5 Étude-tableaux op. 33 e op. 39, P 160

Trascrizione per orchestra da Rachmaninov

Orchestrazione: Ottorino Respighi (1879 - 1936)
  1. La mer et les mouettes (op. 39 n. 2) - Lento assai (la minore)
  2. La foire (op. 33 n. 4) - Allegro con fuoco (mi bemolle maggiore)
  3. Marche funèbre (op. 39 n. 7) - Lento lugubre (do minore)
  4. Le chaperon rouge et le loup (op. 39 n. 6) - Allegro (la minore)
  5. Marche (op. 39 n. 9) - Allegro moderato. Tempo di marcia (re maggiore)
Organico: 3 flauti (3 anche ottavino), 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti, clarinetto basso, 2 fagotti, controfagotto, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, bassotuba, timpani, triangolo, tamburino, tamburo militare, tamburo basco, piatti, grancassa, tam-tam, campanelli, campane, arpa, archi
Composizione: 1930
Prima esecuzione: Boston, 1931
Edizione: Parigi, Société de musique russe, 1931
Guida all'ascolto (nota 1)

Respighi occupa un posto di rilievo nel panorama musicale italiano del primo trentennio del Novecento per il suo repertorio sinfonico (meno per le opere), per numerose pagine cameristiche e per le trascrizioni e reinvenzioni strumentali di partiture dal Seicento al Novecento, a cominciare dalla intelligente trasposizione moderna dell'Orfeo di Monteverdi. Si può dire che Respighi sia stato il più popolare e preferito dei musicisti della cosiddetta generazione dell'Ottanta con Pizzetti, Malipiero e Casella in testa, perché seppe creare un tipo di musica fatta di chiarezza di immagini e di immediatezza di espressione, oltre che ricca di una intuizione e di una sensibilità di raffinata educazione classicista. Allievo di Torchi e di Martucci nel 1899 a Bologna, di Rimskij-Korsakov nel 1900 in Russia (ebbe da quest'ultimo lezioni di composizione e di orchestrazione) e di Max Bruch nel 1902 in Germania, Respighi non si legò rigidamente ad alcuna scuola e non fu seguace di alcuna corrente; evitò atteggiamenti intellettualistici e posizioni polemiche verso questa o quella tendenza musicale e mirò ad un'arte essenzialmente descrittiva e decorativa, spiritualmente sana e senza tormenti interiori, improntata ad una visione chiara e precisa per tutto ciò che di pittoresco e di fantasioso avvolge e circonda la vita dell'uomo.

Anche se il suo teatro non rivela una forte e incisiva personificazione stilistica e drammaturgica ed è sostanzialmente statico e declamatorio (si pensi soprattutto a La Fiamma, ritenuta la sua opera più ambiziosa, condizionata dall'estetismo decadente del libretto in cui la parola risuona con enfasi dannunziana e non possiede quel "taglio scenico" prepotentemente comunicativo e necessario per il teatro musicale), bisogna riconoscere che Respighi si adoperò non solo a parole per lo svecchiamento dell'opera in musica, ponendosi in posizione polemica nei confronti dell'esperienza verista della Giovane Scuola, mascagnana o pucciniana che fosse, specie per una diversa impostazione e soluzione dei problemi della vocalità. Egli, pur essendo meno riformatore, almeno in teoria, dei suoi coetanei Pizzetti, Malipiero e Casella, mostrò un'ansia di ricerca e una curiosità culturale anche al di fuori della tematica tradizionale, percorrendo una strada non sempre facile e sul versante opposto a quello occupato dalla "quadruplice alleanza" formata da Martucci, Sgambati, Bossi e Sinigaglia, che si propose invece di favorire e rinverdire la civiltà strumentale nel nostro paese guardando principalmente ai modelli tedeschi, al quadrilatero Beethoven, Mendelssohn, Wagner, Brahms.

