Daphnis et Chloé, suite per orchestra n. 2


Musica: Maurice Ravel (1875 - 1937)
  1. Lever du jour
  2. Pantomime
  3. Danse générale
Organico: ottavino, 2 flauti, flauto contralto, 2 oboi, corno inglese, clarinetto piccolo, 2 clarinetti, 2 clarinetti bassi, 3 fagotti, controfagotto, 4 corni, 4 trombe, 3 tromboni, bassotuba, timpani, 2 arpe, archi
Composizione: 1913
Edizione: Durand, Parigi 1913

Vedi sul catalogo al 1909 n. 76 la versione per balletto, al 1910 n. 79 la versione per pianoforte, al 1911 n. 84 la suite n. 1 per orchestra ed al 1912 n. 89 la suite per pianoforte
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Nel 1904 il grande coreografo russo Michel Fokine, allora giovane artista colto e curioso, aveva proposto alla Direzione dei teatri di Pietroburgo un balletto tratto dagli Amori pastorali di Dafni e Cloe, il breve romanzo dello scrittore greco Longo Sofista (abbiamo la sua delicata e raffinatissima narrazione, ma di lui sappiamo solo il nome: si pensa che sia vissuto alla fine del II secolo d.C.). L'idea di Fokine, sorta per un gusto estetistico e classicheggiante, era forse un po' in anticipo per i tempi e i luoghi, e, infatti, i funzionari di Pietroburgo la respinsero. Ma non l'abbandonò Fokine, che pochi anni dopo, forse nel 1908, e in differenti condizioni culturali (si era infatti trasferito a Parigi), ne parlò con Djagilev; e il genialissimo impresario la accettò senza esitare e affidò la musica a Ravel (ma sulle date del progetto e delle decisioni c'è confusione nei ricordi degli interessati).

Ravel era giovane (nel 1908 aveva trentatré anni), ma era già molto noto (aveva scritto il Quartetto, i Miroirs per pianoforte, la Rhapsodie espagnole, per citare solo alcuni capolavori). La grazia poetica dell'argomento, la sua novità, le proporzioni spettacolari del proposito scenico, la collaborazione di tre intelligenze superiori (anzi quattro, che Djagilev, naturalmente, scelse subito per protagonista Nijinskij) lasciavano prevedere un lavoro sereno e un'agevole conclusione. Non fu così.

Nel suo Dafni e Cloe Longo Sofista altera non poco e semplifica lo schema consueto dei romanzi greci (innamoramento di due giovani, promessa di nozze, impedimenti e peripezie con inganni, rapimenti, viaggi, delusioni, nuovo incontro e felice soluzione: è, come si sa, anche lo schema dei Promessi sposi di Manzoni) perché la vicenda si svolge tra i pastori, in un'Arcadia ideale e stilizzata, e perché Longo descrive il sorgere dell'amore tra i due pastorelli poco più che bambini. In questa prosa levigata e sottile più che le solite avventure e disavventure dei protagonisti (però, c'è anche qui il rapimento), più che la tecnica narrativa, dunque, contano il lirismo panico o languido delle descrizioni bucoliche, e un'accortezza psicologica teneramente attenta ai caratteri di una virginea, infantile sensualità. Noi italiani abbiamo, o avremmo, la fortuna di poter leggere il romanzo di Longo Sofista nella splendida traduzione rinascimentale di Annibal Caro, incomparabilmente superiore alla traduzione francese di Amyot (quella che lesse Ravel) e perfino superiore, forse, all'originale greco per eleganza e chiarezza (ma non credo che la meravigliosa prosa di Caro interessi oggi qualcuno).

