Nessuno meglio di Monteverdi, di cui D'Annunzio cantò la gloria universale insieme a quella di Dante e Michelangelo, ha saputo conciliare nella sua poderosa e variegata opera i valori del polifonismo e della melodia accompagnata. Egli resta l'ideatore del dramma in musica che, attraverso le alterne vicende di stili e di scuole, gli arricchimenti e gli sviluppi della tecnica vocale, strumentale, teatrale e scenica, rimarrà costante nelle sue linee fondamentali fino ai nostri giorni. Suo è lo stile concitato, sua l'applicazione agli strumenti dei pizzicati e dei tremoli, secondo la maniera italiana introdotta subito dopo in Germania da Heinrich Schütz; suo è il nuovo linguaggio armonico legato alla disposizione per così dire psicologica delle famiglie strumentali e dei timbri dell'orchestra. Soprattutto sua è la capacità di risolvere con chiarezza di idee e organicità logica i problemi della realizzazione drammatica e dell'espressione lirica nel più stretto connubio di musica e poesia, additando la funzione eminentemente teatrale di entrambe le parti in modelli esemplari, studiati e analizzati prima che la questione fosse affrontata e chiarita da Gluck e da Wagner.
Anche nella musica di ispirazione religiosa Monteverdi reca il segno della sua personalità, operando una netta distinzione fra il metodo di composizione tradizionale (a cappella, per sole voci), secondo le indicazioni fissate dal Concilio di Trento, e il nuovo stile, definito anche concertato, in cui va tenuto nel debito conto il valore del testo, riservando ai solisti e agli strumenti una più intima partecipazione espressiva. Tale maniera di intendere il comporre è indicata dallo stesso Monteverdi come «seconda prattica», mirante a far scaturire il sentimento dalla parola, dato che, come dice il musicista, «lo scopo principale della musica ecclesiastica, essendo di eccitare nell'anima degli ascoltanti affetti di devozione, di ossequio e di venerazione verso l'infinita maestà di Dio, tutti i più celebri maestri hanno procurato nelle loro composizioni da chiesa d'usare uno stile tutto proporzionato a conseguire un tal fine...». Un esempio probante e indicativo di questa «seconda prattica» si può riscontrare nel Gloria a sette voci, incluso nella raccolta «Selva morale e spirituale» e scritto nel 1631 in occasione di una cerimonia religiosa di ringraziamento per la fine dell'epidemia di peste che aveva ucciso a Venezia oltre 46 mila persone, fra cui il più giovane figlio del maestro, Massimiliano.
Uno stato d'animo di lieta festosità contraddistingue il primo brano della composizione, caratterizzato da una gioiosa accensione ritmica in moto ascendente dei tenori, cuj si aggiunge il brillante vocalizzo dei soprani sulla parola Gloria, ripreso dai violini ed esteso ai tenori. Da questa raffigurazione simbolica del cielo si passa al riposante cadenzare dell'Et in terra pax, momento di tranquilla riflessione sulla sorte umana, bene indicata dal gioco cromatico delle voci. Nel Landamus te e nel Gratias agimus si ripresentano in forma modificata le stesse idee delle due parti precedenti. Il Qui tollis vuol descrivere con delicato lirismo il senso del dolore provocato dal peccato, mentre il Suscipe vuol sottolineare psicologicamente il momento della remissione e della liberazione dal peccato. Nel Quoniam tu solus sanctus si riaccendono le luminosità sonore iniziali per esaltare la gloria divina, in uno slancio di apoteosi espresso con un fitto contrappunto, in cui ad un certo momento appare un tripljce accordo ripetuto, evidente allusione al mistero della Trinità. Da ciò, disse un antico osservatore di cose musicali, «si vede apertamente quanto egli (Monteverdi) sia stato singolare in ritrovar suoni esprimenti l'energia delle parole e dei concetti».