A questo punto per definire meglio il profilo artistico di Respighi ci sembra opportuno riferire quello che scrisse Casella su di lui nel libro autobiografico "I segreti della giara", non fosse altro che per capire ciò che è vivo e ciò che è caduco nella produzione del compositore bolognese. «Accanto al suo grandissimo (e ben meritato) successo - annotò Casella - non sono mancate all'opera di Respighi critiche acerbe. Non è forse ancora giunta l'ora di valutare con tutta la serenità augurabile la sua personalità di artista [ma oggi la situazione è ben diversa dopo 50 anni dalla pubblicazione del libro citato - n.d.r.], nondimeno io ritengo che per procedere ad una giusta valutazione della posizione artistica di Respighi occorre anzitutto non dimenticare che il suo punto di partenza fu quello medesimo di tutta la nostra generazione: la necessità di uscire al più presto dall'atmosfera ormai superata e isterilita del verismo, dell'arte cioè della generazione precedente la nostra. Per reagire contro il verismo l'unica via possibile era quella di appoggiarsi sulle avanguardie europee nate dall'impressionismo. E in questo Respighi fu con noi tutti. Ma gli mancò ad un dato momento il coraggio di andare avanti su quella via, la quale doveva portare - e infatti portò - a una totale reazione contro l'impressionismo. In questo nuovo travaglio di carattere essenzialmente architettonico e costruttivo Respighi si trovò distanziato. Da una parte, se egli aveva magnifiche doti di colorista e di "immaginista", non altrettanto cospicue erano le sue qualità di costruttore, e la forma fu sempre il suo lato più debole. D'altra parte, vi erano in lui due nature: una sensibilità sinceramente orientata verso il modernismo e specialmente verso la novità degli impasti timbrici, sensibilità che è già palese in lavori giovanili quali Semiràma e che avrebbe potuto portarlo molto lontano se egli non avesse avuto in sé una seconda natura, che purtroppo ebbe il sopravvento sull'altra: quella dell'amore al quieto vivere, pigrizia spirituale che lo portò a comodamente adagiarsi sulle posizioni del successo, impedendogli di superare l'impressionismo franco-russo dal quale era partito e che rimase sempre - assieme con un certo carattere romantico alquanto intedescato che egli aveva ereditato dal suo maestro Martucci e dal quale egli non ebbe la forza di liberarsi - la base della sua arte. Ma queste osservazioni non tolgono nulla alla sua altissima virtuosità di orchestratore e di colorista, e nemmeno intaccano il lato morale della sua personalità artistica, che fu sempre quella di un uomo che amava profondamente la sua arte».

Al di là di certe affermazioni di Casella che riguardano la scelta del linguaggio musicale usato da Respighi e su cui si può sempre discutere (ciò che conta è la qualità dell'invenzione musicale e non l'adesione alla tonalità o alla dodecafonia, oppure all'impressionismo o all'espressionismo per qualificare e. rendere valida un'opera d'arte), è evidente oggi come ieri che è il suono, il timbro, il colore della sua strumentazione quello che distingue e distanzia Respighi da ogni altro msuicista italiano del suo tempo, oltre alla ben nota e indiscussa abilità di orchestratore (non per nulla Puccini, che fu un attentissimo osservatore del "fenomeno" orchestrale e della sua evoluzione tecnica, lo ebbe in alta considerazione). Questa intuizione e tipicizzazione del timbro strumentale, che è suo e di nessun altro, nei lavori orchestralmente ideati e realizzati, a cominciare dai migliori poemi sinfonici, pone Respighi in una posizione unica nella storia musicale primonovecentesca. Egli fece tesoro delle esperienze armoniche e strumentali più avanzate in rapporto alla tradizione nazionale, mostrando un interesse e un'apertura mentale verso certe correnti tecnicistiche europee, pur nel rispetto di un italianismo formale, ma nello stesso tempo espresse nella musica la propria personalità, assorbendo e riequilibrando le influenze specialmente russo-francesi, con Rimskij-Korsakov e Debussy in posizione di privilegio.

