Atto primo. In una bottega di caffè a Napoli, assieme a Don Alfonso siedono i due ufficiali Ferrando e Guglielmo che vantano la fedeltà delle loro fidanzate, Dorabella e Fiordiligi.
Don Alfonso li contraddice affermando che la fedeltà femminile non esiste e che, se si presentasse l'occasione, le due innamorate dimenticherebbero i loro fidanzati e passerebbero a nuovi amori. I due intendono sfidarlo a duello per difendere l'onore delle future spose. Don Alfonso scommette cento zecchini per provare ai due amici che le fidanzate non sono diverse dalle altre donne: per un giorno, Ferrando e Guglielmo dovranno attenersi ai suoi ordini. Nel giardino della casa sul golfo Fiordiligi e Dorabella contemplano sognanti i ritratti dei fidanzati. Don Alfonso reca loro una notizia terribile: i fidanzati sono richiamati al fronte e devono partire all'istante. Arrivano Ferrando e Guglielmo e fingono di partire. La cameriera Despina, complice di Don Alfonso, espone alle sorelle le proprie idee circa la fedeltà maschile ed esorta Fiordiligi e Dorabella a "far all'amor come assassine": i fidanzati al fronte faranno altrettanto. Don Alfonso cerca l'aiuto di Despina, promettendole venti scudi se insieme riusciranno a far entrare nelle grazie delle sorelle due nuovi pretendenti. Travestiti da ufficiali albanesi, si presentano Ferrando e Guglielmo. Le padrone irrompono furenti per la presenza degli sconosciuti e i finti albanesi si dichiarano spasimanti delle sorelle. Don Alfonso presenta gli ufficiali come suoi cari amici. Alle loro rinnovate e caricaturali offerte d'amore, Fiordiligi risponde che serberanno fedeltà agli amanti fino alla morte. Fiordiligi e Dorabella si ritirano. Don Alfonso si allontana con gli albanesi, che poco lontano fingono di bere un veleno. Don Alfonso finge di andare in cerca di un medico e lascia i due agonizzanti davanti alle esterrefatte sorelle, che iniziano a provare compassione. Arriva Despina travestita da medico, declamando frasi in un latino maccheronico e fa rinvenire gli albanesi toccandoli con una calamita. I finti albanesi rinnovano le dichiarazioni di amore e abbracciano le donne. Despina e Don Alfonso guidano il gioco esortando le donne ad assecondare le richieste dei nuovi spasimanti resuscitati, i quali si comportano in modo molto passionale.
Quando i due pretendono un bacio, Fiordiligi e Dorabella si infiammano indignate e rifiutano.
Atto secondo. Nella loro camera Fiordiligi e Dorabella vengono convinte da Despina a '"divertirsi un poco, e non morire dalla malinconia", senza mancare di fede agli amanti, s'intende. Giocheranno, nessuno saprà niente, la gente penserà che gli albanesi che girano per casa siano spasimanti della cameriera. Resta solo da scegliere: Dorabella, che decide per prima, vuole Guglielmo, e Fiordiligi apprezza il fatto che le spetti il biondo Ferrando.
Nel giardino sul mare i due albanesi hanno organizzato una serenata alle dame, i suonatori e i cantanti arrivano in barca. Don Alfonso e Despina incoraggiano gli amanti e le donne a parlarsi e li lasciano soli. Fiordiligi e Ferrando si allontanano, suscitando la gelosia di Guglielmo, che offre un regalo a Dorabella e riesce a conquistarla. Fiordiligi è sconvolta, capisce che il gioco si è mutato in realtà. Quando Ferrando si accomiata ella ha un attimo di debolezza e vorrebbe richiamarlo, poi rivolge il pensiero al promesso sposo Guglielmo e si proclama a lui fedele. Questi è impacciato nel comunicare a Ferrando che Dorabella ha ceduto facilmente, ma è felice del fatto che Fiordiligi si sia dimostrata "la modestia in carne", commentando l'infedeltà di Dorabella.
In casa, Dorabella esorta Fiordiligi a divertirsi. Fiordiligi decide di travestirsi da ufficiale e raggiungere il promesso sposo sul campo di battaglia: si fa portare delle vesti maschili, si guarda allo specchio, constata il fatto che cambiare abito significa perdere la propria identità; immagina di trovarsi già sul posto e che Guglielmo la riconosca, ma Ferrando la interrompe, e chiede la sua mano, rivolgendosi a lei con parole che probabilmente Guglielmo non le ha mai detto. Guglielmo ha assistito al dialogo, è furente, e anche Ferrando odia la sua ex fidanzata, ma Don Alfonso, che ha dimostrato quanto voleva, li esorta a finire la commedia con doppie nozze: una donna vale l'altra, meglio tenersi queste "cornacchie spennacchiate". Don Alfonso spiega di non voler accusare le donne, anzi le scusa, è colpa della natura se "così fan tutte".
Nella sala illuminata, con la tavola imbandita per gli sposi, Despina organizza i preparativi e il coro di servi e suonatori inneggia alle nuove coppie. Al momento del brindisi Fiordiligi, Dorabella e Ferrando cantano un canone, su un tema affettuoso, da musica da camera, mentre Guglielmo si mostra incapace di unirsi a loro e commenta: "Ah, bevessero del tossico / queste volpi senza onor!".
