Sinfonia n. 6 in mi bemolle minore, op. 111


Musica: Sergej Prokofiev (1891 - 1953)
  1. Allegro moderato
  2. Largo
  3. Vivace
Organico: ottavino, 2 flauti, 2 oboi, corno inglese, clarinetto piccolo, 2 clarinetti, clarinetto basso, 2 fagotti, controfagotto, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, woodblocks, tamburo basco, triangolo, rullante, piatti, grancassa, tam-tam, pianoforte, celesta, arpa, archi
Composizione: 1945 - 1947
Prima esecuzione: Leningrado, Sala grande del Conservatorio, 11 ottobre 1947
Edizione: Leads Music Corp., New York, 1949
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Quella di questa sera è dunque la seconda esecuzione della Sesta Sinfonia di Prokof'ev nei concerti dell'Accademia di Santa Cecilia. I motivi della scarsa popolarità di quello che invece può essere considerato uno dei massimi capolavori sinfonici di Prokof'ev sono da ricercare ancora una volta all'esterno della nostra realtà specifica e possono essere ritrovati nelle vicende stesse della biografia del compositore, nelle sue notevoli e continue difficoltà di rapportarsi al particolare contesto politico e sociale del suo paese e nella singolare fortuna critica che lo ha accompagnato durante la sua vita e che continua ancor oggi a interessare lui e molte delle sue opere musicali.

I primi schizzi della Sesta risalgono all'estate del 1945 e furono scritti a Ivanovo, 80 chilometri a ovest di Mosca, nella residenza della Lega dei compositori. Prokof'ev era reduce dal trionfo ottenuto dirigendo per la prima volta a Mosca la sua Quinta Sinfonia (premiata in seguito con il Premio Stalin), ma soffriva anche dei postumi di una commozione cerebrale in seguito a una caduta. La sua salute peggiorò ancora nell'inverno del 1946 e, dopo un periodo trascorso in ospedale, il musicista si trasferì a Nikolina Gora, un villaggio a ovest di Mosca. Qui il 18 febbraio del 1947 portò a termine l'orchestrazione della Sesta, che aveva iniziato il 10 dicembre del 1946.

La prima esecuzione ebbe luogo l'11 ottobre del 1947, alla presenza dell'autore, nel concerto inaugurale della stagione della Filarmonica di Leningrado, sotto la direzione di Evgenij Mravinskij. Nel programma di sala, Schneerson, il critico musicale del VOKS, la Società per le relazioni culturali con i paesi stranieri, aveva presentato il nuovo lavoro di Prokof'ev in questi termini: «È una delle sue opere più magnifiche ed elevate, tutta pervasa dallo spirito creativo dell'umanesimo sovietico [...] segna una tappa molto importante non solo nell'arte di Prokof'ev, ma anche nell'intera storia del sinfonismo sovietico». La Sinfonia, fu accolta da un notevole successo di pubblico e di critica e venne ripetuta per altre due volte.

Pochi giorni dopo la prima, sulla stampa sovietica Prokof'ev scrisse del suo nuovo lavoro: «Nel comporla mi sono sforzato di esprimere in musica la mia ammirazione per la forza spirituale dell'uomo, che si è manifestata così vivamente nella nostra epoca e nel nostro paese». E in un altra occasione aveva descritto la Sesta con queste parole: «Il primo movimento è di carattere agitato, a volte lirico, altre austero; il secondo movimento - Largo - è più luminoso e ricco di melodie. Il Finale, rapido e in modo maggiore, è vicino al carattere della mia Quinta Sinfonia, nonostante le reminiscenze austere del primo movimento».

In realtà le parole di Prokof'ev sembrano dettate più dalla preoccupazione di non allarmare i censori del regime che da un'obiettiva analisi dei contenuti della Sesta, che a un ascolto attento si rivela invece un brano complesso e originale, carico di pessimismo e di dolore. In effetti non è facile penetrare il complesso mondo sonoro della Sesta al primo ascolto. Perfino il compositore Nikolaj Miaskovskij, amico fin dall'infanzia di Prokof'ev, in occasione della prima esecuzione a Mosca della Sesta Sinfonia, il 25 dicembre del 1947, scrisse: «Ho iniziato a comprendere quest'opera solamente al terzo ascolto. [...] Ora ne sono conquistato: è un'opera molto profonda, ma cupa e aspra nella sua orchestrazione».

