senza metafora su quella che doveva essere la strada da percorrere per disintossicarsi dalla narcosi dell'impressionismo, così da assumere un atteggiamento artistico più concreto e umano sintetizzato nella seguente frase sottilmente polemica contro il «mostro sacro» Debussy e che allora suscitò notevole scalpore: «Assez de nuages, des vagues, d'ondines et de parfums la nuit; il nous faut une musique sur la terre, une musique de tous les jours». Con questo ritorno della musica sulla terra, in aperta reazione alle fumose e smidollate atmosfere del decadentismo impressionistico, nasceva l'estetica del cosiddetto «Gruppo dei Sei» (Darius Milhaud, Arthur Honegger, Francis Poulenc, Georges Auric, Louis Durey, Germaine Tailleferre), che elesse a suo patrono e santo protettore Erik Satie, musicista estroso e disuguale, ma importante e singolare soprattutto per lo spirito corrosivo e il temperamento ribelle che dimostrò in più occasioni nei confronti di ogni conformismo, dall'alto della sua socratica irriverenza nella solitudine di Arcueil, un quartiere industriale della periferia parigina.

Infatti la novità dei Sei non sta nell'aver proclamato e organizzato una nuova scuola e un nuovo stile in musica (erano artisti di diversa formazione e di varia provenienza etnica e culturale), quanto nell'aver espresso una posizione controcorrente di gusto decisamente francese (la lezione del primo Stravinsky di Petruska e del Sacre du printemps è seguita attentamente, ma tenuta a debita distanza, perché «inficiata di slavismo», come sostiene l'autorevole critico dei Six, Paul Collaer) tesa a valorizzare forme e soggetti più disparati con un linguaggio semplice e immediato, senza concessioni alle ragioni del cuore, e in cui si ritrova di tutto: dalla ricerca per le grandi costruzioni sonore ai ritmi vivaci e taglienti del jazz; dai richiami a Bach, inteso come controaltare di Beethoven, la cui grandezza è stata fin troppo consumata da tutti, alle melodie carezzevoli e orecchiabili del café-concert. Un movimento, quindi, di svecchiamento anche formale della musica, al di là di una certa sventatezza di libera fantasia solleticata e stimolata dall'esempio di Cocteau e di Satie, i due «ragazzacci» della cultura parigina degli anni Venti.

In questa équipe dei Six (la denominazione fu lanciata da Henri Collet in un articolo del periodico «Comoedia» intitolato: «Les Cinq Russes, les Six Francais et Erik Satie») il ruolo assolto da Milhaud, il francese di Provenza di religione israelitica, come egli stesso amava definirsi, è stato molto rilevante sia per la impressionante prolificità della produzione (più di 300 lavori, spazianti dall'operistica alla sinfonica - ben 12 sinfonie -, dalla cameristica e vocalistica al balletto) e sia per i risultati espressivi raggiunti in alcuni dei suoi componimenti, dove ha utilizzato con spregiudicata versatilità tecniche antiche e moderne, modi arcaici e politonalismi, temi della liturgia ebraica e ritmi sudamericani, fino alla predilezione per il rumore e le figurazioni cubiste, così care ai futuristi. A questo proposito vale la pena di ricordare i titoli di alcune composizioni più tipiche e degne di maggiore interesse di questo musicista, considerato, a giusto motivo, il presidente effettivo dei Six: il balletto Le boeuf sur le toit, la rutilante fantasia in forma di rondò su temi brasiliani che nel 1920 gli diede fama internazionale, la suite di danze per orchestra Saudades do Brasil (1920), La création du monde (1923), i tre atti Les Malheurs d'Orphée (1926), l'atto unico Le pauvre matelot (1927), il balletto Salade (1924), il mastodontico affresco teatrale Christophe Colombe (1930), la vigorosa cantata La mort d'un tyran (1932), l'opera David (1954), la trilogia da Eschilo L'Orestie (Agamennon, Les Choéphores, Les Euménides) (1963) e La mère coupable (1966), tre atti ricavati da un testo spiritoso di Beaumarchais, ultima parte del trittico dedicato al personaggio di Figaro.

Sentimentale, lirico, ma non dichiaratamente romantico, sanguigno, aggressivo, ironico, eccentrico e anticlassico (il suo rifiuto della razionale clarté raveliana è molto più marcato di quello espresso nei confronti delle evanescenti nuages debussyane), Milhaud è stato definito dai suoi esegeti un temperamento eclettico con tendenza all'estroversa fastosità barocca per la disinvolta bravura nel costruire opere grandiose e monumentali e «opéras-minutes», anche a scopo didascalico e descrittivo; ma a nostro avviso quello che colpisce di più in lui è la sua natura di artista solare e mediterraneo, amante più del colore che del discorso strumentale (il suo primo entusiasmo giovanile, a parte il legame profondo con la poesia di Claudel, è stata la pittura di Cézanne) e rivolto a tratteggiare situazioni psicologiche chiare e dai contorni netti, espresse con una musica sostanzialmente sobria nella ricerca dell'equilibrio sonoro ed estremamente varia e articolata nella strumentazione.

I sei Canti ebraici, ma stasera ne vangono eseguiti cinque, senza il quinto intitolato "Gloire à Dieu", furono composti nel 1925 e risentono di quella musicalità istintiva e immediata che appartiene al temperamento creativo di Milhaud. Il primo, "La Séparation", ha una linea morbida e suadente su melodie parallele e armonizzazioni di stampo impressionistico. Il secondo, "Le Chant du Veilleur", ha un tono perentorio e marcato con un discorso affidato al fraseggio dei fagotti e dell'ottavino. Il terzo è "Chant de Délivrance" quasi un'improvvisazione, in cui l'oboe con il suo timbro penetrante sottolinea la delicata espressività della voce. Una breve "Berceuse" è il quarto canto indicato dalla voce sulle armonie dei corni in sordina, degli archi, delle trombe e dei clarinetti. Si passa infine all'ultimo canto "Chant Assidique" (da Asso, antico centro della Misia) una pagina dai ritmi ribattuti su cui spazia la voce, punteggiata dagli interventi della percussione.


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia.
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 16 novembre 1986


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Ultimo aggiornamento 13 aprile 2017