Il notaio (che è Despina travestita) fa
firmare il finto contratto nuziale. Un coro interno intona "Bella vita
militar!" e le sorelle rimangono impietrite: tornano i fidanzati.
Nascosti gli albanesi in una stanza, esse si preparano ad accogliere
Ferrando e Guglielmo, che fingono di insospettirsi quando scoprono il
notaio e il contratto. Don Alfonso si giustifica: ha agito a fin di
bene, per rendere più saggi gli sposi. Le coppie si
ricompongono e tutti cantano la morale: "Fortunato l'uom che
prende / ogni cosa pel buon verso, / e tra i casi e le vicende / da
ragion guidar si fa".
Ultima delle opere su libretto di Lorenzo Da Ponte, dopo Le nozze di Figaro (1786) e Don Giovanni (1787), Così fan tutte è anche l'ultima opera buffa mozartiana: seguiranno il Singspiel Die Zauberflöte e l'opera seria La clemenza di Tito. Fu commissionata dall'imperatore Giuseppe II in seguito al successo delle riprese viennesi di Don Giovanni (maggio 1788) e delle Nozze di Figaro (agosto-novembre 1789). Alla 'prima' parteciparono Adriana Ferrarese del Bene, Louise Villeneuve, Vincenzo Calvesi, Dorotea Bussani (il primo Cherubino nelle Nozze di Figaro), Francesco Benucci (il primo Figaro) e Francesco Bussani (il primo Bartolo). Nel libretto sono fuse varie fonti: la vicenda sembra originale, ma un fitto intreccio di citazioni chiama in causa Ovidio, Boccaccio, Ariosto, Marivaux e Goldoni. Riguardo all'Orlando furioso, pensiamo alle novelle misogine del nappo (canti XLII-XLIII) e di Astolfo e Iocondo (XXVII-XXVIII); i nomi dei personaggi derivano dal poema: Despina da Fiordispina, Dorabella da una crasi fra Doralice e Isabella, Fiordiligi dalla sposa fedele per antonomasia. I libretti goldoniani offrono numerosi spunti, entrati nella tradizione del repertorio buffo: ad esempio, ne Le pescatrici due pescatori si mascherano «con baffi, e vestiti da Cavalieri» per mettere alla prova le amanti.
Nell'ouverture, dopo due frasi dell'oboe, l'orchestra cadenza per accordi, la prima volta piano (cadenza d'inganno), la seconda forte (cadenza perfetta); è il motto dell'opera, poiché nel recitativo accompagnato che precede il finale i personaggi maschili, sopra lo stesso giro cadenzante, canteranno: «così fan tutte». La frase di recitativo, il titolo e il motto che fa capolino nell'ouverture sono i primi richiami interni in un'opera che ne è ricchissima. «Così fan tutte le belle/ non c'è alcuna novità», commentava Don Basilio nel terzetto del primo atto delle Nozze di Figaro; una citazione della sua cantilena si trova, accelerata, nel primo tema dell'episodio centrale dell'ouverture, il Presto in forma-sonata, composto da microsequenze che si ripetono geometricamente: un tappeto di figure a note ribattute, sempre agli archi; una fanfaretta a piena orchestra; un primo tema scorrevole, in crome, le cui semifrasi si rincorrono fra vari gruppi di strumenti, in modo da esaurire le possibilità di combinazione; un secondo più scuro e avvolto su se stesso, sempre in una successione di crome, ma affidata di volta in volta a un solo gruppo timbrico. Dopo la ripresa abbreviata, ritorna il motto. In una bottega di caffè, a Napoli, siedono due ufficiali e un vecchio filosofo, Don Alfonso. «La mia Dorabella/ capace non è» di essere infedele, esclama Ferrando, come a proseguire un discorso già iniziato; e con lui Guglielmo, l'altro ufficiale: «la mia Fiordiligi/ tradirmi non sa». Don Alfonso, che ha provocato la disputa sostenendo il contrario, cerca di farsi indietro, ma i due intendono sfidarlo a duello, per difendere l'onore delle future spose. Tre brevi terzetti ritmano la scena, fra di essi incalza il recitativo semplice. «È la fede delle femmine/ come l'araba fenice:/ che vi sia, ciascun lo dice;/ dove sia, nessun lo sa»: così inizia il secondo terzetto, e a parlare è naturalmente Don Alfonso, che calma i bollori dei giovani citando la quartina di Metastasio (il quale, meno maschilista, diceva «la fede degli amanti»), accolta nella tradizione comica attraverso Goldoni (La scuola moderna I,8). Il filosofo scommette cento zecchini, per provare ai due amici che le fidanzate non sono diverse dalle altre donne; per un giorno, Ferrando e Guglielmo dovranno attenersi ai suoi ordini. «E de' cento zecchini, che faremo?» si chiede Guglielmo, sicuro di vincere. «Una bella serenata/ far io voglio alla mia dea», canta a melodia spiegata Ferrando, avviando l'ultimo terzetto del prologo. Nel giardino della casa sul golfo, le sorelle Fiordiligi e Dorabella contemplano sognanti i ritratti dei fidanzati e intrecciano il primo dei loro duetti ("Ah guarda sorella"). A un languido Andante segue un Allegro in cui clarinetti e fagotti si alternano o raddoppiano le voci, le quali procedono spesso per terze e seste parallele o ad imitazione incrociata (una voce fissa su una nota e l'altra che arpeggia, e viceversa): sono stilemi ricorrenti nella partitura; anche nei concertati le sorelle canteranno così, inseparabili. Don Alfonso reca una notizia terribile, ma prima crea il panico cantando un frammento di aria concisa e agitata, poche battute ansimanti: il suo unico numero da solista ("Vorrei dir, e cor non ho"). Spiega che i fidanzati sono richiamati al fronte e devono partire all'istante. Arrivano Ferrando e Guglielmo, compunti e tristissimi: disperazione delle sorelle (quintetto "Sento, o Dio, che questo piede"), confortate dagli amanti (duettino "Al fato dàn legge"), coro di soldati che annuncia il passaggio della barca del reggimento ("Bella vita militar!"), promessa di scriversi spesso (altro quintetto). All'inizio dell'ultimo numero ("Di scrivermi ogni giorno") le voci entrano una per volta, sillabando; ogni nota è seguita da una pausa, secondo una direzione precisa, dalla prima voce (Fiordiligi) all'ultima (Don Alfonso): la prima rimane inchiodata sulla stessa nota, anche gli altri non riescono ad articolare un'intera frase; solo Don Alfonso ripete fra sé, cadenzando compiutamente, «Io crepo, se non rido!». Poi una lunga, commossa melodia passa fra le varie voci, mentre in orchestra spiccano le viole ad avvolgere e unificare la compagine vocale e strumentale. I soldati si allontanano e «le amanti restano immobili sulla sponda del mare». "Soave sia il vento", si augurano nel terzetto seguente: i violini creano un tessuto di semicrome, su cui si distende la melodia; nella prima parte le voci procedono omoritmicamente, unite come in un corale, poi si sciolgono indipendenti in alcune battute polifoniche e, nella coda, si fermano per due volte su un accordo interrogativo, amplificato dai fiati, che getta un'ombra sulla leggerezza sognante di quanto si è ascoltato. Don Alfonso si compiace per aver recitato bene; le frasi che i soldati scambiavano a mezza voce con l'amico ci avevano insospettito, ma adesso siamo sicuri: la partenza è una farsa. Non conosciamo ancora il piano di Don Alfonso, che declama una terzina ripresa da Sannazaro: «Nel mare solca e nell'arena semina/ e il vago vento spera in rete accogliere/ chi fonda sue speranze in cor di femina». Alla presenza della cameriera Despina, Dorabella intona un recitativo da opera seria, seguito da un'aria drammatica e concitata, "Smanie implacabili", con accompagnamento spiritato di violini e fiati (fagotti, corni, clarinetti) a note tenute, come nelle opere serie quando si parla di aldilà (e infatti sono citate le Eumenidi, nel testo ricco di versi sdruccioli tradizionalmente 'infernali'). Informata dell'accaduto, Despina espone le proprie idee circa la fedeltà maschile ed esorta Fiordiligi e Dorabella a «far all'amor come assassine»: i fidanzati al fronte faranno altrettanto (aria "In uomini, in soldati"). Don Alfonso cerca l'aiuto di Despina, promettendole venti scudi se insieme riusciranno a far entrare nelle grazie delle sorelle due nuovi pretendenti. Travestiti da ufficiali albanesi, si avanzano Ferrando e Guglielmo, e Despina non li riconosce, ridendo poiché «hanno un muso fuor dell'uso,/ vero antidoto d'amor». Irrompono le padrone, furenti per la presenza degli sconosciuti; i finti albanesi si dichiarano spasimanti delle sorelle, che esplodono in una cascata di irati vocalizzi (sestetto "Alla bella Despinetta"). Don Alfonso presenta gli ufficiali come suoi cari amici; alle loro rinnovate e caricaturali offerte d'amore, Fiordiligi risponde - anche a nome della sorella - in un vigoroso recitativo: esse serberanno fedeltà agli amanti, fino alla morte. A questo punto è naturale che ella concluda la dichiarazione con un'aria seria, 'di paragone' ("Come scoglio immoto resta"), lunga e virtuosistica, nella quale la voce procede per grandi intervalli (alla fine della prima frase copre oltre due ottave di estensione, in due sole battute, sulle parole «e la tempesta»); dopo la frase in Andante maestoso, l'aria si compone di un Allegro e di una seconda sezione più mossa. Guglielmo replica con un'arietta buffa ("Non siate ritrosi") in cui implora le sorelle, assicurando: «siam forti e ben fatti,/ siam due cari matti» e vantando sguaiatamente la propria virilità («e questi mustacchi/ chiamare si possono/ trionfi degli uomini,/ pennacchi d'amor»). Fiordiligi e Dorabella si ritirano senza parole; i due pretendenti scoppiano a ridere, mentre Don Alfonso li esorta a tacere, in un terzetto veloce e come in punta di piedi ("E voi ridete?"). Ferrando, innamorato dell'amore, invece di preoccuparsi come Guglielmo per aver saltato il pranzo, pensa che a fine giornata sarà nutrito dall'«aura» del suo tesoro: Mozart sorvola sul testo grottesco e disegna una melodia distesa, un momento di pausa nella spietata geometria drammaturgica dell'opera ("Un'aura amorosa"). In giardino, Fiordiligi e Dorabella intonano un duettino di sconforto ("Ah, che tutta in un momento"), ricamato spiritosamente dall'eco di flauti e fagotti: è l'introduzione al finale d'atto. Don Alfonso insegue gli albanesi, che fingono di bere un veleno e stramazzano al suolo; l'amico va in cerca di un medico e lascia i due agonizzanti davanti alle esterrefatte sorelle, che iniziano a provare compassione. Arriva Despina travestita da medico, declamando frasi in un latino strampalato, su un tempo di pomposo minuetto. «Ah, questo medico/ vale un Perù», esclamano le sorelle e Alfonso quando Despina fa rinvenire gli albanesi, toccandoli con una calamita. Ferrando e Guglielmo rinnovano le dichiarazioni e abbracciano le donne; in una lunga sezione (andante "Dove son? che loco è questo?") il tempo drammatico si arresta, le frasi si ripetono sospese in un meccanismo 'a pendolo', fra i personaggi divisi a gruppi: le sorelle, gli amanti, Despina e Don Alfonso, che guidano il gioco ed esortano le donne ad assecondare i primi desideri dei resuscitati, i quali si comportano in modo molto passionale solo perché questi sono gli «effetti ancor del tosco». Quando i due pretendono un bacio, Fiordiligi e Dorabella si infiammano indignate e rifiutano, dichiarando: «Disperati, attossicati,/ ite al diavol quanti siete!».