La complessità, la profondità e la cupezza della Sinfonia individuate già da Miaskovskij non erano certo ingredienti graditi al potere sovietico di quegli anni. L'immediata conferma giunse proprio in occasione della prima moscovita della Sesta, liquidata in poche righe dalla "Pravda". Ancora poche settimane e il 10 febbraio sarebbe apparso il decreto del Comitato Centrale del Partito con le accuse «a quei compositori che aderiscono pertinacemente alla scuola formalistica e antipopolare». Sette giorni ancora e l'assemblea dei compositori avrebbe messo al bando una serie di opere fra cui la Sesta Sinfonia di Prokof'ev e perfino due suoi lavori di tipo celebrativo: Ode alla fine della guerra e Poema festivo; presto se ne sarebbero aggiunti molti altri, fra cui le Sonate per pianoforte n. 6, 7 e 8.

Se la Sesta sembrava a Miaskovskij complessa, ciò è dovuto in parte ad alcune soluzioni formali adottate da Prokof'ev e dai bruschi contrasti fra i movimenti che a un primo ascolto possono dare, a torto, l'immagine di un lavoro privo di una sua logica interiore, nato solo dalla giustapposizione di idee differenti.

Questo pericolo si corre soprattutto nel primo movimento, Allegro moderato, (che richiede quindi un'analisi particolarmente dettagliata), costruito da Prokof'ev con una struttura "a pannelli" che vede susseguirsi una serie di sezioni basate su tre idee tematiche principali, di cui le prime due, per giunta, sono strettamente collegate fra loro a livello sia melodico che ritmico. All'interno di questo movimento, quindi, i contrasti non nascono tanto dalle differenze melodiche e di carattere fra i temi (che comunque si fanno più evidenti nei confronti della terza idea) quanto dal trattamento a cui Prokof'ev sottopone i temi a livello timbrico, attraverso l'impiego di una tavolozza orchestrale di sapiente raffinatezza.

Il movimento appare frammentario e costruito su contrasti timbrici fin dall'esordio, una breve ed aspra serie di secche note che dalle trombe rimbalzano ritmicamente verso il grave dei tromboni, basso tuba, violoncelli e contrabbassi. Un rapido levar di sipario di dieci battute, tragico e inquietante, che non tornerà più nel corso della Sinfonia, e introduce direttamente il primo tema: una desolata cantilena esposta sommessamente da primi violini e viole con sordine e ripresa poco dopo da oboe e fagotto. L'idea risulta scorrevole e, anche se in un tono più malinconico e trasognato (che sembra evocare l'inizio di Cenerentola), contiene in potenza la stessa flessibile vitalità ritmica dell'aggressivo incipit della Settima Sonata per pianoforte; una vitalità che gli consentirà di dar vita a tutte le pagine più agitate ed accese del movimento. Dopo le prime accensioni, che coinvolgono un'orchestra sempre più ricca che tocca varie tonalità a mano a mano che il tema si trasforma, Prokof'ev prepara l'apparizione del secondo tema quasi trattenendo il respiro per nove suggestive battute (Poco più sostenuto) in cui, su di un lontano tremolo in pianissimo dei contrabbassi e della grancassa, gli archi, tutti con sordina, partendo dal registro grave fanno ascoltare un'ultima trasformazione del tema: una trasformazione che ha reso ormai tenui le differenze con l'imminente secondo tema.