Mondo della fanciullezza e delle sue fantasie, trasfigurazione letteraria di paesaggi, sogno di un'umanità serena, primitiva, perfetta, naturalmente bella e cortese noi non stupiamo che Ravel abbia dato il meglio di sé in questa grande partitura, a concepire la quale egli fu ispirato e guidato da emozioni fondamentali nella sua visione dell'arte. «È stata mia intenzione comporre un vasto affresco musicale, meno attento all'arcaismo che alla fedeltà verso una Grecia dei miei sogni, che volentieri si congiunge alla Grecia che hanno immaginato e dipinto gli artisti francesi della fine del XVIII secolo» (Ravel, nell'Esquisse biographique, dettata a Roland-Manuel). E scrisse un capolavoro che gli costò non poche amarezze e che per qualche anno ebbe scarso favore (il manoscritto fu terminato il 5 aprile 1912).

Le sfortunate vicende finali della creazione del balletto sono complicate e per qualche aspetto confuse. Improvvisamente Djagilev perse interesse per il lavoro, già molto avanzato: o perché tra Ravel e Fokine c'erano state divergenze, o perché qualche anticipo di ascolto della musica lo aveva deluso (chissà perché: quella musica!), o perché stava tramontando la moda dei grandi balletti tradizionali a intreccio (i ballets d'action), con danza, mimica e sostanzioso sostegno orchestrale (con le loro idee estetiche, snobistiche e digiune, Satie e il Cocteau di allora credevano di poter giudicare dall'alto in basso perfino il Daphnis di Ravel e impressionavano Djagilev. Infine, a completamento, durante le prove ci furono furiosi contrasti tra Djagilev e Nijinskij da una parte e Fokine dall'altra (anche Ravel era insoddisfatto delle scene di Leon Bakst, per altro magnifiche in sé e per sé). Si mise in mezzo perfino il corpo di ballo, che trovava serie difficoltà a tenere il tempo di 5/4 rapidissimo nella Danse generale dell'ultima scena (si arrangiarono poi, scandendo ognuno tra sé le cinque sillabe: Djà-gi-lev-Sèrgiei). Sì che un lavoro così limpido, colorito, gioioso nacque tra rancori e scontenti, che guastarono la prima serata (Théàtre du Chàtelet, 8 giugno 1912, con Nijinskij e la Karsavina, direttore Pierre Monteux): quella sera il vero successo toccò a Nijinski, ma per la replica del suo sensualissimo, lascivo Après-midi d'un faune; e alla ripresa dell'anno successivo, il 1913, al Daphnis non andò meglio perché il 29 maggio esplose lo scandalo del Sacre di Stravinskij, che spinse nell'ombra ogni altro balletto. Però Stravinskij affermava che il Daphnis et Chloé è «una delle opere più belle della musica francese».

Ma se sulla scena il Daphnis non ha avuto, né allora né poi, un successo paragonabile a quello dei grandi balletti romantici o di altri pochi novecenteschi, le due Suites che Ravel ne ha tratto, sono giustamente un brano tra i più eseguiti del repertorio sinfonico e prediletto dai grandi direttori per il colorismo della prodigiosa strumentazione. La musica della II Suite è quella del terzo dei tre quadri del balletto.

