L'Orfeo, SV 318

Favola pastorale in un prologo e cinque atti

Musica: Claudio Monteverdi (1567 - 1643)
Testo: Sandrino Striggio

Ruoli: Organico: 2 cornette, 4 trombe, 5 tromboni, 2 flauti a becco, 2 violini piccoli, 2 clavicembali, 3 chitarroni, 3 viole da gamba, arpa, archi, 2 piccoli organi a canne, organo portatile a canne
Prima rappresentazione: Mantova, palazzo Ducale, 24 febbraio 1607
Edizione: Ricciardo Amadino, Venezia, 1609
Dedica: principe Francesco Gonzaga
Sinossi

Prologo
La Musica introduce l'argomento della vicenda drammatica ("Dal mio Permesso amato") e richiama il potere rasserenante dei suoni, che fermano - come accadeva a Orfeo con il suo canto - le forze della natura.

Primo atto
Orfeo ed Euridice stanno per celebrare le nozze. Ninfe e pastori, raccolti intorno a loro ("In questo lieto e fortunato giorno"), li festeggiano con canti propiziatori ("Vieni, Imeneo, deh vieni") e danze ("Lasciate i monti, lasciate i fonti"). Orfeo si rivolge agli astri, testimoni della sua felicità ("Rosa del ciel, vita del mondo e degna"); a lui si associa Euridice.
Mentre tutti si dirigono al tempio, il coro invita a non abbandonarsi mai allo sconforto ("Alcun non sia che disperato in
preda").

Atto secondo
Orfeo fa ritorno ai suoi boschi e ai suoi prati ("Ecco pur ch'a voi ritorno"). Mentre i pastori lo accompagnano con lieti canti ("In questo prato adorno"), Orfeo si rallegra della sua felicità ("Vi ricorda, o boschi ombrosi"). Improvvisamente i lamenti della messaggera Silvia ("Ahi caso acerbo") annunciano una terribile sventura: Euridice è stata morsa da un serpente mentre coglieva fiori, ed è morta tra le braccia delle compagne. Orfeo, fuori di sé, esprime il proposito di scendere nell'oltretomba per riportare a sé la sposa ("Tu se' morta, mia vita, ed io respiro?"). Il coro compiange la sua triste sorte ("Ahi, caso acerbo, ahi fato empio e crudele!").

Atto terzo
Orfeo, guidato dalla Speranza, è giunto all'ingresso del regno delle ombre ("Ecco l'atra palude, ecco il nocchiero"). Qui, rimasto solo, incontra Caronte, il traghettatore delle anime dei morti, che tuttavia gli nega l'accesso ("Oh tu ch'innanzi morte a queste rive"). Orfeo prova a muoverlo a pietà ("Possente spirto e formidabil nume"); vista l'inutilità dei suoi sforzi, fa cadere nel sonno il severo guardiano intonando un canto e accompagnandosi con la cetra ("Ahi, sventurato amante"). Orfeo conduce allora la barca oltre lo Stige, mentre il coro degli spiriti infernali commenta, meravigliato, la straordinaria e coraggiosa azione ("Nulla impresa per uom si tenta in vano").

Atto quarto
Proserpina, commossa dagli strazianti lamenti di Orfeo che va aggirandosi per gli inferi, intercede in suo favore presso il consorte Plutone, pregandolo di restituire la sposa all'infelice. Plutone acconsente, ma pone una condizione: Orfeo non dovrà mai volgere lo sguardo a Euridice prima di aver lasciato il regno dei morti. Orfeo dà libero sfogo alla sua gioia ("Quale onor di te fia degno"); ma poi, sulla via del ritorno, è colto dal dubbio che Euridice lo stia seguendo davvero ("Ma mentre io canto, ohimè, chi m'assicura"). Si volge dunque a guardare la sposa, e così facendo infrange il divieto di Plutone, perdendola irrimediabilmente ("Dove te 'n vai, mia vita?"). Il coro degli spiriti commenta il fatto che Orfeo, pur vincendo le forze della natura, non sia riuscito a vincere se stesso ("È la virtute un raggio").