L'entrata del secondo tema (Moderato), ancora un'idea cantilenante affidata agli oboi in ottava e prescritta da Prokof'ev «dolce e sognando», avviene dunque senza cesure apparenti e bruschi contrasti. In questo breve episodio Prokof'ev gioca in modo magistrale con i colori dei suoni. Gli oboi ripetono il tema, questa volta raddoppiati dalle viole, poi tacciono e il tema passa a violini primi e viole, prima di un'ultima iridescente trasformazione: ora è il corno a cantare dolcemente, sostenuto dalle discrete volute dei primi violini in pianissimo nel registro acuto. Un breve trillo del clarinetto solo dà il via a una nuova sezione animata a piena orchestra (Allegro moderato, come prima), basata sull'aspetto ritmico del primo tema, che si spegne gradualmente su delle note lunghe di legni, violoncelli e contrabbassi, sfociando così nella sezione della terza idea tematica, questa sì fortemente differenziata dalle prime due sotto molti punti di vista. Innanzitutto si tratta di un Andante molto in tempo di 4/4 (fino ad ora si erano succedute solamente battute di 6/8 e di 9/8). Ma ancora una volta è l'invenzione timbrica a connotare compiutamente questo nuovo episodio, prima ancora dell'entrata del tema, già nell'accompagnamento: un meccanico tappeto di note staccarissime del pianoforte e del fagotto all'unisono, intercalato dai funebri, ritmici rintocchi degli archi gravi, trombone, basso tuba e grancassa, fa da sostegno allo splendido canto del terzo tema, esposto all'unisono («lugubre», prescrive l'autore) dal corno inglese e dalle viole con sordina. L'orchestra si va gradualmente gonfiando, ed altre voci si aggiungono a raddoppiare le prime mentre il pathos cresce inesorabilmente. Se al tappeto del pianoforte e dei fagotti si aggiungono i clarinetti e, a tratti, il controfagotto e il trombone, anche il tema si è fatto più intenso per giungere gradualmente in fortissimo: insieme alle viole, che hanno tolto la sordina, e al corno inglese cantano ora a piena voce i violini primi e il basso tuba.

Ma non c'è tempo per abbandonarsi al lugubre pathos di questo episodio: è già partito di nuovo l'Allegro in 6/8 (Un poco più animato del tempo I), un'ampia e agitata cavalcata di tutta l'orchestra che va a spegnersi su delle lunghe note dei fiati che preparano un fugace ritorno del secondo tema (Moderato), sempre «dolce e sognando», che passa dal corno a legni e archi in varie combinazioni. Inaspettate ricompaiono le nove battute di sospensione che in precedenza avevano preparato la prima comparsa del secondo tema: Prokof'ev aggiunge il pianoforte a cambiare colore al sommesso tremolo di contrabbassi e grancassa e al canto degli archi con sordina, rendendo ancora più suggestiva questa pagina di attesa da cui questa volta emerge, a sorpresa, la lugubre marcia in 4/4 del terzo tema (Andante molto). Rispetto alla prima volta il pianoforte ha ingrossato la sua voce sostenuto da fiati e archi, e il canto del corno inglese e delle viole con sordina - a cui presto si aggiungono i violini, l'oboe e, da ultima, la tromba - viene attraversato per cinque volte dalle gelide e taglienti sciabolate dei tromboni e del basso tuba.

A questo punto l'orchestra sembra lanciarsi in una cavalcata finale (Allegro moderato) ma non ne ha più le forze e dopo sole diciotto battute si ferma estenuata su delle note lunghe di fiati e archi, da cui emergono con sinistri bagliori i macabri rintocchi del pianoforte (con violoncelli e fagotto) sostenuti da un cupo mugghiare di contrabbassi, grancassa, basso tuba e controfagotto. Per due volte, sempre più faticosamente, i fiati fanno sentire la loro voce, prima che il livido brontolio del pianoforte in pianissimo e dei contrabbassi sprofondi il movimento verso un silenzio di morte.