Le ritroviamo meglio disposte nel secondo atto, quando nella loro camera vengono convinte da Despina (aria "Una donna a quindici anni") e decidono di «divertirsi un poco, e non morire/ dalla malinconia», senza mancare di fede agli amanti, s'intende. Giocheranno, nessuno saprà niente, la gente penserà che gli albanesi che girano per casa siano spasimanti della cameriera. Resta solo da scegliere (duetto "Prenderò quel brunettino"): Dorabella, che decide per prima, vuole Guglielmo, e Fiordiligi apprezza il fatto che le spetti il biondo Ferrando. Nel giardino sul mare si ascolta musica di scena (all'aria aperta, quindi per soli fiati): i due albanesi offrono uno spettacolo alle dame, i suonatori e i cantanti arrivano in barca (duetto con coro "Secondate, aurette amiche"). Don Alfonso e Despina incoraggiano gli amanti e le donne a parlarsi e li lasciano soli (quartetto "La mano a me date"). «Oh, che bella giornata!», «Caldetta anziché no»...: la conversazione è impacciata. Poi Fiordiligi e Ferrando si allontanano, suscitando la gelosia di Guglielmo, che offre un regalo a Dorabella e riesce a conquistarla (duetto "Il core vi dono"). Fiordiligi è sconvolta, capisce che il gioco si è mutato in realtà. Quando Ferrando si accomiata (aria "Ah, lo veggio: quell'anima bella") ella ha un attimo di debolezza e vorrebbe richiamarlo, poi intona un grande rondò ("Per pietà, ben mio, perdona"): ha conosciuto la passione, il suo amore non è più quello virtuoso che serbava al fidanzato ufficiale, è un nuovo sentimento: «è smania, affanno,/ rimorso, pentimento,/ leggerezza, perfidia e tradimento!»; spaventata, rivolge il pensiero al promesso sposo Guglielmo e si proclama a lui fedele. Questi è impacciato nel comunicare a Ferrando che Dorabella ha ceduto facilmente, ma è felice del fatto che Fiordiligi si sia dimostrata «la modestia in carne»; commentando l'infedeltà di Dorabella trova accenti (aria "Donne mie, la fate a tanti") degni di Don Alfonso, o di Figaro nell'aria del quarto atto delle Nozze. Ferrando replica, in una breve cavatina ("Tradito, schernito"), di amare ancora l'infedele fidanzata. In casa, Dorabella esorta Fiordiligi a divertirsi; il tono scherzoso e lo stile disinvolto della sua aria ("È amore un ladroncello") indicano che Dorabella parla il linguaggio di Despina, si è 'abbassata' alla sua morale. Fiordiligi decide di travestirsi da ufficiale e raggiungere il promesso sposo sul campo di battaglia: si fa portare delle vesti maschili, si guarda allo specchio, constata il fatto che cambiare abito significa perdere la propria identità; immagina di trovarsi già sul posto e che Guglielmo la riconosca (duetto "Tra gli amplessi in pochi istanti"), ma Ferrando la interrompe, minacciando di uccidersi. «Taci, ahimè! Son abbastanza/ tormentata ed infelice!» implora Fiordiligi, e Ferrando chiede la sua mano, rivolgendosi a lei con parole che probabilmente Guglielmo non le ha mai detto. «Crudel, hai vinto», mormora la donna; e aggiunge, su una frase dell'oboe: «fa' di me quel che ti par». Guglielmo ha assistito al dialogo, è furente, e anche Ferrando odia la sua ex fidanzata, ma Don Alfonso, che ha dimostrato quanto voleva, li esorta a finire la commedia con doppie nozze: una donna vale l'altra, meglio tenersi queste «cornacchie spennacchiate»; in un'ottava egli spiega di non voler accusare le donne, anzi le scusa, è colpa della natura se «così fan tutte». Nella sala illuminata, con la tavola imbandita per gli sposi, Despina organizza i preparativi (finale "Fate presto, o cari amici") e il coro di servi e suonatori inneggia alle nuove coppie. Al momento del brindisi Fiordiligi, Dorabella e Ferrando cantano un breve canone, su un tema affettuoso, da musica da camera, mentre Guglielmo si mostra incapace di unirsi a loro e commenta: «Ah, bevessero del tossico/ queste volpi senza onor!». Il notaio (Despina travestita) fa firmare il finto contratto nuziale; un coro interno intona "Bella vita militar!" e le sorelle rimangono impietrite: tornano i fidanzati. Nascosti gli albanesi in una stanza, esse si preparano ad accogliere Ferrando e Guglielmo, che fingono di insospettirsi quando scoprono il notaio e il contratto; poi si presentano vestiti da albanesi, ma senza cappello, senza mantelli e senza «mustacchi», in modo da essere riconosciuti. Don Alfonso si giustifica: ha agito a fin di bene, per rendere più saggi gli sposi. Le coppie si ricompongono (non si sa quali), tutti cantano la morale: «Fortunato l'uom che prende/ ogni cosa pel buon verso,/ e tra i casi e le vicende/ da ragion guidar si fa».