Atto quinto
Orfeo, fatto ritorno tra i vivi, piange amaramente la sua sorte ("Questi i campi di Tracia e quest'è il loco") riproponendosi di rinunciare per sempre all'amore e all'arte della musica. Apollo ascolta il suo lamento e, mosso a pietà, scende dai cieli per portarlo con sé ("Saliam cantando al cielo"), donandogli l'immortalità. Lassù Orfeo potrà contemplare, tra le stelle, il volto di Euridice. Il coro ("Vanne, Orfeo, felice appieno") osserva come il dolore sulla terra sia compensato dalla felicità in cielo.

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Quando L'Orfeo di Monteverdi venne rappresentato al Palazzo Ducale di Mantova, il 24 febbraio 1607, l'opera in musica non costituiva una novità assoluta: già da alcuni anni a Firenze si sperimentavano forme di teatro interamente cantato, che avevano destato un'eco grandissima. Nell'anno 1600, ad esempio, rappresentazioni del genere avevano accompagnato gli sfarzosi festeggiamenti - ai quali era presente il duca di Mantova Vincenzo Gonzaga - per il matrimonio di Maria de'Medici ed Enrico IV di Francia. È probabile che alla base dell'iniziativa mantovana del 1607, promossa dal principe ereditario Francesco, stesse il proposito di emulare i Medici.

Il progetto di mettere in scena un'opera in musica fu affidato all'Accademia degli Invaghiti, della quale faceva parte (col nome di "Ritenuto") il conte Alessandro Striggio che stese il testo poetico. Si trattava di una «favola in musica», su un soggetto già utilizzato da Ottavio Rinuccini per Jacopo Peri e Giulio Caccini, una storia ambientata nel mondo mitico dell'Arcadia. Il fatto che vi agissero personaggi irreali - dei, semidei, ninfe e pastori, figure allegoriche - poteva giustificare meglio l'inverosimiglianza sostanziale della rappresentazione, nella quale i personaggi, anziché recitare, si esprimevano cantando. Preparata con cura, la rappresentazione dell'Orfeo si tenne in una stanza del palazzo di corte, la «sala del partimento» (probabilmente l'odierna Galleria dei Fiumi), essendo il teatro di corte impegnato dallo spettacolare allestimento di una commedia. Una replica ebbe luogo il 1° marzo. Alcuni dei cantanti, come il castrato Giovan Gualberto Magli e il tenore Francesco Rasi (che probabilmente vestì i panni di Orfeo), vennero 'prestati' dalla corte medicea. Lo spettacolo fu realizzato con il concorso di un ricchissimo organico strumentale, comprendente ogni sorta di strumenti da tasto, ad arco, a fiato, a pizzico. Per l'occasione venne dato alle stampe il testo letterario; due anni più tardi fu pubblicata, a Venezia, la partitura, che consentì di realizzare nuovi allestimenti e contribuì grandemente alla notorietà dell'opera.

Nel testo del libretto stampato per la prima rappresentazione, il finale dell'opera è diverso da quello che conosciamo: i lamenti di Orfeo vengono interrotti dall'irruzione delle baccanti, che intonano un coro dionisiaco e puniscono il protagonista con la morte per le sue affermazioni misogine. Nella partitura, invece, Apollo - mosso a pietà dalla disperazione di Orfeo - scende dal cielo e porta con sé il cantore, beatificandolo. È stata avanzata l'ipotesi che Monteverdi abbia previsto le due soluzioni per due diversi auditori: il primo scioglimento (più sofisticato, in quanto aderente al mito originale) per gli accademici, il secondo (d'impronta più moraleggiante, se non cristiana) per il pubblico meno colto e raffinato della replica. Ma forse la spiegazione è più banale: lo spazio della sala in cui avvenne la prima rappresentazione era limitato (nella dedica del libretto si parla dell'«angustia del luogo») e non permetteva l'impiego di complicate macchine sceniche, come quelle che avrebbero dovuto portare in cielo Apollo e Orfeo.

