Concerto per pianoforte n. 25 in do maggiore, K 503

Musica: Wolfgang Amadeus Mozart (1756 - 1791)
  1. Allegro maestoso (do maggiore)
  2. Andante (fa maggiore)
  3. Allegretto (do maggiore)
Organico: pianoforte, flauto, 2 oboi, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, archi
Composizione: Vienna, 4 Dicembre 1786
Prima esecuzione: Vienna, Großer Redoutensaal del Burgtheater, 7 Marzo 1787
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1798
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Il Concerto in do maggiore K. 503 per pianoforte è il terz'ultimo dei Concerti pianistici di Mozart terminato, secondo l'autografo, il 4 dicembre 1786, nel periodo di intervallo fra la prima esecuzione delle Nozze di Figaro (1 maggio 1786) e la commissione del Don Giovanni (gennaio 1787). Proprio Le nozze di Figaro segnano una sorta di spartiacque nella produzione pianistica mozartiana. Dopo l'abbandono del servizio presso la corte arcivescovile di Salisburgo e il trasferimento a Vienna del 1781, Mozart aveva scritto quattordici Concerti per pianoforte fra la fine del 1782 e la primavera del 1786; appena tre Concerti (K 503, 537, 595) vedono invece la luce fra la fine del 1786 e l'inizio del 1791. Questa netta diminuzione di Concerti pianistici negli ultimi anni di vita del compositore non può essere spiegata semplicemente con una intrinseca diminuizione di interesse verso questo genere compositivo: né con le opportunità di dedicarsi finalmente al prediletto genere operistico (a Don Giovanni seguiranno, com'è noto, Così fan tutte, La clemenza di Tito e Die Zauberflöte). Si tratta piuttosto del segno più tangibile della crisi del rapporto fra Mozart e il pubblico viennese, crisi che si manifesta appunto nel periodo successivo alle Nozze di Figaro.

Nei primi anni viennesi, infatti, Mozart si era valso del Concerto pianistico come del "grimaldello" per affermarsi presso la società cittadina. Nelle interminabili serate concertistiche per sottoscrizione ("Accademie"), frequentate da un ristretto circolo di aristocratici e facoltosi borghesi, accanto alle Sinfonie, alle Arie per voce e orchestra, alle brevi improvvisazioni e composizioni pianistiche, il Concerto per pianoforte era atteso come l'appuntamento immancabile e prediletto. Tutta la musica per pianoforte era peraltro considerata come genere di intrattenimento e di svago, ed era destinata agli esecutori dilettanti, che si dedicavano al pianoforte in quanto strumento di rapide soddisfazioni. Le Accademie viennesi, non a caso, avevano non solo una funzione ricreativa ma anche commerciale: l'ascoltatore infatti, se aveva ritenuto di suo gradimento le composizioni udite nel corso del Concerto, poteva acquistare, perle proprie private esibizioni, una copia degli spartiti, fatta appositamente incidere dall'autore a proprie spese.

Appunto come pianista Mozart si conquistò rapidamente la considerazione di virtuoso "alla moda". Il pianoforte, strumento di recente diffusione, aveva potenzialità in gran parte ancora da scoprire e la scrittura pianistica mozartiana, con le sueinedite escursioni dinamiche, i controllati effetti percussivi del tocco, la scorrevolezza brillante, presentava degli aspetti di eclatante novità. I primi Concerti viennesi ( K. 413/415) sono scritti appositamente per mettere in luce queste qualità, come testimonia una celebre lettera al padre del 28 dicembre 1782: "che anche i non intenditori restino contenti, pur senza sapere il perché".

Dunque un contenuto musicale disinvolto e disimpegnato, improntato a un concetto semplicemente decorativo della scrittura pianistica, un ruolo accessorio della compagine strumentale (nei primi Concerti viennesi gli strumenti a fiato sono considerati ad libitum), una estrema nitidezza nell'impianto strutturale. Negli interessi del compositore non tardò tuttavia ad imporsi una nuova tendenza; la scrittura solistica esorbita dai margini decorativi, l'orchestra riveste un ruolo "integrato" e non subalterno rispetto al solista, la concezione formale acquista una più vasta articolazione interna. Insomma il Concerto per pianoforte diviene progressivamente nelle mani di Mozart un vero e proprio laboratorio di sperimentazioni formali e linguistiche. E questa complessità è senz'altro uno dei motivi che portarono al declino della fortuna di Mozart presso il pubblico viennese.

Non a caso il Concerto K. 503 nacque come opera isolata in circostanze poco chiare; potrebbe essere stato destinato a un ciclo di Accademie nel periodo dell'Avvento; o eseguito nel viaggio a Praga nel gennaio 1787. La partitura ha una orchestrazione estremamente ricca (flauto e coppie di oboi, fagotti, corni, trombe, più timpani; anche se mancano i clarinetti) e infatti è fra quelle che mostrano in modo più pronunciato la tendenza "sinfonica" della maturità mozartiana. Già la tonalità di do maggiore viene impiegata spesso da Mozart per lavori di contenuto aulico; il lavoro si richiama sotto questo aspetto ai Concerti K. 415 (in do) e K. 459 (in re), ma secondo una complessità ben maggiore di quella mostrata dai modelli.