Il libretto mette in scena la crudeltà dei
rapporti fra i sessi e la pretesa maschile del dominio fisico esclusivo
su una persona. Il tema dell'infedeltà
è spesso presente nella librettistica comica, ma qui ha un
sapore diverso: alla prova sono messe due donne di condizione sociale
elevata. Per convenzione, nell'opera buffa solo serve,
contadine e popolane potevano esprimersi in modo più libero
e comportarsi in modo disinibito, in quanto lo schermo della differenza
sociale implicava il giudizio negativo da parte dello spettatore. In
ottica maschilista, l'infedeltà
dell'uomo è stata sempre considerata
più 'naturale': Don Giovanni e il conte
delle Nozze di Figaro
destano minori preoccupazioni di Fiordiligi e Dorabella, dame
«ferraresi» (un omaggio alla civiltà
rinascimentale dell'Ariosto). Queste eroine di un nuovo mondo
cortese, se si mostrano infedeli vengono bollate dai fidanzati come
donne «che non valgono due soldi» e
«cagne», o semplicemente
«femmine» da Don Alfonso. Immaginiamo il contrario,
la stessa vicenda rovesciata: Ferrando e Guglielmo messi alla prova da
Fiordiligi e Dorabella travestite, con scambio di coppie (anche la
contessa delle Nozze,
suo malgrado, mette alla prova il marito fedifrago e, travestita da
Susanna, ne subisce le pesanti attenzioni; ma subito lo perdona,
benedicendolo con una melodia dolcissima che cade dal cielo:
«Più docile io sono...»). Proprio una
frase di Fiordiligi, nel suo primo recitativo, insinua la prospettiva
potenzialmente rovesciata: «Mi par che stamattina volentieri/
farei la pazzarella (...)/ Quando Guglielmo viene, se sapessi/ che
burla gli vo' far!», ma poi sono le donne a subire
la burla da parte degli amanti: forse Da Ponte vuole suggerire che
tutto è relativo, ogni cosa è il contrario di se
stessa, e che il libretto prevede il suo negativo... Allora, cosa
succederebbe se a travestirsi fossero le sorelle? Nulla di
interessante, nessuna presa in giro crudele, puntuale routine
drammaturgica: Ferrando e Guglielmo cederebbero subito (altro che finti
avvelenamenti), perché «così fan
tutti». La prospettiva musicale rovesciata funzionerebbe
ancor meno; pensiamo a un Ferrando che canti le arie di Fiordiligi,
retoricamente belcantistiche, da opera seria: non sarebbe possibile. La
drammaturgia musicale dell'opera di Mozart funziona
perché a essere ingannate sono le donne, e perché
alle protagoniste femminili è concesso di adottare un
registro stilistico che agli uomini non compete: lo stile alto,
tragico. Per cantare "Come scoglio", o anche "Per pietà, ben
mio, perdona", Ferrando dovrebbe diventare un castrato. Ai
rappresentanti del 'maschile', quasi per
contrappasso, è dato esprimersi solamente in una gamma di
registri molto ridotta: dal languore delle brevi arie di Ferrando, alla
rabbia buffa, in stile comico, di Guglielmo. A Don Alfonso poi non
è nemmeno concessa un'aria vera e propria: egli
ragiona soltanto, adottando i recitativi accompagnati da opera francese
razionalista. Invece la stessa Despina si muove con disinvoltura fra le
ampie possibilità retoriche del
'femminile': il suo ambito naturale è il
ritmo ternario, è la corta melodia facile facile, da
cameriera. Ma non è inchiodata lì: può
assumere il linguaggio delle sue padrone, quando è chiamata
a parlare al loro posto (nel quartetto del secondo atto:
«Quello ch'è stato è
stato»); nei travestimenti può cambiare sesso,
condizione sociale, linguaggio. E Dorabella intona un'aria di
furia, ma scivola disinvoltamente nella facilità melodica
della cameriera ("È amore un ladroncello"). Scarto di
registri, parodia e ironia sono chiavi interpretative spesso adottate
nell'esegesi di un'opera che vive di situazioni
artificiali e parossistiche, con un libretto che si basa sulla
finzione, sulla recita: una sorta di riflessione sulla storia
dell'opera buffa. Letta anche musicalmente nella prospettiva
sfuggente dell'ambiguità, Così
fan tutte
sembra diventare un frutto del Novecento, un omaggio allo Stravinskij
