Concerto per pianoforte n. 24 in do minore, K 491

Musica: Wolfgang Amadeus Mozart (1756 - 1791)
  1. Allegro (do minore)
  2. Larghetto (mi bemolle maggiore)
  3. Allegretto (do minore)
Organico: pianoforte, flauto, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, archi
Composizione: Vienna, 24 Marzo 1786
Prima esecuzione: Vienna, Großer Redoutensaal del Burgtheater, 3 Aprile 1786
Edizione: Andrè, Offenbach 1800
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

«Questi concerti sono una via di mezzo tra il troppo facile e il troppo difficile: sono molto brillanti, gradevoli all'orecchio pur senza cadere nella vuotaggine, qua e là anche gli intenditori avranno di che esserne soddisfatti, ma in modo che anche coloro che non lo sono proveranno piacere, senza sapere il perché»: in questi termini, in una lettera al padre del 28 dicembre 1782, Mozart parlava dei tre Concerti per pianoforte e orchestra cui stava lavorando in quei giorni. Leggendo quelle poche righe, potrebbe sembrare che Mozart metta l'accento sulla brillantezza, la piacevolezza e la naturalezza che voleva dare a questo tipo di composizione, ma indubbiamente a colpire l'attenzione di suo padre Leopold fu soprattutto la volontà di tenersi a giusta distanza non solo dal "troppo difficile" ma anche dal "troppo facile" e di inserire passaggi che soltanto gl'intenditori avrebbero potuto comprendere pienamente. Infatti allora si considerava il Concerto nient'altro che facile musica d'intrattenimento, che, per andare incontro alle attese d'un pubblico di "non intenditori", doveva basarsi sul virtuosismo brillante del solista, sulla sua vivace alternanza con l'orchestra e su idee musicali colorite ma superficiali e poco sviluppate: appunto di tal genere erano i Concerti scritti da Leopold Mozart e dagli altri musicisti della sua generazione, non escluso Joseph Haydn, i cui Concerti non sono paragonabili alle Sinfonie e ai Quartetti né per la ricchezza d'idee, né per la novità quasi sperimentale di certe soluzioni formali. Dunque, se come autore di Sinfonie, di Quartetti, di Trii e di Sonate per pianoforte Haydn non gli è certamente inferiore, Mozart è incomparabile nel campo del Concerto.

Se si volessero assolutamente istituire dei confronti, bisognerebbe allora guardare a Carl Philipp Emanuel Bach e a Johann Christian Bach, rispettivamente secondogenito e ultimogenito di Johann Sebastian, che avevano portato il Concerto per pianoforte e orchestra (ma sarebbe più corretto parlare di strumento a tastiera e orchestra, perché era ancora prevista, almeno teoricamente, l'intercambiabilità tra pianoforte e clavicembalo) ai vertici della musica strumentale del loro tempo, sviluppandolo in direzione di un più equilibrato rapporto tra solista e orchestra, di un contenuto tematico più vario e articolato e di un'architettura più ampia e solida. Dei due fratelli, Emanuel inclinava decisamente alla Empfindsamkeit, quello stile della "sensibilità" che introduceva atmosfere intensamente patetiche e percorsi imprevedibili e asimmetrici, mentre il più giovane era un seguace dello stile "galante" e prediligeva inflessioni limpidamente cantabili, strutture chiare e regolari, delicate preziosità timbriche e un dialogo spigliato tra solista e orchestra. L'influsso di Emanuel e ancor più di Christian Bach è ravvisabile nei Concerti di Mozart, che però operò una sintesi dei diversi e contrapposti caratteri della loro musica, trasfigurandoli e portandoli a un livello di perfezione che fa dei diciassette Concerti da lui scritti a Vienna dal 1782 al 1791 un esempio ideale di quello che poi è stalo considerato lo stile classico.

A scrivere questa serie di capolavori Mozart fu indotto - come avveniva normalmente prima che il romanticismo ponesse la creazione artistica sotto il segno dell'ispirazione - da una ragione molto semplice e concreta, che viene chiaramente rivelata da un inciso della stessa lettera citata prima: «Vendo i biglietti per 6 ducati, in contanti». Questi Concerti erano insomma un'importante fonte di reddito per Mozart, in quanto costituivano la maggiore attrazione delle "accademie" da lui organizzate in veste d'impresario di se stesso, durante le quali si presentava al pubblico come pianista e come compositore. Nei primi anni del suo soggiorno a Vienna queste serate incontrarono il favore del pubblico e gli procurarono ottimi incassi, ma poi il successo diminuì e parallelamente le "accademie" si diradarono e la produzione di Concerti rallentò: dunque il numero dei Concerti per pianoforte scritti ogni anno da Mozart può essere considerato un indicatore abbastanza preciso dell'ascesa e del successivo declino della sua popolarità presso i viennesi.