Per ragioni diverse e dettate o da diatribe polemiche di carattere musicale o da invidie personali, inevitabili nel mondo dell'arte in cui è facile trovarsi a fianco un personaggio di statura superiore alla propria, si è voluto etichettare la figura di Respighi con qualifiche restrittive e diminutive, specialmente negli anni successivi al secondo conflitto mondiale, quando più forte e massiccio si scatenò l'assalto dei movimenti di avanguardia contro alcune prese di posizione culturali e linguistiche della musica italiana del trentennio precedente. Volta a volta Respighi venne definito "un conservatore", "un restauratore", "un dannunziano", "un crepuscolare", "un retore", "un acquarellista di cartoline illustrate" e altre aggettivazioni del genere. Da allora molti giudizi su compositori del recente passato si sono modificati anche per merito di pubblicazioni e di convegni molto qualificati sulla musica italiana del primo Novecento, da cui, tra l'altro, è scaturito un contributo positivo alla conoscenza più dettagliata e criticamente aggiornata di Respighi, un compositore che ha svolto un ruolo di primaria importanza nel rinnovamento della vita musicale nel nostro paese nel periodo che va dal 1915 al 1935 e che non è rimasto insensibile, è vero, alle sirene del mito bifronte, carducciano e dannunziano (ma seppe schivare il pericolo di musicare il libretto abbozzato su "La vergine e la città" di D'Annunzio), senza tuttavia sposarne "toto corde" la retorica nazionalistica di una romanità vista secondo aggiornati scopi politici e propagandistici. Si può essere d'accordo in misura maggiore o minore con i risultati e gli obiettivi artistici raggiunti da Respighi (il discorso vale in questo caso più sulla sua opera teatrale), ma non si può negare al suo sinfonismo una cifra e una dimensione chiaramente definite e distinte dal sanguigno gesto sonoro straussiano e dalla sfumata mezza tinta della musica debussiana. Di questa opinione, pur con diversità di accenti e di valutazioni critiche, sono studiosi di rango, come Gavazzeni, Mila, D'Amico e Martinotti secondo quanto risulta da un libro su Respighi edito nel 1985 dalla ERI e che costituisce un valido vademecum musicale e culturale sull'autore delle Fontane di Roma.

Un saggio della straordinaria bravura e della spigliata fantasia di orchestratore di Respighi si può cogliere nelle 5 Études-tableaux di Rachmaninov, trascritte dall'originale pianistico dell'op. 33 e dell'op. 39. L'elenco esatto di questi Studi, eseguiti per la prima volta nel 1931 con successo a Boston, è il seguente: La mer et les mouettes (Il mare e ì gabbiani) op. 39 n. 2 - La foire (Il mercato) op. 33 n. 6 - Marche funebre (Marcia funebre) op. 39 n. 7 - Le chaperon rouge et le loup (Cappuccetto rosso e il lupo) op. 39 n. 6 - Marche (Marcia) op. 39 n. 9.

Rachmaninov scrisse i due cicli pianistici delle Études-tableaux op. 33 e op. 39 nel 1911 e nel 1916-17, lungo la direttrice dell'arte romantica di Chopin e di Liszt, al cui modello di concertismo virtuosistico e dalle molteplici sfaccettature timbriche egli si adeguò con sorprendenti risultati tecnici, tanto esaltati dalla critica americana del tempo. Respighi, sollecitato dallo stesso Rachmaninov, dispiegò anche in questo caso un gusto orchestrale estrosamente colorito, servendosi di un organico strumentale formato da ottavino, 3 flauti, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti, clarinetto basso, 2 fagotti, controfagotto, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, tuba, timpani, triangolo, tamburino, tamburo militare, tamburo basco, piatti, cassa, tam-tam, campanelli, campane, arpa e archi.

La mer et les mouettes (il n. 2 in la minore delle Études-tableaux op. 39 - Lento assai) evidenzia la scrittura solistica dei legni sull'accompagnamento reiterato a terzine dei violini secondi e delle viole; gli ottoni fanno risaltare le seducenti armonie cromatiche, arricchendo timbricamente l'invenzione musicale di Rachmaninov. La foire (il n. 6 in mi bemolle delle Études-tableaux op. 33 - Allegro con fuoco) risulta particolarmente piacevole più nella versione orchestrale che nell'originale pianistico per la sua vivacità e freschezza ritmica, punteggiata da sonorità brillanti e luminose. La Marche funebre (il n. 7 in do minore delle Études-tableaux op. 39 - Lento lugubre) punta prima sulla contrapposizione e poi sulla fusione tra archi e fiati, con figurazioni molto articolate e ispessite dall'intervento delle percussioni (piatti, tam-tam, campanelli, campane e timpani). Le chaperon rouge e le loup (il n. 6 in la minore delle Études-tableaux op. 39 - Allegro) evoca un clima favolistico e ironicamente fantasioso. Caratteristico è l'uso dei tromboni e della tuba, ora in glissando e ora in accentuazioni in staccato, il tutto coinvolgendo poi l'intera orchestra.

La Marche finale (il n. 9 in re maggiore delle Études-tableaux op. 39 - Allegro moderato. Tempo di marcia) è una festosa girandola di colori strumentali e di uscite solistiche e a piena orchestra. Da segnalare gli interventi delle trombe con sordina, dei quattro corni ad incastri ritmici, dei fagotti, dei clarinetti e dei flauti, fino ad un'apoteosi sonora di trascinante effetto sinfonico.

Ennio Melchiorre


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 21 dicembre 1991


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Ultimo aggiornamento 21 maggio 2015