I pirati hanno rapito Cloè e Dafni accusa le ninfe e, sfinito, si assopisce nella loro grotta. Ma esse lo compatiscono e chiamano a soccorso Pan. E il dio con una sua prodigiosa apparizione salva Cloè dalle mani dei pirati e la riporta ai suoi pastori. Qui s'inizia il terzo Quadro (e la II Suite). All'alba, in un quieto paesaggio arcadico, lo spazio è colmo di voci, di echi, dei ruscelli, delle brezze mattutine, degli uccelli. Negli estatici accordi del coro muto, che morbidamente si fonde con l'orchestra, sentiamo il canto delle creature naturali, delle ninfe, dei satiri, dei sileni. In lontananza passa un pastore col suo gregge, poi un altro (ascoltiamo gli acuti arabeschi del loro flauto campestre). Entrano altri pastori, destano Dafni e gli gettano tra le braccia la fanciulla salvata. La luce del mattino rifulge, la musica si espande in una grande melodia di felicità («È solo un accordo di re maggiore con la sesta aggiunta», diceva con compiaciuta modestia Ravel!). Dafni comprende che la salvezza di Cloè e la loro felicità sono un dono di Pan. Istruiti e sollecitati dal vecchio Lammon (impersonato la sera della prima dal glorioso ballerino e coreografo Enrico Cecchetti, ormai anziano), i due ragazzi mimano la storia degli amori di Pan e della ninfa Syrinx: ella prima lo rifiuta, il malinconico dio strappa una canna, si crea un flauto, e, su un ritmo molle, suona un'acuta, languida serenata. Syrinx-Cloe balla sulla musica di Pan, prima lentamente poi con animazione sempre più viva. I due ragazzi terminano la loro recita graziosa, cadendo l'una nelle braccia dell'altro: l'orchestra ripete con pathos crescente il tema di Dafni. Irrompono in scena alcune fanciulle vestite da baccanti, poi giovani pastori esultanti. Nella musica si scatena un ritmo frenetico (la Danse generale, il famoso 5/4) da cui tutti sono inebriati e travolti.

Franco Serpa

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

È stato giustamente osservato (dal Mila) che, anche quando non ne assume un tipo preciso, la musica di Ravel, con la sua regolarità metrica sì cala quasi sempre in un'astratta e ideale categoria di danza. Non a caso dunque la musica di «Dafni e Cloe» costituisce una delle sue più felici riuscite sul piano della creazione artistica.

Come afferma Alberto Mantelli, la musica di Ravel «è dominata da una visione più organica del mondo sonoro, dalla coscienza della nuova funzione che avrebbe avuto l'elemento lineare della musica». Da qui la sua costante preoccupazione formale di ordine generale e insieme il gusto per l'arabesco e il puro disegno, la ricerca e il cesello del particolare prezioso e raffinato, ma anche la riscoperta del valore plastico degli accordi e l'uso «della dissonanza dura, chiusa in sé». Un linguaggio perciò, quello raveliano, assolutamente privo di retorica, conciso e tagliente, permeato da un finissimo umorismo.

«Dafni e Cloe» fu composto su invito dell'impresario Diaghilev, che intendeva farlo rappresentare dai propri Balletti russi, nel periodo 1909-1912 e andò in scena per la prima volta l'8 giugno di quest'ultimo anno al Teatro dello Chatelet di Parigi con la coreografia di Fokin. Il soggetto è tratto da un racconto del sofista Longo, vissuto nel IV secolo, ma naturalmente la Grecia che ispira Ravel non è quella classica bensì, come dichiarò egli stesso, quella vista attraverso gli artisti francesi del Settecento.

La composizione consiste, secondo l'autore, «in un vasto affresco musicale, costruito sinfonicamente, secondo un piano tonale molto rigoroso». Al di là quindi di ogni riferimento letterario o culturale, «Dafni e Cloe» interessa proprio per la smagliante ricchezza dei ritmi e degli impasti armonici, per la sua «tipicità» nel sintetizzare i tratti fondamentali, che prima si accennavano, dell'arte raveliana.

La seconda delle due «Suites» estratte dal balletto comprende tre brani della terza parte. Il sorgere del giorno è reso da un suggestivo movimento: le note delle arpe, dei flauti e dei clarinetti si intercalano sopra un accordo modulante tenuto dagli archi e dai corni finché i fagotti e i contrabbassi divisi, non presentano un tema ripreso poi dai violini e dagli strumentini.

Una lunga, elegante melodia del flauto solista introduce la «Pantomima»; segue un breve tema delle trombe che, variato, dà poi inizio all'animatissima «Danza generale». Si ripresentano uno a uno i temi principali sovrapposti con rara abilità, in un quadro di straordinario dinamismo e di suprema eleganza formale.

Mario Sperenzi


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia;
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 3 febbraio 2002
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino;
Firenze, Teatro Comunale, 30 marzo 1974


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Ultimo aggiornamento 12 febbraio 2020