Sonata in sol maggiore, K 260


Musica: Domenico Scarlatti (1685 - 1757)
Organico: clavicembalo
Guida all'ascolto (nota 1)

In uno dei suoi famosi colloqui con Robert Craft, Stravinskij espresse una volta con arguta ironia la sua scarsissima stima nei confronti della musica italiana del Settecento, arrivando addirittura a definire Vivaldi «un tipo tedioso che componeva la stessa forma un'infinità di volte». L'unico che riusciva a salvarsi almeno in parte dalle staffilate stravinskiane era proprio Scarlatti: «Scarlatti è una faccenda diversa». Ma, aggiungeva subito Stravinskij, «anche lui variò così poco la forma...». E persino Schumann, di solito critico attento e perspicace dei fenomeni musicali sia del suo tempo che del passato, aveva scritto che Scarlatti, in confronto con i maggiori compositori tedeschi, era «come un nano capitato in mezzo ai giganti».

Mitizzato alla sua epoca come uno dei più grandi strumentisti d'Europa, fatto oggetto di una vera e propria «caccia al manoscritto» negli anni immediatamente successivi alla sua morte, il buon Domenico venne in effetti ben presto confinato in quel limbo di «compositori minori» in cui tutto tende a confondersi: il destino che sembrava attenderlo era quello di essere ricordato semplicemente come uno dei «precursori» della forma-sonata, o come uno dei molti che avevano cercato di emancipare la scrittura per strumento a tastiera dalla vecchia tradizione del basso continuo.

Se oggi le cose non stanno così, e se il nome di Scarlatti ha saputo reggere a testa alta il confronto con quelli di Bach e di Händel in occasione delle celebrazioni dell'anno europeo della musica del 1985, lo si deve al lavoro e all'impegno di molte persone: gli studiosi, come Longo, come Kirkpatrick, e molti altri dopo di loro, che hanno analizzato, catalogato e pubblicato il corpus delle composizioni scarlattiane: ma anche, e forse soprattutto, i musicisti, come Horowitz, che hanno inserito le musiche di Scarlatti nel loro repertorio, le hanno incise e suonate in concerto accanto a Liszt e Chopin, presentandole con eguale dignità e dedicando loro altrettanta «attenzione interpretativa».

La Sonata K. 260 pone in primo piano un problema cui finora non si è fatto cenno, e cioè quello della destinazione strumentale originale di queste sonate. Ebbene, la Sonata K. 260 ci mostra al di là di ogni ragionevole dubbio che lo strumento utilizzato da Scarlatti non era soltanto il clavicembalo, ma anche quello che oggi viene comunemente indicato come «fortepiano», e cioè quello strumento a tastiera in cui le corde venivano percosse da dei martelletti, perrmettendo di ottenere attraverso il tocco una differenziazione tra piano e forte: il pianoforte antico, in altre parole. Lo si capisce riflettenendo per un attimo a quei passaggi (sia nella prima che nella seconda sezione) in cui la mano destra si blocca alternando una nota e la sua ripetizione in ottava, mentre la sinistra prosegue con una serie di accordi che emergono in primo piano. La seconda volta in cui ciò avviene (un po' prima della conclusione della prima sezione), la sinistra esegue addirittura una vera e propria linea melodica, dalle caratteristiche apertamente tematiche. Tutto ciò sarebbe semplicemente inconcepibile su un cembalo, in cui le corde pizzicate producono suoni tutti di uguale intensità. «Inconcepibile», si badi, proprio in senso letterale: e cioè non nel senso di «ineseguibile» (tutto sommato il passaggio risulterebbe sufficientemente comprensibile anche sul cembalo), ma nel senso che un passaggio di questo genere può essere venuto in mente solo a un musicista che conosceva e usava il fortepiano. La stessa alternanza di due note in ottava eseguita dalla destra, d'altra parte, avrebbe ben poco senso sul cembalo, dove risulterebbe monotona e banale; mentre sul fortepiano (e sul pianoforte, ovviamente) diventa un «effetto sonoro», una sorta di «tremolo allargato».

Franco Sgrignoli


(1) Testo tratto dal libretto inserito nel CD allegato al n. 72 della rivista Amadeus


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Ultimo aggiornamento 9 aprile 2017