Rhapsodie espagnole (Rapsodia spagnola)

Versione per due pianoforti

Musica: Maurice Ravel (1875 - 1937)
  1. Prélude à la nuit - Très modéré (la minore)
  2. Malaguena - Assez vif (la minore)
  3. Habanera - Assez lent et d'un rythme las (fa diesis minore)
    (ripreso dal n. 9; vedi 1895)
  4. Feria - Assez animé (do maggiore)
Organico: 2 pianoforti
Composizione: Levallois, Ottobre 1907
Edizione: Durand, 1908

Vedi al n. 67 del 1907 la versione per orchestra ed al n. 9 del 1895 la versione originale di Habanera
Guida all'ascolto (nota 1)

Alcuni compongono al pianoforte, altri direttamente sulla pagina. Lei comporrà al pianoforte, aveva sentenziato Rimskij all'allievo Stravinsky. E Maurice Ravel era di stoffa simile. Come strumentatore non aveva lacune, doveva quasi frenare la fantasia; sentiva l'orchestra in ogni sua voce, governava ogni effetto, osava impasti insoliti, non esitava ad inserire strumenti "altri" nell'orchestra consegnatagli dal tardoromanticismo; il sassofono, ad esempio, che all'orecchio del pur disincantato Stravinsky suonava troppo da "delinquente".

Nella memoria del pubblico Ravel rimane impresso come autore - coautore - di un capolavoro che non compose ma semplicemente strumentò: I Quadri di Musorgskij. E non è un caso che sempre nello stesso stretto giro di nomi, sia maturata un'altra versione orchestrale purtroppo perduta: quella per Chovanscina, che Maurice e Igor fecero partire a quattro mani dal pianoforte.

E che cosa è in fondo il Boléro, al di là dei suoi colori e della sua sensualità, se non un congegno ad orologeria che, lasciando fermo il parametro del ritmo, dilata tutti gli altri fino alla deflagrazione dell'orchestra?

La tendenza e la facilità a pensare in grande era una dimensione raveliana che spiace ancora a molti e irritava il minimalista Erik Satie, che nei suoi Quaderni al vetriolo lasciò scritto: "Ravel rifiuta la Legion d'onore, ma la sua musica l'accetta".

Eppure Ravel era principalmente e sapientemente un pianista. Il suo pensiero musicale si sviluppava nella concretezza digitale del tasto premuto, dell'accordo cercato, del suono assaporato fino all'ultima vibrazione della corda. Una fotografia dell'epoca di Daphnis et Chloè (l909), lo ritrae alla tastiera accanto a Nijinskij, che incrocia le mani in un passaggio. Stravinsky sosteneva che il ballerino adorato da Diaghilev - primo coreografo del Sacre - non possedesse nemmeno i rudimenti della musica. Stava in posa? In effetti, Ravel in quella foto sorride.

E ancora in un quattro mani Maurice viene colto da un visitatore di rispetto, mentre suona la Rhapsodie espagnole e le da gli ultimi tocchi prima di eseguirla in pubblico. È il 1907, Manuel de Falla, in viaggio a Parigi, prega l'amico Ricardo Vines di fargli conoscere la giovane promessa che considera la Spagna sua "seconda patria", non fosse altro che per essere nato a Ciboure, paese basco a pochi chilometri dal confine. Arrivato a casa di Vines, Falla ascolta in anteprima il nuovo pezzo e commenta: «La Rhapsodie mi. confermò subito l'enorme impressione già avuta dalla Sonatine, ma mi sorprese per il suo autentico carattere spagnolo. In perfetto accordo con ciò che io penso (e contrariamente a quanto aveva fatto Rimskij nel suo Caprìccio), l'ispanismo di Ravel non era affatto ottenuto mediante una pedissequa utilizzazione di documentazioni popolari (jota della Feria esclusa), ma con un libero impiego di ritmi, melodie modali ed evoluzioni proprie della nostra lirica popolare; elementi che non alteravano affatto le caratteristiche musicali dell'autore, anche se in questo caso egli adoperava un linguaggio melodico totalmente diverso da quello usato nella Sonatine».

Falla, spagnolo autentico e al di sopra di ogni sospetto, conferma l'opinione diffusa e non controversa: Ravel, come Bizet, non fu un turista, musicalmente parlando. La sua Spagna, anche nella Rhapsodie, non è un acquerello di maniera. I caratteri "folk" della musica che adorava - riflesso condizionato della lingua che la madre parlava in casa? - erano elementi strutturali dell'invenzione, soprattutto quelli ritmici, presi come spunti e utilizzati come elettroshock per riplasmare la Forma. Ma torniamo al punto.

Il pianoforte fu sempre al centro del metodo compositivo di Ravel, lo strumento su cui prendevano corpo le idee. Tutte le composizioni per grande orchestra ebbero su tastiera la prima forma e versione. Tutte tranne il Boléro, che subì un procedimento opposto e venne trascritta dalla stesura per orchestra.

La Rhapsodie espagnole non sfugge alla regola generale, la veste in cui appare in questo programma è la prima, l'originale con cui venne concepita e presentata al pubblico e all'edizione; due anni dopo seguirà l'orchestrazione. Ma se la versione pianistica del Boléro (sempre per due strumenti) è uno scheletrico bianco e nero d'un kolossal pensato su grande schermo - avvalorando le ipotesi più astratte e picassiane di volontaria parcellizzazione dell'orchestra - la Rhapsodie espagnole contiene in forma essenziale tutti gli elementi della composizione. Non è solo un primo pensiero monco. Ognuna delle quattro parti è esposta completamente.

Nel Prelude à la nuit, con ancor maggiore evidenza rispetto all'orchestra, emerge nella ripetizione del disegno quasi minimalista di quattro note - fa, mi, re, do diesis - una delle strutture mentali di Ravel. L'iterazione non era per lui solo colore o passione, ma eco di riti tribali che, sospendendo il tempo, erano destinati a entrare nella musica del nostro secolo così pesantemente condizionata dal ritmo, come prolungamento e come antidoto.

Fa-mi-re-do diesis... in quel disegno persistente e misterioso, degno di un thriller, c'è una verità musicale antica. L'orchestra vi sovrapporrà onde debussiane che un po' confondono l'idea originale.

La Malaguena stacca la seconda parte di netto, con un intreccio di ritmi sfalsati, scale e passaggi ribattuti. Ma l'idea che sembra aver generato tutta la Rhapsodie è troppo bella e forte per essere abbandonata. Verso la fine della Malaguena riappare la magnifica ossessione: fa-mi-re-do diesis, fa-mi-re-do diesis.

Come andante di questa corposa anti-sonata, Ravel introdusse di peso l'Habanera composta dodici anni prima, anch'essa piena di stranezza e di mistero nelle insistite pause e sospensioni, Ravel scrisse ben chiara la data 1895: messaggio a Debussy, che nella sua Soirée dans Grenade del 1903 si era ispirato alla Habanera di Ravel, non viceversa.

La Feria finale è forse la parte della Rhapsodie che meno riesce a far intuire il divampare di fiamme che l'orchestrazione le accenderà sotto, più avanti. Ma anche in questo gioco splendido di finti finali preparati da progressioni di staccati e arpeggi, s'impone la struttura di un pezzo che non è scoloritura di un quadro, ma plasticità pianistica allo stato puro.

Carlo Maria Cella


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 13 novembre 1998


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Ultimo aggiornamento 29 luglio 2012