Violentissimo risulta quindi il contrasto con l'avvio del secondo movimento, Largo, un'esplosione di tutta l'orchestra su cui si staglia come un grido un'intensa figura dal cromatismo dissonante, enunciata dai legni e subito ripresa dai violini primi. In realtà si tratta solo di una sorta di introduzione (che tornerà a farsi sentire verso la fine del movimento) che per contrasto conferisce maggior risalto all'imminente comparsa del primo tema, un canto fortemente diatonico dei violini primi all'unisono con la tromba. L'opposizione fra sezioni cromatiche e sezioni diatoniche costituisce la cifra caratterizzante l'intero movimento. Ma nonostante anche il secondo tema, esposto in seguito da violoncelli e fagotto («molto espressivo»), sia di carattere diatonico, prevalgono nettamente le ampie e tormentate sezioni cromatiche (non immuni da reminiscenze wagneriane), conferendo anche a questo Largo un tono generale angosciato e pessimistico. Un tono che non viene scalfito - e anzi è reso semmai più terribilmente evidente - nemmeno dallo squarcio lirico dell'intermezzo dei quattro corni nella parte centrale del movimento e dai suggestivi tocchi di colore della celesta, dell'arpa e del pianoforte: momenti di cantabilità e timbri singolari che sembrano più evocare una realtà irreale, sognata o rimpianta, che offrire una possibile, concreta consolazione al dolore presente.

L'attacco del movimento conclusivo, Vivace, giunge ancora una volta come una sorpresa che ha l'effetto di uno schiaffo: rispetto ai toni desolati, lividi e angosciati dei primi due movimenti, il brio scintillante ed euforico del tema esposto dai violini primi e presto ripreso dal clarinetto e il ritmo quasi da danza paesana che subentra subito dopo sembrano appartenere ad un altro mondo (o ad un'altra sinfonia). E il secondo tema, esposto dall'oboe a valori lunghi sul ritmico accompagnamento in contrattempo di violini e viole, aggiunge addirittura un tocco di ironia, preparato e commentato com'è dai corposi brontolii del basso tuba.

Queste idee vengono riprese ed elaborate a lungo da Prokof'ev, e quando ormai stiamo per convincerci che il compositore ha deciso di scendere a compromessi - anche se solo alla fine del brano - con l'estetica del regime sovietico, mitigando con l'ottimistica spensieratezza di questa pagina il cupo pessimismo, l'originalità e il soggettivismo dei primi due movimenti, lo slancio dell'orchestra si spegne rapidamente su delle lunghe note del fagotto e del clarinetto basso: e torna, imprevisto, lo "spleenetico" secondo tema del primo movimento (Andante tenero) affidato agli oboi in ottava, «dolce e sognando». D'un colpo l'atmosfera è cambiata e siamo nuovamente immersi nel dolore. L'ennesima invenzione timbrica di Prokof'ev - nove battute con un freddo tremolo in pianassimo di violini secondi e viole «al ponticello» a sostenere le amare voci dell'oboe e del corno inglese, fra surreali rintocchi dell'arpa e del pianoforte - prepara un'intensa, disperata perorazione di tutta l'orchestra quasi un'eco trasfigurata del grido dissonante che aveva aperto il movimento centrale, interrotta due volte da lunghe pause. L'orchestra riprende per l'ultima volta la sua corsa, facendo subito precipitare verso la fine il movimento su un accordo in fortissimo di mi bemolle maggiore che alle nostre orecchie, però, non ha ormai davvero più niente di "eroico" e trionfale. E ritornano alla niente, allora, le parole con cui Prokof'ev invitava a leggere la sua Sesta Sinfonia alla luce della guerra appena conclusasi: «Oggi noi ci rallegriamo della nostra grande vittoria, ma ciascuno di noi porta in sé delle ferite non rimarginate. C'è chi ha perso i suoi cari, chi la salute. Non dobbiamo dimenticarlo».