Il periodo di più intensa produzione di Concerti pianistici da parte di Mozart finì con la stagione 1785-1786, quando licenziò tre nuovi lavori in appena tre mesi (ne scrisse soltanto altri tre nei cinque anni di vita che gli restavano): l'ultimo dei tre è proprio il Concerto in do minore K. 491, completato il 24 marzo 1786 e presentato al pubblico pochi giorni dopo, il 3 aprile. Ma non è soltanto la sua datazione strategica a collocare al culmine della produzione mozartiana questo Concerto, la cui eccezionalità si rivela subito nell'ampio organico orchestrale e nella tonalità di do minore. Mozart utilizzò qui per la prima volta in un'orchestra sinfonica sia gli oboi che i clarinetti, che insieme provvedono ad arricchire il gruppo degli strumenti a fiato con sonorità più soffuse, intermedie tra i toni scuri dei fagotti e quelli squillanti delle trombe. Ancor più significativa è la scelta del modo minore: per un compositore della fine del diciottesimo secolo, che aveva lasciato alle spalle la leggerezza, l'eleganza e la disinvoltura dello stile "galante" ma le conservava tuttavia impresse nel proprio patrimonio genetico, era un fatto eccezionale e annunciava un particolare impegno espressivo. L'unico altro Concerto mozartiano in modo minore è quello in re, K. 466, spesso definito beethoveniano o anche romantico per l'energia che lo spinge fino a tratti di vera violenza, per la tensione che lo agita, per l'angoscia che lo rende cupo e tenebroso, per l'atteggiamento "demoniaco" che gli da il carattere d'un dramma personale; il Concerto in do minore invece, pur simile al precedente per molti aspetti e anzi immerso in atmosfere ancor più tragiche, ha un tono più oggettivo, come se Mozart vedesse nel do minore la manifestazione d'un potere trascendentale e fatale.

L'inizio è molto lontano dall'andamento di marcia con cui si avviano generalmente i Concerti mozartiani. In un ritmo di 3/4 gli archi e i fagotti espongono "piano" un tema instabile e cromatico, senza una tonalità e una direzione ben definite, che viene presto ripetuto "forte" da tutta l'orchestra, con un'energia che non ne attenua ma anzi ne sottolinea l'instabilità. Questo tema passa in seguito al flauto, agli oboi e ai fagotti, senza perdere il suo carattere cupo neanche in questa veste timbrica più limpida, e percorre tutta l'esposizione orchestrale, prima che l'entrata del pianoforte introduca un secondo tema più elegiaco e poi anche un terzo e un quarto motivo; ma quello che Hermann Abert definisce «un selvaggio intervento dell'orchestra» ci riporta immediatamente alla sfera espressiva del primo tema, che, ora con un profilo melodico modificato, ora con una diversa veste strumentale, ora in primo piano, ora seminascosto tra le voci secondarie, si riaffaccia continuamente, come una presenza inquietante e ostinata. Per quanto il pianoforte cerchi ripetutamente di superare quest'atmosfera angosciosa, le ombre tornano sempre ad affermarsi e alla fine anche gli altri temi vengono assorbiti dal fosco do minore del tema principale.

Il Larghetto, in mi bemolle maggiore, costituisce un netto stacco dalle atmosfere del primo movimento. Quanto quello era complesso e tragico, tanto questo è semplice e sereno: si tratta d'un Rondò, in cui un refrain dalla melodia purissima, tersa e raccolta si ripete tre volte, intercalato da due diversi couplet, il primo dei quali insinua per un istante anche in questo movimento le istanze oscure e inquiete del do minore.

La conclusione con un movimento in forma di tema e variazioni è eccezionale e compare in un solo altro Concerto mozartiano (quello in sol maggiore, K. 453, del 1784), dove però conserva il tono d'evasione tipico di questa tecnica compositiva di facile fruizione, mentre il carattere tenebroso e sconsolato del tema e il suo approfondimento in ogni variazione successiva fanno di questo Allegretto un organismo unitario e potente, che supera la schematica divisione tra le singole variazioni e si immerge sempre più in un'ombra intrisa di pessimismo e fatalismo: rinunciando alla tradizionale conclusione brillante e virtuosistica, Mozart ha dato a questo Concerto un finale che è un degno pendant del tragico e tenebroso primo movimento. Solo la sesta delle otto variazioni è in modo maggiore, ma anche qui la serenità sembra essere una speranza appena intravista, e la conclusione riporta a uno sconsolato do minore.