Rispettoso delle regole tragiche, L'Orfeo è diviso in cinque atti e rispetta le unità di tempo e di azione. Ogni atto si conclude con un coro, con funzione d'intermedio, preceduto e seguito da interventi strumentali; ciò permette l'entrata e l'uscita dei personaggi e consente di realizzare i mutamenti di scena. Momenti corali intervengono numerosi anche nel corso dell'azione: Monteverdi vi sfoggia quella ricca scrittura della quale s'era già mostrato maestro nelle sue composizioni madrigalistiche. Anche nelle parti destinate al canto solo sfrutta l'esperienza della scrittura già sperimentata, ad esempio, nel quinto libro dei suoi madrigali. Le parti poetiche strutturate in versi strofici - che corrispondono a situazioni 'musicali' come canti, danze, cori, preghiere - vengono messe in rilievo con brani anch'essi strofici e chiusi, o con pagine polifoniche, o comunque con sezioni dal profilo cantabile. Il resto è reso con lo stile recitante e declamato, cui danno varietà e interesse procedimenti arditi nell'armonia e una costante attenzione per i contenuti espressivi. Esemplari, per mobilità dello stile e patetismo, il racconto della morte di Euridice, il lamento di Orfeo e tanti altri luoghi. Spiccata è la tendenza a creare grandi strutture musicali per dare risalto alle situazioni sceniche.

Nonostante l'ambientazione arcadico-pastorale, L'Orfeo di Monteverdi mostra una patina tragica che è assente nelle opere precedenti sullo stesso soggetto. Il taglio è più drammatico: l'azione, invece di basarsi su racconti che narrano gli eventi, presenta in tempo reale gli atti e le decisioni del protagonista. Monteverdi rivela, qui, un senso spiccato della teatralità, legata anche alla precisa individuazione psicologica del personaggio di Orfeo, al suo stile di canto vario e intenso che ne fa una figura autenticamente umana: il primo vero protagonista nella storia del teatro musicale moderno.

Claudio Toscani

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Nell'Euridice di Jacopo Peri (1600) chi presenta l'azione è «La Tragedia»; ne l'Orfeo di Claudio Monteverdi (1607) chi presenta l'azione è «La Musica». E' possibile che la scelta di tali presentatori sia stata fatta senza intenzioni particolari: ma la differenza di tali presentatori è straordinariamente significativa, e ci dice che la concezione monteverdiana della «favola in musica», ben poco, o nulla deve alia Camerata fiorentina, se non forse l'idea iniziale della rappresentazione scenica in musica (fermo restando il dubbio se l'artista che col Quinto libro de' madrigali aveva portato l'espressione madrigalistica alle soglie del dramma, non avrebbe varcato l'ultimo passo egli stesso per una irresistibile spinta interiore).

In fondo, l'ideale della Camerata fiorentina era quello di un gruppo di umanisti e di poeti «che amavano la musica», ed avevano fra loro qualche compositore che, condividendo le loro idee, si apprestò a rivestire di note una azione drammatica, in modo che la poesia restasse veramente la signora dell'espressione. E' la tragedia che annuncia il dramma, e non ha una parola per la musica, che - evidentemente - è considerata elemento secondario, umile ancella della poesia. Altro è l'ideale che si fa Monteverdi, nonostante la sua affermazione «èssere l'horatione signora dell'harmonia, et non ancella»: Claudio è così profondamente natura di musicista, così padrone di tutte le risorse dell'arte sua che può permettersi affermazioni simili, e credere anche in buona fede che questa sia la verità. Ma egli sa, sente, che la musica può esprimere tutto, che può creare un mondo nuovo, una vita nuova più alta e più intensa della nostra; e quando si tratta di presentare ai nobili signori della Corte di Mantova la sua «favola in musica», è la Musica che la presenta - la Musica, elemento primo dell'espressione, la musica che non illustra l'azione, che non si limita a sostenere un testo, ma ricrea tutto il dramma del suo intraducibile linguaggio e rivela quei moti dell'anima umana che vanno oltre il limite della parola. Poiché la sua musica nasce veramente dal profondo, per una profonda necessità umana, per un bisogno di espressione da comunicare ai suoi simili. Il testo può essere mediocre in sé (e ve ne sono di testi letterariamente mediocri nei madrigali!): ma Monteverdi lo intende sempre seriamente, lo interpreta come se il sentimento espresso dalla poesia fosse autentico e e non vano gioco di sillabe. Monteverdi si impegna a fondo come artista-uomo. La differenza è tutta qui: i fiorentini chiamano la musica a «collaborare» al dramma: Monteverdi che conosce tutta la ricchezza espressiva della propria arte vuole che essa crei il dramma, oltre il limite delle parole, oltre il limite della visione. E', a ben guardare, l'ideale del musicista-drammaturgo di razza: anche se egli possa non essere pienamente cosciente di tutto questo,

