Stabat mater in do minore

per soli e basso continuo

Musica: Domenico Scarlatti (1685 - 1757)
Organico: 4 soprani, 2 contralti, 2 tenori, 2 bassi, basso continuo
Edizione: De Santis, Roma, 1941
Guida all'ascolto (nota 1)

La grande produzione clavicembalistica di Domenico Scarlatti ha messo da sempre in ombra il resto della sua opera, soprattutto i melodrammi, composti tra il 1709 e il 1714, nel periodo in cui fu a Roma maestro di cappella della regina Maria Casimira di Polonia; e la musica sacra, che comprende tre Messe, diciotto Mottetti, un Oratorio (La conversione di Clodoveo, re di Francia) e una Cantata (La notte del Ss.mo Natale), e che rivela una grande padronanza del contrappunto, che Scarlatti studiò sui modelli di Palestrina e di Orlando di Lasso. Riconosciuto come il suo più grande capolavoro in questo repertorio, lo Stabat Mater fu composto tra il 1715 e il 1719 a Roma, quando Scarlatti fu maestro della Cappella Giulia. In questo ampio affresco polifonico per dieci voci (quattro soprani, due contralti, due tenori e due bassi) e basso continuo, il compositore si attiene alle convenzioni che imponevano per la musica sacra di adottare il cosiddetto "stile sodo alla Palestrina", ma introduce il basso continuo, che crea frizioni e ambiguità stilistiche; rinuncia alla pratica diffusa di suddividere il testo della sequenza in numeri musicali separati, prediligendo un percorso polifonico unitario, e lavorando sull'articolazione interna delle singole sezioni; sostituisce alla tradizionale scrittura per doppio coro, basata sulla contrapposizione di due blocchi sonori distinti, un tessuto vocale a dieci parti reali, ampio e armonicamente assai ricco; sfrutta al massimo le possibilità espressive delle dieci voci, giocando sulle loro molteplici combinazioni e su una scrittura polifonica complessa e ricca di fioriture. Così definì questo Stabat Mater Alfredo Casella, nell'introduzione ad un'edizione della partitura nel 1942: «Avvezzi a considerare il grande "Memmo" sotto la luce delle sue meravigliose Sonate per cembalo, può essere legittima qualche sorpresa nel trovarsi - in questo potente lavoro - di fronte a un simile signore della polifonia. Ma non bisogna dimenticare anzitutto che Domenico fu discepolo di suo padre Alessandro, il quale era un contrappuntista rotto a tutte le esperienze [...] Se poi dovesse perdurare qualche dubbio sulla origine di questo inatteso Scarlatti, va ricordato ancora che egli visse a Roma in una cappella dove il culto della grande arte cinquecentesca cattolica era più vivo che mai [...]. È infatti palese in questo Stabat, la ferma volontà di rimanere estraneo alle pompe esteriori [...] per tornare alla grande lezione palestriniana, che è quella dei maggiori di tutti i tempi: fusione fra passato e presente. In questo capolavoro non si sa che cosa maggiormente ammirare: se la formidabile struttura polifonica, oppure la sensibilità armonica, oppure ancora la meravigliosa purezza dello stile. Ma forse ciò che più di tutto avvince in questa straordinaria composizione, è il mirabile equilibrio fra l'ardente sentimento religioso che anima e sorregge l'intera composizione e la magnificenza dei mezzi sonori per i quali esso si esprime. Equilibrio supremamente classico, di una perfezione come poche ne offre l'arte sacra di tutti i tempi [...]».

La prima strofa si sviluppa intorno a un tema ondeggiante e sinuoso, con il suo apice melodico su "dolorosa", che genera progressivi addensamenti del tessuto polifonico, culminanti in una grande cadenza sulla parola "Filius". Poi riprende il gioco imitativo fino al verso "Quae morebat et dolebat" sul quale si innesta un improvviso rallentamento e una dimensione espressiva molto più cupa e dolente. Netto il contrasto con la sezione successiva ("Qui est homo qui non fleret"), che è invece ritmica e incalzante, fatta di rapide scale discendenti e punteggiata da sporadici suoni isolati sulla parola "Quis". I lenti accordi della sesta terzina ("Quis non posset contristari") hanno una chiara funzione di cesura, che mette ancora in risalto la sezione seguente ("Pro peccatis suae gentis»), in tempo ternario, movimentata, dal tessuto polifonico più leggero, che tende ad evidenziare il profilo melodico delle singole voci, e che si sfibra sulle parole "Morientem desolatum / Dum emisit spiritum", trasformandosi in una vivida descrizione dell'agonia di Cristo. Nettamente isolata dal resto è invece la strofa "Eja Mater fons amoris" dove le voci si accoppiano generando una polifonia a cinque voci, improvvisamente più trasparente, che rende anche esplicito il gioco imitativo su "Fac ut ardeat cor meum". Musicalmente indipendente anche la sezione che coincide con l'undicesima terzina "Sancta Mater, istud agas": è collocata esattamente a metà dello Stabat Mater e ne rappresenta il cuore espressivo, con i suoi ritardi, le armonie dissonanti, l'intreccio contrappuntistico fluido e pieno di seduzioni melodiche. Nella fitta trama contrappuntistica cominciano ad affiorare alcune parti solistiche (a partire dal verso "Juxta crucem tecum stare") avviando un processo che culmina nella diciottesima terzina: qui il tenore introduce un ampio vocalizzo ("Inflammatus et accensus"), ripreso poi dalle altre voci, e tutta la sezione procede alternando sezioni melismatiche e improvvisi blocchi accordali, creando un percorso drammatico e ricco di dissonanze. L'ultima terzina è suddivisa in una introduzione lenta, in tempo ternario, sul verso "Quando corpus morietur" seguita da un denso fugato, in ritmo binario ("Fac ut animae donetur / Paradisi gloria"), che ingloba un controsoggetto sulla parola "Amen", e che precede una coda di grande effetto, un vigoroso Allegro in tempo ternario, ancora sulla parola "Amen".

Gianluigi Mattietti


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium Parco della Musica, 28 novembre 2003


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Ultimo aggiornamento 30 novembre 2014