L'apparizione di un'opera di Ildebrando Pizzetti nel cartellone di una istituzione concertistica italiana è un fatto piuttosto raro ai nostri giorni. Infatti sulla cosiddetta "generazione dell'Ottanta" grava una sorta di damnatio memoriae, per la quale compositori come Casella, Malipiero, Respighi e lo stesso Pizzetti vengono solitamente "dimenticati" nelle stagioni di concerti; forse, almeno in parte, per esorcizzare la loro militanza ideologica e il loro fiancheggiamento politico nel ventennio fascista. In effetti il provincialismo della politica culturale fascista non manca di ripercuotersi nelle partiture dei compositori della generazione dell'Ottanta. A costoro peraltro viene in genere riconosciuto un merito storico, quello di avere riportato in auge la tradizione polifonica e strumentale italiana, soffocata dal fenomeno del melodramma, nel momento in cui questo degenerava negli esiti del post-verismo. Senonché il recupero della musica "antica" e il ritorno alla tradizione strumentale furono viste in una prospettiva nazionalistica che ne ridusse, e in qualche caso ne vanificò, la spinta riformatrice, facendo clamorosamente mancare i contatti con le avanguardie europee.
All'interno di questa cornice la personalità di Ildebrando Pizzetti è piuttosto singolare, e non priva di contraddizioni; da una parte avversa al fenomeno verista e interessata al recupero di stilemi antichi e del canto gregoriano, dall'altra rivolta principalmente al teatro musicale e incapace di convertire le ricerche sull'antico in proposte d'avanguardia; si da scivolare rapidamente verso posizioni in qualche modo "conservatrici", e dichiaratamente avverse agli sviluppi della musica europea. L'interesse verso il teatro si traduce soprattutto nella individuazione di un "arioso" continuo e flessibile, attento a ogni sfumatura del testo poetico; ma non manca poi il pericolo che questo personalissimo linguaggio si polarizzi verso una espressività estetizzante, verso un uso degli stilemi impressionisti virato verso la retorica dannunziana.
E tuttavia, se Pizzetti fu soprattutto un drammaturgo, non fu per questo soltanto un drammaturgo; e già nel 1954 Fedele d'Amico, commentando la prima assoluta della Figlia di Iorio, quart'ultima opera di "Ildebrando da Parma" (come D'Annunzio lo aveva chiamato) rimarcava come fossero sostanzialmente divise le posizioni della critica sul compositore: «quelle che scorgono le realizzazioni più tipiche di Pizzetti nel suo teatro, [e] quelle che di gran lunga preferiscono l'autore di cori, di liriche e almeno di alcuni fra i lavori strumentali». Due "Ildebrandi", insomma, fra i quali sarebbe da preferire senz'altro quello non-operistico, perché «la dialettica fra gli elementi gregoriani e quelli romantico-impressionisti del linguaggio di Pizzetti, capacissima in tanti altri suoi lavori di articolarsi drammaticamente a motivo umano di lampante evidenza, a simbolo poetico d'una crisi tipicamente moderna, nei suoi drammi sembra spegnersi come tale» (I due Ildebrandi, ne "I casi della musica", Il Saggiatore, Milano 1962, pp. 71-73).
Di qui l'interesse della riproposta pizzettiana di questa sera, che concerne alcune liriche da camera, le Tre canzoni del 1926 (è il periodo della gestazione del Fra Gherardo), pubblicate l'anno seguente da Ricordi in una versione per soprano e quartetto d'archi, e trascritte anche - in una versione forse non altrettanto efficace - per orchestra d'archi. I testi derivano da una raccolta di poesie popolari italiane, in una lezione che fa uso di un linguaggio pseudo popolare anche se in realtà filtrato attraverso qualche "colto" rimaneggiamento, ma con soggetti facilmente inseribili nelle tipologie della canzone extra colta (la giovane che cerca di disfarsi del marito per concedersi al re; la filastrocca della prigioniera "salvata" dallo sposo e devota alla sua memoria; il bacio chiesto dal pescatore alla fanciulla in premio della pesca dell'anello caduto in fondo al mare).
Nelle tre liriche Pizzetti fa uso di materiale modale, fuso con reminiscenze debussiane; la costruzione musicale non è strofica, ma è sempre unificata dal ritorno del materiale melodico, in una veste continuamente variata a ogni riproposta (particolarmente efficace, nella seconda lirica, la ripetuta contrapposizione fra la cantilena in 6/8 e il movimento di danza in 3/4 condotto dal violino). La nitidezza degli spunti melodici, l'insistenza dei semplici schemi ritmici nella parte vocale vogliono conservare alle canzoni il carattere di "canto popolare"; ma interviene poi la preziosissima scrittura quartettistica, trasparente negli intrecci e armonicamente imprevedibile, a cesellare le tre pagine e a farle rientrare nella poetica tipicamente lirica di Pizzetti; dove però le dimensioni contenute e la confezione ineccepibile del prodotto evitano i pericoli di retorica che si annidano nella produzione più impegnativa dell'autore.
Arrigo Quattrocchi