Se Monteverdi abbia assistito alle prime rappresentazioni dell'Euridice non si sa: è probabile che Vincenzo Gonzaga l'abbia condotto a Firenze per l'occasione. Ma se non presenziò alle rappresentazioni, Monteverdi dovette esserne subito informato e di prima mano da Francesco Rasi, cantore e compositore alla Corte di Mantova, ch'era stato «prestato» (secondo l'uso del tempo) dai Gonzaga alla Corte fiorentina per le rappresentazióni dell'Euridice di Peri. Quale impressione ebbe Monteverdi dagli spartiti di Peri e di Caccini non si sa, ma si può facilmente intuire: a lui, così profondamente musicista, dovette sembrare che nelle opere dei fiorentini la musica era eccessivamente sacrificata.

Non sappiamo se pensò subito all'Orfeo; fra le rappresentazioni fiorentine e quella dell'Orfeo passano sei anni, ma nessun documento, nessuna testimonianza ci resta sulle intenzioni di Monteverdi in quegli anni. La dedica premessa alla «favola in musica» permette di supporre che il principe Francesco abbia avuto qualche parte nel «nascimento» del lavoro. Ma quale? è a lui che si deve la prima idea? o si limitò egli a favorire la realizzazione dell'opera monteverdiana?

Intorno alla nascita di Orfeo, tutto è mistero; ignoriamo persino la data della prima rappresentazione (il 24 febbraio 1607, data della rappresentazione alla Corte è in realtà la data della seconda rappresentazione, poiché il frontispizio della prima edizione ci lascia comprendere chiaramente che, prima che alla Corte, vi fu una rappresentazione all'Accademia degli Invaghiti); ignoriamo perché il finale dell'opera com'è stampato nel libretto (l'uccisione di Orfeo compiuta dalle Baccanti, e lo strazio del suo corpo) sia sostanzialmente diverso da quello che figura nello spartito, dove Apollo scende dal cielo e consola e conduce con sé all'«Empireo » lo sventurato Orfeo. Le ricerche degli storici non hanno dato alcun risultato: Orfeo sembra essere nato perfetto come Minerva dal cervello di Giove, senza che nulla potesse farlo prevedere: come un fiore in una landa deserta.

E' probabile che Monteverdi abbia preso parte alla realizzazione del libretto dello Striggio. Per quanto la critica moderna non sia troppo tenera con questo, bisogna riconoscere che il libretto dello Striggio è congegnato molto abilmente, in modo da offrire al musicista il pretesto per esprimere una vasta gamma di sentimenti umani, in scene ed episodi «tagliati» con un'abilità da vero uomo di teatro, le scene tragiche son trattate con una sobrietà assai superiore a quella dei fiorentini, e se la preparazione al dramma propriamente detto può sembrare un po' lenta (un'atto e mezzo: ma quale ricchezza e varietà di episodi, quale vivezza di colori in quest'atto e mezzo), si osservi per contrasto come, dalla enunciazione del dramma (il racconto della Messaggera) sino, alla fine l'azione corra rapida, senza episodi decorativi, senza intoppi proprio come esigerebbe un drammaturgo dei giornil nostri.

Avuto il «libretto», Monteverdi si è accinto al lavoro chiamando in aiuto tutte le risorse che l'arte sua gli poteva offrire. Poiché è musicalmente che Monteverdi vuole esprimere il dramma: non vuole che, a fianco della poesia, la musica sia sacrificata: se pure non ha l'intuizione che, proprio per la sua potenza espressiva, nel dramma la musica è fatalmente destinata a prendere il primo posto.