Carlo Cavalletti

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

La composizione delle sette Sinfonie di Prokofiev appare distribuita piuttosto irregolarmente nei trentasei anni circa delimitati dalla Classica (1916-17) e dalla Settima (1951-52: il progetto di una revisione della Seconda, cui Prokofiev pensava pochi mesi prima di morire, non fu mai realizzato), il che basta a spiegare le fratture relativamente brusche che separano l'uno dall'altro certi momenti dell'esperienza sinfonica del musicista: l'elegantissimo e terso humour della Classica cede il campo, nel '24, alla vena aggressiva, al vigore dirompente della Seconda, nata all'inizio del decennio parigino di Prokofiev, e seguita da una pagina di ancor più ardita modernità come la Terza (1928), destinata a coronare superbamente la fase «europea» del sinfonismo di Prokofiev. Con questa Sinfonia, come con l'Angelo di fuoco, l'opera teatrale donde quella traeva il materiale tematico e l'impronta stilistica, Prokofiev si conquistò un posto di protagonista nello schieramento più avanzato della musica del Novecento, rivelando un'assoluta originalità di temperamento e di linguaggi e al tempo stesso un profondo inserimento nella realtà della cultura musicale occidentale, salva restando la forte presenza delle sue ragioni native di compositore autenticamente russo. Questo periodo (cui poco aggiunge un lavoro come la Quarta, composta nel '30 in circostanze un po' occasionali, e comunque non latrice dì particolari proposte stilistiche) resta come il più felice di tutta l'esistenza artistica e umana di Prokofiev, ed è certo quello che gli vide dettare le opere di più spinta novità. Nel Prokofiev più che quarantenne, viceversa, poca o molta che sia stata l'influenza esercitata su di lui da un brusco mutamento di ambiente come quello determinato dal suo rientro, nel '33, in una Unione Sovietica che certo aveva ben poco a spartire con quella degli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione, e meno ancora con il brillante cosmopolitismo culturale della Parigi fra il '20 e il '30, si verifica una svolta abbastanza sensibile: la robusta nervatura ritmica del linguaggio in parte si smorza per far posto a un respiro melodico più disteso, alla sconvolgente «matericità» della sua invenzione sonora subentra la semplicità delle linee, al sarcasmo una sincera effusione lirica; in altre parole, la carica rivoluzionaria della produzione giovanile viene come placata e sublimata in una dimensione più riflessiva del fatto musicale.

Il lungo vuoto che separa, per quanto riguarda le Sinfonie, la Terza e la Quarta dalla Quinta, nata sul finire della seconda guerra mondiale, trova una corrispondenza abbastanza puntuale nella distanza che si può registrare fra i linguaggi e le intonazioni espressive di queste due opere: basterebbe paragonare la aperta risoluzione in positivo dei conflitti che pure vi si dibattono configurata nel luminoso e gioioso Finale della Quinta con la violenza - che a qualcuno è parsa espressionista - di tanti momenti della Terza. Con la Quinta, il Prokofiev della maturità, oltre a toccare un nuovo vertice della sua produzione sinfonica, realizza appieno la propria fisionomia, proponendo tutti i caratteri migliori di quella che, con qualche riserva relativa alle prove immediatamente anteriori alla morte, si potrebbe isolare come ultima maniera del compositore. Tant'è della Sesta sinfonia in mi bemolle minore che figura in questo concerto, e che dei caratteri della Quinta ripete molto, aggiungendovi di suo una dimensione espressiva forse più completa e organicamente vitale nella sua varietà. Molte circostanze, del resto, legano l'una all'altra le gestazioni di queste due Sinfonie; così come altre, non meno significativamente, le differenziano. Ambedue, anzitutto, vanno ricondotte a un clima senz'altro particolare, per un sovietico non meno che per il cittadino di un qualunque altro paese d'Europa, come quello degli ultimi tragici anni della guerra: al pari di molti esponenti della cultura sovietica, Prokofiev «sfollò» in centri lontani dal fronte, dapprima a Tiflis, in Georgia, poi ad Alma-Ata nel Kazakistan (dove Prokofiev avviò l'ultima collaborazione con il grande regista Eisenstein, componendo le musiche per Ivan il Terribile), e a Molotov, negli Urali; ma la sicurezza che gli garantiva di poter proseguire nel suo lavoro, non era certo bastante a disperdere l'atmosfera drammatica imposta dagli eventi, e che drammaticamente si riflette su tante composizioni di questi anni (non ultima la grande opera Guerra e Pace, la cui creazione occupò Prokofiev per tutta la durata della guerra e oltre). Così avvenne per il dittico sinfonico che cominciò a prender forma nell'ultima fase della guerra, ossia nel '43, quando Prokofiev era tornato presso Mosca, alloggiato in quella specie di falansterio per musicisti che era la casa dell'Unione dei Compositori, a Ivanovo: qui, tra l'altro, nacque la Quinta sinfonia, e videro la luce i primi abbozzi della Sesta; e se l'una germinò in Prokofiev, contemporaneamente all'evoluzione dei fatti bellici, come una sorta di anticipata celebrazióne della pace ritrovata, l'altra, sebbene posteriore nel tempo, finì per risentire con più sofferta evidenza di tutto lo choc della tragedia che aveva insanguinato il mondo, e della quale, in tutta la partitura della Sinfonia, sembrano pulsare ricordi inquietanti.