della musica 'al quadrato', tutta citazione... Ma
la musica teatrale è sempre parodia: l'opera buffa
di fine Settecento, intreccio di parole e gesti vocali-strumentali
codificati dalla tradizione, offre a ogni battuta un atteggiamento
parodico facile da decifrare. Talmente facile che diventa un abito, ed
è quasi impossibile distinguere l'intento ironico,
soggettivo, da quel che è il risultato
dell'adesione spontanea ai canoni di un genere altamente
codificato. Quando Mozart intona le parole
«sospir», «sospiretti» e
simili, ricorrendo alla tecnica dell'hoquetus, della
parola spezzata da frequenti pause a singhiozzo, fa la parodia di una
formula abusata, cita consapevolmente quei luoghi in cui egli stesso
l'ha impiegata in precedenza, prende in giro le svampitissime
sorelle, o semplicemente aderisce al codice musicale che gli impone
quello stilema linguistico? Quando richiama più volte una
formula melodica precisa, ad esempio quella che prevede una nota
tenuta, seguita da una di volta e una rapida scala discendente (nel
terzo terzetto, nella prima frase di Ferrando, sulla parola
«serenata»; nel primo quintetto, sulle parole
«il destin [così defrauda]»; etc.),
offre una serie di autocitazioni che significano qualcosa, o propone
una formula che traduce lo sfogo di una passione, senza istituire un
rapporto diretto fra le varie occorrenze? Tutta la melodia di Ferrando,
nel terzetto "Una bella serenata", sembra citata al culmine drammatico
dell'opera, nel duetto del secondo atto ("Tra gli amplessi in
pochi istanti"), tra lo stesso Ferrando e Fiordiligi, alle parole
«Deh, partite!», «Ah, no, mia
vita!»: è una coincidenza o una traccia allusiva?
E così via. Più che un intento ironico, sembra
sia una volontà di analisi, un'attenzione
serissima, tragica, a collegare gli esempi. È una
riflessione sul linguaggio musicale, sulla retorica
dell'opera buffa: Mozart sembra prendere tutto molto
seriamente, assume l'artificiosità e la
convenzionalità delle formule espressive di un genere che ha
decenni di storia alle spalle, riconosce e sfrutta scopertamente la
possibilità di scarti stilistici improvvisi, le risorse di
un codice di per sé impregnato di parodia e autocitazione.
Così, può illuminare ogni piega dei versi del
libretto, può rendere anche una finezza come tradurre
musicalmente le figure retoriche: ad esempio nel primo duetto
femminile, ai versi «Si vede un sembiante/ guerriero ed
amante», «Si vede una faccia/ che alletta e
minaccia», i ritmi puntati contrapposti ai languori di
appoggiature e arabeschi vocali traducono il chiasmo verbale
(guerriero, amante, alletta, minaccia), ma il compositore aggiunge di
suo l'amplificazione della seconda frase, con le triplici
ripetizioni («che alletta, che alletta, che
alletta...»). Il «suono orribile», nella
prima aria di Dorabella, è puntualmente tradotto con una
'fermata barocca'; la corsa palpitante degli archi
si blocca e si sentono solo i fiati, a note tenute, nella loro
fissità 'oracolare', gluckiana: un altro
artificio retorico. Per la frase «Mille volte il brando
presi», nella seconda aria di Guglielmo, Mozart introduce lo
scoppio orchestrale di trombe e timpani, che hanno unicamente la
funzione di segnale linguistico: la strumentazione militaresca non
è prevista nella struttura di quell'aria, che
procede e conclude come aveva iniziato, con gli archi a rotta di collo
e le fanfarette dei fiati (flauti, oboi, fagotti, corni). Nella
consapevole traduzione 'letterale' del testo in
figure musicali, l'orchestrazione ha sempre una grande
importanza. Clarinetti, fagotti, flauti, oboi, spesso associati a due a
due, punteggiano i sospiri degli amanti; i corni sono usati a volte in
funzione concertante, non solo come sostegno timbrico; le trombe sono
frequentemente impiegate al posto dei corni, senza i timpani: in
quest'ultimo caso (prima aria di Fiordiligi, Andante del
finale primo, quartetto del secondo atto e "Ah, lo veggio:
quell'anima bella") Mozart si inventa un impasto orchestrale
inedito.