Lo «stile recitativo» dei fiorentini, nelle sue mani diventa uno «stile drammatico» d'una forza e d'una intensità tali, che raramente sarà eguagliato in seguito. Il recitativo monteverdiano è tutto materiato di accenti melodici, tende già all'arioso, ed è in questo stile che il musicista tratta le scene più drammatiche della sua opera: persino il «lamento» di Orfeo che pure avrebbe offerto pretesto a molti compositori per una pagina lirica. Ma questo «recitativo» è ben lontano dalla timida declamazione dei Cameristi, come dalle formulette cadenzali che, più tardi, avranno larga parte nel melodramma. Monteverdi ha il dono di saper realizzare la musica «latente nel testo», ed il suo «recitativo» nasce dalla parola stessa, dalle inflessioni della frase parlata: è la poesia stessa, che genera la musica, la quale, una volta creata, per una specie di miracolo o di paradosso, ha una vita completa in sé e per sé, diventa quasi «autonoma». Nessun formulario di preordinate simmetrie nelle frasi o di ripetizioni cadenzali; infinitamente mobile, sempre vario e diverso nella sua unità, questo «recitativo» è libero, non sottostà a nessuna forma, a nessuna teoria preconcetta: si modella esclusivamente sulla frase poetica e, malgrado questo, i periodi musicali si equilibrano mirabilmente. Ed è un «recitativo» che caratterizza i personaggi mirabilmente: si ricordi, per non parlare d'altri, Euridice. Ella non fa che una breve apparizione al primo atto, ed un'altra al quarto: la sua parte si riduce ad una ventina di battute. Eppure questa Euridice è uno dei personaggi più vivi di tutto il teatro musicale, e chi l'ha udita esprimersi con quegli accenti una volta, non la dimentica più.

A questo «recitativo» si mescolano arie ed ariette di caratteri diversi: arie sopra uno schema ritmico prestabilito, dal ritmo giocondo di «canzone a ballo» che aveva allietato Monteverdi al tempo degli Scherzi giovanili; arie la cui mossa iniziale ricorda la semplicità dell'antica frottola, prediletta dalla corte mantovana fin dai tempi di Marchetto Cara; arie profumate d'un ingenuo e fresco, gaio o malinconico sapore popolaresco, stroficamente costruite... Non vi sono scene dove due o tre personaggi cantino contemporaneamente: il dialogo è sempre alternato, e l'unica pagina che potrebbe far pensare a un duo d'opera, è quella cantata da Apollo ed Orfeo mentre salgono al Cielo. In compenso, e per creare un felice contrasto, il musicista fa uso talvolta di brevi brani a due o tre voci, in uno stile omofono, molto semplice, sul tipo delle canzonette o villanelle.

Ma dove Monteverdi si stacca nettamente dai fiorentini è nell'uso dei cori. I fiorentini - avversari decisi della polifonia - li avevano soppressi. In Orfeo i cori sono numerosi e d'una varietà sorprendente: alcuni sono veri e propri madrigali, realizzati con tutte le risorse di una polifonia vocale che non teme alcuna audacia (come quelli che chiudono il III ed il IV atto); qualche altro è scritto in uno stile omofono, dal ritmo imperioso e preciso, ed è già un vero «coro d'opera»; altri sono «cori danzati», come il «Lasciate i monti...» del I atto che è un vero e proprio «balletto» con coro... E' evidente che Monteverdi il quale doveva gustare pochissimo la monotonia del dramma cameristico, ha curato moltissimo la varietà degli episodi, il gioco dei contrasti e dei mezzi espressivi.