Così il primo tempo, Allegro maestoso, si apre con una imponente introduzione orchestrale; il materiale tematico mostra però una certa "neutralità" espressiva: troviamo degli accordi spezzati, delle note ribattute (alle quali è stato talvolta attribuito un significato massonico) e delle scale, nonché qualche elemento contrappuntistico; come dire che il materiale trae interesse, più che dalla sua fisionomia, dal trattamento rigoroso e consequenziale che riceve. Il secondo tema si presenta, inconsuetamente, nel modo minore e presenta un inciso ritmico che percorrerà internamente tutto il tempo. Il pianoforte fa il suo ingresso con un tema del tutto diverso, dal carattere decorativo; e appare solo in un secondo momento il primo tema dell'esposizione orchestrale. Poi viene introdotta un'altra idea tematica diversiva per il pianoforte, di carattere ingenuo, in mi bemolle; e quando il pianoforte arriva al secondo tema, questo è del tutto nuovo rispetto a quello in minore dell'esposizione orchestrale (che invece viene ampiamente sfruttato nella sezione dello sviluppo). Queste indicazioni offrono da sole un'idea della eccezionale complessità del movimento, che è segnato anche dalla perfetta integrazione fra la scrittura orchestrale e quella pianistica.

Rispetto al tempo iniziale, quasi dimesso appare l'Andante, aperto da una introduzione orchestrale che presenta due temi, il primo di carattere "affettuoso", il secondo più galante; e questa esposizione viene ripresa ed ampliata dal pianoforte. La sezione centrale non si pone in contrasto ma in perfetta continuità espressiva, e lascia ampio spazio all'elegante virtuosismo del solista, prima della ripresa. Il finale segue la forma del Rondò e viene aperto dall'orchestra piuttosto che dal pianoforte (come avviene più di consueto); il refrain è di carattere popolaresco, formato da due elementi distinti, infantile (archi) e contadino (fiati); si alterna poi con episodi ben distinti che non conservano un carattere così ingenuo ma sono estremamente sofisticati, sia nell'invenzione melodica che nell'elaborazione; così avviene, ad esempio, nello sviluppo, in minore, che accoglie un complesso intreccio dei fiati sull'accompagnamento del pianoforte. Il solista trova modo soprattutto in questo tempo di impegnarsi in un brillante cimento tecnico, ma questo impegno non è così accattivante e appariscente come in altri concerti. Il gusto "popolare", dunque, cede al "sofisticato" e viene assorbito in un movimento che contraddice fortemente ogni concessione al pubblico. Una distanza incolmabile rispetto a quella "via di mezzo fra il troppo difficile e il troppo facile" che aveva segnato i primi Concerti viennesi.

Arrigo Quattrocchi

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

E' tra il 1786 e il 1787 ch'ebbe inizio quel rapido declino della voga, tra la società viennese, del Mozart virtuoso di pianoforte. Ciò spiega perché il Concerto in do maggiore K. 503, pur essendo stato composto soltanto nel dicembre del 1786, ossia a cinque anni dalla morte e al seguito della splendida fioritura dei venti e più concerti scritti fin qui, si pone come una delle ultimissime testimonianze del concertismo pianistico mozartiano, insieme al «Concerto dell'Incoronazione» (1788) e al Concerto in re del 1791. Da precisi indizi, riferisce il Paumgartner, si può stabilire con quasi assoluta certezza che negli anni seguenti al 1786 Mozart non riuscì più ad organizzare alcun concerto per conto proprio ma si limitò a prodursi occasionalmente in audizioni private e nelle riunioni musicali del sabato mattina in casa propria, alle quali intervenivano, pagando una tenue somma, amici e protettori. Nell'estate del 1786 le sue condizioni finanziarie erano assai peggiorate: dopo essersi dato d'attorno per due settimane, nella speranza di riorganizzare qualche concerto a sottoscrizione, dovette constatare con amarezza di non esser riuscito a trovare che un solo abbonato, il suo fedele protettore van Swieten.

Donald Tovey ha ricollegato il Concerto in do alla Sinfonia «Jupiter» e non soltanto per il fatto, estrinseco, della identica tonalità, ma per la imponenza delle dimensioni (il primo movimento del Concerto, Allegro maestoso, di ben 432 battute, è il più lungo che Mozart abbia scritto) e per lo spirito apollineo che pervade tutta l'opera, dando vita, nello strumentale e nel piglio pianistico, a passi di particolare brillantezza di tono. D'altronde già un contemporaneo di Mozart lo ebbe a definire «olimpico».

Solo in un tratto centrale dell'Allegretto finale il Concerto si vela di un'ombra patetica che ben lo fa riconoscere fiorito sullo stesso albero che aveva prodotto il meraviglioso Concerto in re minore K. 466.

Giorgio Graziosi


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium Parco della Musica, 7 Gennaio 2006
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 18 novembre 1965


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Ultimo aggiornamento 12 maggio 2016