Concerto per marimba, vibrafono e orchestra, op. 278


Musica: Darius Milhaud (1892 - 1974)
  1. Animé
  2. Lent
  3. Vif
Organico: marimba e vibrafono solisti, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, 2 tromboni, basso tuba, timpani, percussioni, arpa, archi
Composizione: Oakland, Mills College, 10 - 16 marzo 1947
Prima esecuzione: St Louis, Kiel Auditorium, 12 febbraio 1949
Edizione: Enoch, Parigi
Guida all'ascolto (nota 1)

Nonostante l'ampiezza della sua produzione (441 numeri d'opera) e la considerazione che lo ha accompagnato durante tutta la vita, Darius Milhaud non gode oggi di una larga diffusione nelle sale concertistiche. D'altra parte la medesima sorte è condivisa da quel vasto numero di compositori del nostro secolo che, non aderendo compiutamente a nessuna grande "scuola" o corrente e ricercando piuttosto una personale soluzione alla crisi del linguaggio musicale contemporaneo, si qualificano come pienamente indipendenti. Tale indipendenza si palesa fin dai primi anni dell'attività di Milhaud; all'interno del Gruppo dei Sei - il movimento sorto dopo la prima guerra mondiale attorno alla personalità di Jean Cocteau, e che si opponeva alla poetica impressionistica e alle eclettiche influenze internazionali - Milhaud esercitò un ruolo allo stesso tempo marginale ed emergente, per la relativa coincidenza delle sue idee con quelle dei colleghi e per il peso prepotente della sua personalità.

Carattere distintivo dell'opera di Milhaud è il lirismo mediterraneo prevalentemente melodico - profondamente correlato all'origine provenzale dell'autore - sul quale si innestano influssi stilistici eterogenei e culturalmente distanti (neoclassicismo, jazz, politonalismo), assimilati dall'autore nel corso della sua instancabile attività di viaggiatore, soprattutto nel periodo fra le due guerre. È evidente come gli aspetti provocatori di uno stile così composito e personale fossero destinati a stemperarsi nel clima culturale del secondo dopoguerra; e infatti negli anni della maturità Milhaud subì un processo involutivo, rinunciando all'aggressività del suo linguaggio, frutto di un polemismo un po' superato, per un richiamo alla classicità. In questa prospettiva si inserisce anche il Concerto per marimba, vibrafono e orchestra op. 278, che Milhaud scrisse nel 1947, l'anno del ritorno in Francia dopo la fuga negli Stati Uniti in seguito alle vicende belliche, e per motivi razziali; della medesima partitura l'autore pubblicò poi nel 1952 una versione per pianoforte e orchestra, sostanzialmente identica, sotto il titolo di Suite concertante.

L'idea di scrivere un concerto affidando il ruolo del solista ad uno strumento a percussione non era certamente nuova per Milhaud, il cui catalogo comprendeva fin dal 1929 un Concertino per percussione e orchestra da camera. Peculiare però più che l'impatto del vibrafono, appare la scelta della marimba, strumento idiofono a percussione di origine africana trapiantato in America, che trovò, in una veste organologica modernizzata, un certo spazio all'interno dei complessi jazzistici e poi anche nell'orchestra sinfonica, dove spesso è stata preferita allo xilofono per il timbro più caldo e le maggiori risonanze. C'è insomma in questa scelta quel tentativo di contaminazione fra culture diverse che tanta importanza riveste nel pensiero compositivo di Milhaud.

Il richiamo alla classicità di cui si diceva è ravvisabile nella stessa organizzazione formale del Concerto, che segue liberamente i tre movimenti di prammatica: forma sonata, canzone e rondò. L'orchestrazione comprende, oltre a arpa, legni, ottoni, archi al completo, un cospicuo organico di percussioni (timpani, gran cassa, celesta, xilofono), fra i quali tuttavia il solista emerge chiaramente. Ritroviamo inoltre nella partitura la propensione dell'autore per il piacere melodico e per il gioco fra linee melodiche, il suo gusto dell'impasto e del contrasto timbrico, l'impiego delle armonie modali e politonali.

In pratica l'intera partitura è segnata dalla concezione del far musica come gioco continuamente rinnovato, che si impone immediatamente nel movimento iniziale, Animé, innervato dall'impulso ritmico, da una garbata dialettica tematica e sopratutto dal gusto di integrazioni e contrasti fra il solista e la compagine. Il tempo centrale, Lent, è una sorta di sarabanda, aperta dal solista in un'ambientazione cameristica, dove si palesano le virtù incantatorie dello strumento, che si avvicendano con tessiture più dense, segnate da un peculiare studio dell'impasto timbrico. Quanto al finale, Vif, è forse il movimento più originale, aperto da un tema "alla Bach" tipico della maturità di Milhaud, e duttilmente impiegato nell'intreccio delle linee, che include anche una sezione a canone. Ma il tratto più evidente del finale è il suo vitalismo, che trova nella conclusione il suo esito dovutamente trascinante.

Arrigo Quattrocchi


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia.
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 26 ottobre 1997


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Ultimo aggiornamento 11 aprile 2017