L'armonia è relativamente più chiara e semplice di quella dei madrigali: piani e contrasti tonali son netti, chiari e bene accentuati; accenti cromatici e modulazioni improvvise sono impiegati solo nei momenti di maggior tensione, sobriamente e perciò con tanto maggior efficacia... Il basso continuo è realizzato, per la maggior parte, a base di accordi perfetti (almeno se si vogliono seguire le indicazioni monteverdiane) ciò che dà al dramma un'atmosfera di grande purezza. Ed è in quest'atmosfera che, nei momenti cruciali dell'azione, scoppiano improvvise le dissonanze - settime e none: nel racconto della Messaggera v'è persino una undecima - con un effetto dramatico che colpisce ancor oggi, per quanto gli orecchi moderni siano abituati a ben altre dissonanze.

Resterebbe a notare lo strumentale ed il ruolo dell'orchestra: ma questo richiederebbe studio di ben altra mole. Limitiamoci a qualche osservazione.

I fiorentini, per non coprire la parola, avevano ridotto l'accompagnamento strumentale ai minimi termini: Monteverdi fa appello a tutte le risorse dell'orchestra con una prodigalità da sorpassare gli stessi veneziani, e stabilisce orgogliosamente sulla prima pagina dello spartito il suo «effettivo strumentale» (il quale poi, non è neppur completo): Duoi gravicembani, Duoi contrabassi de viola, Dieci viole da brazzo, Un arpa doppia, Duoi violini piccoli alla franzese. Duoi chitaroni (in realtà sono tre), Duoi organi de legno, Tre bassi da gamba, Quattro tromboni (in realtà: cinque), Un regale, Duoi cornetti, Un flautino alla vigesimaseconda (in realtà: due), Un clarino con tre trombe sordine... Insieme rispettabile per quantità e per varietà che Monteverdi impiega da artista serisibilissimo al potere espressivo d'ogni strumento. Raramente impiega tutta l'orchestra: è a gruppi di strumenti diversamente scelti che affida il compito di caratterizzare la scena, il personaggio (il basso continuo è realizzato da strumenti diversi, a seconda del personaggio di cui si tratta), il momento drammatico... Sia che collabori con le voci, sia che abbia una espressione autonoma - nelle sinfonie e nei ritornelli - l'orchestra monteverdiana - che ha un carattere essenziale, ed un colore strettamente legato al carattere ed al contenuto della musica - è la prima che collabora strettamente all'espressione drammatica, nel senso moderno della parola. Basta notare il carattere di certi ritornelli, di certe sinfonie per convincersene: il I ritornello (che appare nel «Prologo») affidato alle viole, sembra destinato a ricordare agli spettatori il triste destino di Orfeo poiché riappare alla fine del II atto, dopo la disperazione del «semideo» per la morte di Euridice, e riappare ancora alla fine del IV atto (modificato nello strumentale) dopo che Euridice, è stata perduta per la seconda volta. La sinfonia dei tromboni (al III atto, prima della grande aria di Orfeo) che descrive l'ambiente infernale, riappare - affidata alle viole tocche pian piano - mentre Caronte sta per assopirsi, poi ancora al V atto dopo la scena disperata di Orfeo, come il ricordo ossessionante di Euridice nei luoghi dov'ella apparve; la sinfonia a 7 alla fine del II atto (o, più probabilmente, all'inizio del III) che sembra un oscuro presentimento di disfatta, riappare alla fine dell'atto III dopo le parole incoraggianti del coro, come una specie di minaccia della fatalità...

Rifiutando ogni teoria preconcetta, ogni formula convenzionale o transitoria ed accogliendo e rielaborando col suo genio tutti i mezzi espressivi che la sua arte gli offriva: non sacrificando la musica alla poesia, ma ricreando ed esprimendo musicalmente l'umanità della sua «favola in musica» in sé, al di là d'ogni teoria e d'ogni elemento polemico, Claudio Monteverdi, con Orfeo, ha creato il «dramma musicale»: così completo e così perfetto che tutto ciò che nel corso dei successivi tre secoli è stato creato e porta degnamente questa qualifica, si può trovare già contenuto in germe nell'Orfeo monteverdiano.


(1) Testo tratto dal programma di sala della Fondazione Teatro all Scala,
Milano, Teatro alla Scala, 19 settembre 2009
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Teatro Argentina, 31 gennaio 1955


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Ultimo aggiornamento 15 settembre 2016