Marco Emanuele
Così fan tutte, o La scola degli amanti, "dramma giocoso" in due atti, venne composto tra l'ottobre 1789 e il gennaio 1790; ma alla fine di dicembre lo spartito doveva ritenersi completato almeno nelle sue parti essenziali, se Mozart, la sera di San Silvestro, ne tenne in casa propria una esecuzione privata al pianoforte, presenti, tra gli altri, Haydn, Da Ponte e quel Michael Puchberg, commerciante e confratello di loggia massonica, che tante volte in quei mesi aveva soccorso con prestiti di denaro il compositore, le cui fortune professionali avevano toccato il fondo. La prima rappresentazione al Burgtheater di Vienna avvenne la sera del 26 gennaio 1790, con la seguente distribuzione scenica: Adriana Gabrielli del Bene (Fiordiligi) e la sorella Luisa Gabrielli Villeheuve (Dorabella); Vincenzo Calvesi (Ferrando); Francesco Benucci (Guglielmo); Francesco Bussani (Don Alfonso) e la moglie Dorotea (Despina). Discreto il successo di pubblico; ottimi i resoconti della stampa. Ma, dopo la quarta replica, la morte di Giuseppe II (20 febbraio) e la conseguente chiusura per lutto dei teatri viennesi determinarono il rinvio dello spettacolo, con poche altre riprese, all'estate entrante.
Stroncato dall'etisia aggravatasi durante la sua permanenza sul fronte della guerra austro-turca, all'imperiale committente non sarà dato di assaporare l'ultimo frutto della sua spregiudicata politica teatrale. Tra tutte le ipotetiche fonti letterarie del libretto, variamente chiamate in causa (dal mito di Cefalo e Procri all'Ariosto, da Cervantes a Boccaccio), la sola a presentarsi con i caratteri di un'incontestabile plausibilità, è tutta dapontiana: si tratta del dramma giocoso L'arbore di Diana, posto in musica da Vicente Martin y Soler e rappresentato con grande successo al Burgtheater nel 1787. Evidente è il rapporto di filiazione sotteso tra questo libretto e quello di Così fan tutte. Entrambi si delineano come drammi a tesi, e la posta in gioco è la virtù femminile, in cambio della quale viene offerta non tanto una generica libertà sessuale, quanto una disincantata disponibilità a cogliere senza remore sentimentali né scrupoli morali l'occasione d'amore offerta nei casi del quotidiano, all'insegna di un possibilismo relativistico e liberatorio: quanto, insomma, viene teorizzato da Despina nella lezione di ars amandi impartita alle sorelle ferraresi nella prima scena del secondo atto.
Trasportando l'azione da un surrettizio, ironizzato mondo mitologico, alla quotidianità del tempo presente, nel suo nuovo libretto per Mozart Da Ponte rompeva del tutto con la struttura drammatica della grande "commedia umana", inaugurata con il Figaro e fondata sullo studio psicologico dei personaggi e sul loro divenire nel procedere dell'azione drammatica. L'intreccio, fondato sulla scomposizione e ricomposizione di una sequenza di diverse situazioni, quasi tutte giocate sul piano del travestimento, ci riporta piuttosto alla vecchia commedia di maschere in cui, più che di caratteri, è lecito parlare di tipologie esemplari. L'intreccio inoltre prescinde totalmente dalla credibilità realistica e chiede allo spettatore un'adesione di tipo intellettuale - il gusto per il puro gioco, per la simmetria, per l'effervescenza delle battute di un testo delizioso, per il capriccioso avvicendarsi delle situazioni - piuttosto che di tipo affettivo e sentimentale. Di qui la difficoltà di ricezione, ben presto incontrata dall'opera e che non manca di illustri esempi di rifiuto, nascenti da obiezioni di carattere morale (Beethoven) oppure drammatico (Wagner).
In realtà Così fan tutte è anche altro. È un esperimento che porta ad esiti sconvolgenti; è, sull'impulso dell'Arbore di Diana, la grande opera della tentazione. La natura umana vi viene messa alla prova e rivela, alla verifica sperimentale, un insospettabile codice genetico del tutto soggiogato dalla volubilità dei sensi e non comandato da un sistema di idee. Fiordiligi ama Guglielmo, Dorabella ama Ferrando. Vediamo di metterle alla prova, di collocarle in una situazione del tutto inedita; scopriremo che Dorabella è pronta ad amare Guglielmo e a dimenticare Ferrando, e lo stesso avverrà, anche se in un lasso di tempo e con resistenze maggiori, per Fiordiligi nei confronti di Ferrando e del fidanzato. Tale lezione, dal contenuto ideologico estremamente serio, riversato negli arcaici recipienti della commedia dell'Arte e della più tipica opera buffa convenzionale, ci porta in realtà ad apprendere che l'animo dell'uomo non è che un fascio di sensazioni, proprio come aveva sostenuto Hume nel Trattato sull'intelletto umano.
Sulla strada dell'empirismo settecentesco, Don Alfonso, che non per nulla è un "vecchio filosofo", compie un'operazione riduttiva sullo Spirito e sui suoi grandi epifenomeni: l'Amore, la Fedeltà, la Costanza, l'Immutabilità. Alla fine dell'opera, nulla di tutto questo rimane in piedi. Si vanifica l'antica teodicea preilluministica e leibniziana, già presa di mira dai sarcasmi voltairiani e secondo la quale "tutto va bene" e noi vivremmo nell'"ottimo dei mondi possibili"; dietro la conclusione del gioco c'è un sapore risentito, amaro, di fondamentale disillusione. Si direbbe che Mozart abbia percorso, all'interno degli sviluppi del suo teatro musicale, l'intero iter evolutivo della cultura dei Lumi: dall'iniziale convinzione nella bontà naturale dell'uomo e nei nuovi valori morali e civili (Ratto dal serraglio, Figaro), a una più autunnale crisi del tardo Illuminismo (Don Giovanni, Così fan tutte) in cui, scomparsi Voltaire e Rousseau, domina il tormentato, drammatico mondo di Diderot e già si profilano il nero nichilismo di Sade e il crudo scetticismo di Laclos. Se Figaro era stato l'apogeo del classicismo mozartiano, Così è già, in tutto e per tutto, un'opera postclassica. La natura umana viene tentata e cade, come nell'Eden. Ed è il tentatore che vince la partita, distruggendo il Paradiso terrestre.