A guerra finita, e dopo aver terminato la Quinta, Prokofiev lasciò la casa dell'Unione dei Compositori (pur serbando un ricordo commosso di un'esperienza che gli aveva permesso di conoscere, condividendone la vita di tutti i giorni, tanti altri protagonisti della vita musicale del suo paese) per ritirarsi con la seconda moglie Mira Mendelssohn nella sua dimora di campagna a Nikolino, soggiorno particolarmente indicato per le sue, condizioni di salute già compromesse, e dove avrebbe trascorso gran parte del tempo che ancora gli restava da vivere.

Qui, nell'inverno 1946-47, condusse a termine la Sesta, completando la partitura il 18 febbraio: l'11 novembre la nuova Sinfonia veniva tenuta a battesimo da Evgheni Mravinski nel concerto inaugurale della stagione della Filarmonica di Leningrado. La Sinfonia apparve subito come una delle migliori realizzazioni della più recente produzione di Prokofiev, ma la sua fortuna ebbe durata breve. Il regime staliniano stava operando una nuova stretta, e in campo culturale Zdanov faceva bravamente la parte sua: nel gennaio del '48 il Comitato centrale del Partito convocava una conferenza musicale, con il compito di vagliare l'operato dei compositori sovietici e richiamare all'ordine quelli che avessero imboccato strade pericolose; il 10 febbraio fu approvata la risoluzione che metteva in guardia i musicisti sovietici dall'«orientamento formalista e antipopolare» particolarmente manifesto «in compositori come Sciostakovic, Prokofiev, Kaciaturian, Scebalin, Popov e Miaskovski», rei di «tendenze antidemocratiche». Zdanov stesso s'incaricò di spiegare come uno degli scopi principali dei compositori sovietici fosse quello di «difendere la musica sovietica dall'intrusione di elementi di decadenza borghese», ricordandosi come l'Urss fosse, al momento, «l'autentica depositaria della cultura musicale universale». Un'assemblea generale di compositori sottopose ad attento esame l'opera di Prokofiev: quasi tutte le sue opere più significative furono poste all'indice, e fra queste la Sesta sinfonia. A Prokofiev non rimase che fare la sua autocritica, e adeguare il suo linguaggio: da qui, forse, la malinconica decadenza riscontrabile in tante cose sue degli ultimi anni, e qua e là presente in un lavoro pur pregevolissimo come la Settima sinfonia, pensata a esaltazione delle magnifiche sorti e progressive della gioventù sovietica, ma non capace, tutto sommato, di proporsi come un passo in avanti rispetto alla incriminata Sesta.