Mauro Mariani

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Mozart scrisse soltanto due Concerti per pianoforte in tonalità minore, quello in re minore K. 466 e quello in do minore K. 491. Il primo risale al febbraio del 1785 e costituisce l'opera forse più drammatica composta da Mozart per il suo strumento. Poco più d'un anno dopo, il 24 marzo 1786, il Concerto in do minore veniva aggiunto al catalogo dei lavori dell'autore. Sebbene il ritorno al modo minore crei una certa affinità di sentire tra i due lavori, il loro carattere diverge in maniera netta.

Il secondo Concerto infatti ha un carattere più tragico che drammatico, rispetto al precedente. Il calore della lotta sembra ormai raffreddato e lo sguardo si distende con compassione sul campo di battaglia intcriore. Fino all'ingresso del solista, l'orchestra brancola in mezzo a una selva di domande senza risposta. L'organico, più ampio del solito, impiega contemporaneamente una coppia di oboi e una di clarinetti, rendendo più sostanziosa la presenza dell'orchestra. Il tema principale, esposto prima dagli archi e poi dilatato nel forte dall'intera orchestra, si ritorce in maniera cromatica su se stesso, come un serpente. Il Mozart maturo s'allontana dalle forme squadrate dello stile galante e aspira a uno stile più organico. La forma trova espressione compiuta soltanto nella dialettica unitaria tra solista e orchestra. Il pianoforte, per esempio, manifesta il desiderio di trasformare in maniera significativa i temi musicali proposti dall'orchestra. L'intervallo di settima minore conferisce al soggetto principale, di stampo contrappuntistico, una tensione espressiva, che il solista s'incarica poi d'amplificare allargando il raggio del salto fino a raddoppiare la misura dell'intervallo (da settima a quattordicesima). L'interrogativo drammatico formulato all'inizio diventa nelle mani del pianista una sorta di dubbio esistenziale. Alla stessa maniera, l'area del secondo tema acquista nella parte solistica una complessità ancora ignota all'orchestra. La tonalità di mi bemolle maggiore si arricchisce infatti di nuove idee musicali, articolate in un percorso armonico più ampio e fantasioso. Il breve sviluppo è condotto dal pianoforte con identico e inquieto attivismo, traendo dal materiale tematico i succhi vitali con potente virtuosismo. Dopo aver toccato il culmine dell'intensa espressione drammatica, la ripresa suona fresca e originale come un nuovo inizio. Il secondo soggetto viene trasformato in maniera nostalgica dalla nuova luce della tonalità di do minore. Il tema dei fiati scivola verso le profondità di suono dell'orchestra, mentre il solista, dopo la cadenza, si concede il lusso di un'ultima divagazione.

Il Larghetto in mi bemolle costituisce un momento di ricreazione spirituale, ma non è del tutto innocente. Il tema proposto dal pianoforte si rispecchia nell'orchestra, che ripartisce la frase tra gli strumenti ad arco e quelli a fiato. La parte centrale del movimento scaturisce da un'elegante Serenata, strumentata in maniera splendida e ripresa con molta espressione dal solista. La ricchezza di suono procurata all'orchestra dalla presenza dei clarinetti viene sfruttata da Mozart soprattutto nella parte conclusiva del Larghetto.

Per il finale del Concerto Mozart adotta la forma del tema con variazioni. L'Allegretto infatti si articola in otto variazioni, su un tema generato in maniera ben riconoscibile dal soggetto iniziale grazie alla presenza dell'intervallo di settima minore. Il pianoforte s'appropria subito della prima variazione, fornendo la chiave di lettura del movimento. Diviene evidente in breve tempo come il contrasto tra il mondo della natura, evocato dalle sonorità pastorali dei fiati, e il carattere cromatico del virtuosismo solistico costituisca la forza espressiva di questo finale. La musica, nei momenti più intensi, si copre d'un rumore di ferraglia e procede a ritmi marziali, mentre la scrittura pianistica si addensa fino a toccare in alcuni punti un contrappunto a quattro voci.

A differenza del Concerto in re minore, questo lavoro non schiude le porte a un futuro luminoso e di speranza. Il pianoforte indugia a liberarsi del cromatismo che ne aveva ossessionato l'espressione fin dall'inizio, mentre l'orchestra mette la parola fine al Concerto nella maniera più scarna, con una brusca e violenta fiammata spenta con tre accordi secchi.

Oreste Bossini


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium Parco della Musica, 7 Gennaio 2006
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium Parco della Musica, 3 Maggio 2008


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Ultimo aggiornamento 20 febbraio 2017