La pienezza sferica della melodia mozartiana, quale si manifesta in Così fan tutte, non possiede ancora la disadorna, ideale purezza ottenuta per sottrazione e decantazione, che presto rifulgerà negli estremi capolavori. È ancora una bellezza florida e incantata, solamente liberata dal fervore comunicativo degli anni dei grandi concerti pianistici, del Figaro, dalla Sinfonia di Praga, del Don Giovanni, e assai vicina a quella di opere coeve, quali il Quintetto col clarinetto, il Divertimento K. 563, gli ultimi Trii per pianoforte e archi. Tale peculiarità (in cui non è tutto l'ultimo stile mozartiano, anche se di esso sono stati eretti i muri maestri) si realizza in primo luogo, in una generalizzata contrazione delle forme, già presente del resto nelle ultime tre sinfonie: opere grandi, ma non monumentali, come erano state la "Praga" o i due Quintetti per archi del-l'87. L'età dell'entusiastica sperimentazione, della conquista di nuovi spazi sonori sembra conclusa al pari di quella dell'ansia di comunicazione espressiva e di una impetuosa e quasi fisiologica emotività. Espressione, pathos, emozione sussistono certo in Così fan tutte, ma al quadrato e come provvisorio travestimento, del tutto consono a quelli scenici dei due uffiziali e di Despina.
Soccorrono mirabilmente, a codesto stile gratuito che celebra la liturgia della caduta della fede nella commedia umana, alcuni preziosi antidoti forniti dal passato musicale, il cui recupero critico, da tempo già in atto nella musica di Mozart, fa ora la sua temeraria irruzione nei recinti, da sempre riservati al quotidiano, dell'opera buffa, attuandovi un'operazione stilistica di sconvolgente modernità. Il contrappunto, quindi, usato come elemento straniante, ma anche l'esprit de geometrie bachiano; e persino taluni capricciosi preziosismi arcaicizzanti, recuperati a titolo ironico in coincidenza con atipiche inflessioni "barocche" del testo. Si pensi al burlesco recitativo con il quale Guglielmo e Ferrando muovono il primo assalto alla virtuosa costanza delle due ragazze ("Amor, il nume / sì possente, per voi qui ci conduce" - atto I, scena 11), posto in musica da Mozart in uno stile à la manière dei duetti da camera di Steffani o di Alessandro Scarlatti e Francesco Durante.
Tali elementi coesistono in miracolosa naturalezza con l'amabilità melodica di una galanteria italiana assunta anch'essa non come mero dato effettuale, ma come principio, categoria estetica di un melodizzare votato alla sensuale vaghezza dei contorni, a una simmetria basata non sulla schematizzazione fraseologica (anche qui, come quasi sempre, in Mozart, evitata con somma cura) ma su un superiore sistema di equilibri e rimandi armonico-motivici distribuiti in studiata successione. Di tali dolci naufragi nel mare di una soavità nonostante tutto e sopra ogni teatrale verisimiglianza (addio plastici realismi, studi di carattere, drammatiche tensioni di Figaro e di Don Giovanni!), sublimi noncuranze di una mente che dà l'impressione di muoversi sempre in una sfera troppo alta, Così è un vero regesto. L'invenzione vi viene trascinata come in un gorgo irresistibile, irretita da una scrittura che è intimamente idonea assai più all'astrazione lirica che alla mutevole, vibratile malleabilità drammaturgica: ciò che spiega il paradosso dell'utilizzo di tale musica, durante l'Ottocento nei paesi tedeschi di area cattolica, come cava di materiali per arrangiamenti di genere chiesastico.
Non occorre pervenire all'acme catastrofica della tragedia buffa, quando Fiordiligi intona la testa del canone fatale sulle parole: "E nel tuo, nel mio bicchiere / si sommerga ogni pensiero, / e non resti più memoria / del passato, ai nostri cor" (Finale secondo), per avvertire tutto questo urgere di sottintesi e richiami ad altro. Non una realtà diversa da quella rappresentata, della quale è esplicitamente sancita l'infinita vanità; ma davvero un'altra dimensione conoscitiva trascendente quella fenomenica e che potremmo, con la debita restrizione mentale, definire metafisica, la sola cui ora sembra tendere il compositore e che abbia il potere di suscitare in lui emozioni (e ciò varrà anche per la La clemenza di Tito, l'ultima e la più categorica tra le evasioni mozartiane): in attesa che la rinnovata humanitas della Zauberflöte, con i suoi rimandi utopici e salvifici, batta alla porta il suo triplice tocco.
Giovanni Carli Ballola