In questa, si è detto, gli echi psicologici della guerra da poco conclusa recitano un ruolo non secondario, e in modo più marcato che non nella Quinta; così, più della Quinta, e pur respirandone in larga misura l'orientamento stilistico ed espressivo, la Sesta sembra in qualcosa riallacciarsi agli ormai lontani capolavori degli anni di Parigi, la Seconda e la Terza. Cantabilità e lirismo, certamente, ne nutrono abbondantemente lo spirito e la scrittura. Ma per quanto controllata da una mano sicura della perfetta maestria da tempo raggiunta, pulsano in essa allusioni drammatiche e angosciose, che in musica si traducono nella tensione pesante e allucinata di tanti scorci timbrici, in spettrali scheletri di movimenti di marcia, in incalzanti e taglienti ostinati ritmici, in laceranti contrasti introdotti da una regia musicale di sofferta intensità. Pur non riconoscendosi in un «programma» preciso, che ne avrebbe impacciato il divenire prioritariamente musicale, la Sesta conferma anche nella sua articolazione formale le circostante peculiari della sua nascita, e le stesse reazioni del compositore di fronte a quelle. Prokofiev, del resto, non mancò di ammettere che gli spunti tematici e gli assunti espressivi di fondo della Sinfonia erano in qualche modo legati a impressioni ed esperienze intimamente vissute; tanto che questi specifici caratteri della Sesta non paiono estranei alla suddivisione (abbastanza anomala in Prokofiev: c'è solo il precedente della Seconda, in due soli tempi) in tre movimenti anziché nei quattro tradizionali, quasi a proporre un condizionamento delle stesse strutture formali rispetto alle esigenze della rappresentazione. D'altro canto, tutta la costruzione della Sinfonia, per quanto arditi possano parerne gli sbalzi e i contrasti di atmosfera, risponde a un solido equilibrio, che Prokofiev stesso si preoccupò di ribadire, esprimendo la sua preoccupazione che il terzo e ultimo movimento, nell'insieme meno teso e drammatico dei precedenti, venisse frainteso e considerato come un'appendice di questi, generica conclusione di un itinerario tragico ed epico. Viceversa esso, come gli altri due, partecipa alla densa e cangiante varietà di umori e di suggestioni che costituisce la fisionomia complessiva della Sesta. Già nel primo movimento, di cui Prokofiev ebbe a sottolineare il carattere «inquieto, ora lirico ora severo», gli ampi squarci lirici si accompagnano alla tragica presenza di allusioni guerresche, che trovano un vertice nell'inserzione di una stravolta marcia funebre; tanto vale per il Largo, la cui cantabilità è venata di inflessioni drammatiche nella stessa orchestrazione, e per il Finale, il cui carattere catartico, in qualche cosa affine allo spirito della Quinta sinfonia, come notava Prokofiev, è contraddetto da impressionanti rimandi all'atmosfera tesa e sconvolgente dei primi due movimenti.

Con la Sesta sinfonia, dunque, Prokofiev da un lato confermava le linee del suo stile più maturo, dall'altro le tingeva di una inquietudine tanto espressiva che linguistica senz'altro lontana da quel «ritorno all'ordine» che troppo spesso si tende a riconoscere nelle opere nate dopo agli anni parigini, e che viceversa è doveroso lamentare in tante di quelle successive al '48. Certamente, la modernità di questa Sinfonia, in relazione al tempo che la vide nascere, è meno accentuata di quella delle opere giovanili, che era valsa a Prokofiev in patria e all'estero una fama di vero e proprio enfant terrible. Ma la dimensione linguistica e spirituale dell'ultimo vero capolavoro sinfonico di Prokofiev è pur sempre tale da meritare a pieno titolo di figurare fra i capitoli attivi della musica del Novecento: gli fece torto l'indignazione reazionaria dei burocrati di regime, accomunandolo alle musiche di compositori ben più innocui; ma il fatto che con esso Prokofiev potesse ancora destare scandalo ne garantisce a più di trent'anni di distanza l'autentica attualità, contribuendo a restituire al suo autore - che oggi si è troppo tentati di sentire lontano da noi, o comunque da quegli artisti cui siamo debitori del cammino percorso dalla musica del nostro secolo - il ruolo che gli compete, di sìncero e inquieto testimone del tempo.

Daniele Spini


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia;
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 3 marzo 1996
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 7 luglio 1980


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Ultimo aggiornamento 30 novembre 2017