Nel novembre del 1818, ventunenne, Schubert tornò a Vienna da una estate a Zelesz, tenuta di campagna degli Esterhàzy. L'anno di congedo dall'impiego di maestro elementare era scaduto, e, malgrado le sollecitazioni del padre, il musicista non volle saperne di riprendere l'insegnamento. Lasciò la casa paterna e si avviò alla carriera del libero professionista. Una carriera destinata a restare fino alla morte priva di consacrazione ufficiale, e ad apparire agli occhi borghesi piuttosto affine a quella del fannullone. Schubert potè infatti sopravvivere a Vienna altri dodici anni, soltanto per le pretese modestissime e per la dedizione di alcuni amici. Nel 1819 le speranze erano però diverse. Cercò a più riprese la gloria nell'opera - Claudine (1815), Die Zauberharfe (1820), Alfonso und Estrella (1822) - o, nell'alternativa, un rispettabile posto di maestro di cappella. A questo scopo dobbiamo la cantata pasquale Lazarus (1819) e la Messa in la bemolle maggiore (1819-1822).
I tre anni di lavoro intermittente indicano l'importanza attribuita da Schubert a questa quinta fra le sue messe. Nel dicembre del 1822 scriveva al fedele Joseph von Spaun: «La mia messa è compiuta, e verrà presto eseguita. Ho sempre in mente di dedicarla all'imperatore o all'imperatrice, poiché la considero un successo». Probabilmente la Messa non fu mai eseguita, vivente l'autore; per la sua pubblicazione bisogna attendere fino al 1875.
Un esame della partitura non può che giustificare il mancato ingresso dell'opera alla Cappella Imperiale, quella consacrazione da cui Schubert si attendeva l'attestato di professionista. Rispetto alle convenzioni della musica sacra austriaca, a cavallo del secolo, la Messa in la bemolle maggiore è fin troppo libera. Rispettata la forma esteriore della messa tardo barocca, con la fuga d'obbligo a conclusione del Gloria, l'eloquenza antifonale del dialogo fra coro e solisti, la piacevolezza dell'impostazione melodica. Ma, al di là delle apparenze, tutto è rivoluzione, soggettivismo accentuato e quindi rivoluzione romantica. Al posto della imperturbabile solennità e compunzione della messa haydniana, Schubert parla in prima persona. Non la chiesa ufficiale ma l'uomo Franz Schubert col suo piccolo passato di fronte all'eterno. Un artista pronto a trasporre ogni stimolo culturale, ogni lascito storico, in esperienza individuale.
E' evidente come l'esperienza di Schubert fosse in primo luogo di parrocchia. Una musica per i poveri, per coloro che non sanno, che vorrebbero comprendere ma non possono, è all'origine di tutto un filone della musica sacra austriaca, dall'Ave Verum di Mozart, a Schubert, ai mottetti di Bruckner. E più d'ogni altro, Schubert intese l'evasione piuttosto come rassegnazione che come rivolta: un primitivismo squarciato dal genio di inaudite, mai replicate, intuizioni. Tale è certo il Sanctus della Messa, con le sue tre partenze modulanti sul tremolo degli archi, definite dall'Einstein: «lo sgomento dinanzi all'Infinito».
La prevalenza dell'armonia sull'elemento contrappuntistico rientra in una deliberata rinunzia al dotto tipicamente schubertiana. Isolato fra i romantici di lingua tedesca, Schubert non conobbe il problema del ritorno a Bach, o almeno non se lo pose fino alle soglie della morte, quando pensò di farsi allievo del contrappuntista Simon Sechter.
Al tempo della Messa il musicista non si preoccupa che del «colore» armonico. L'omofonia del Kyrie, mesto e rassegnato, sembra quasi una improvvisazione su un pedale di la bemolle maggiore, variegata dai giochi antifonali fra coro e solisti, e dalla delicatezza delle fioriture vocali.
L'apertura del Gloria tradisce uno di quegli arcaismi sopravvissuti nelle vie sotterranee della provincia musicale austriaca. Il festoso ritmo ternario col suo fluire di semicrome ed i contrasti ingenui nella strumentazione fra ottoni e legni rimandano alla tecnica barocca della Messa in si minore di Bach. Il Gratias riconduce alla delicatezza del puro melodizzare, tinteggiato dalla distribuzione fra solisti e coro. Affermativo il Domine Deus, scandito da solenni arcate sciolte, in forte; gli replica il tema orante del Gratias, passo dove si fa luce l'imitazione del Requiem mozartiano. Ma Schubert afferma indelebilmente la propria personalità nel Miserere: nello strumentale il clarinetto emerge delicato, fattore di puro suono, come nel secondo tempo della Incompiuta. Un'altra fanfara alla barocca, senza impasti, (Quoniam) conduce alla fuga Cum Sancto Spiritu. Non contento di una prima stesura, Schubert la riscrisse di sana pianta. Ma non conosceva il significato dell'artificio. In particolare l'orchestra manca di elementi contrappuntistici autonomi che diano pienezza all'impasto, secondo gli insuperati modelli degli oratori haydniani; qui prevale invece la monotonia di un flusso di semicrome.
Singolari residui della tradizione liturgica danno il loro accento al Credo. La clausola d'inizio funge da motto dell'affermazione fideistica ed è orchestrata nel susseguirsi di tre accordi di do maggiore, affidati agli ottoni, ai legni, al coro a cappella; e la successiva linea delle voci a cappella è pervasa da reminiscenze modali. Il coro è a otto parti, sostenuto arcaicamente dai tromboni che con i loro attacchi in pianissimo danno il timbro al primitivismo mistico dell'lncarnatus. Anche la figura melodica del Crocifixus rimanda ad un antico melisma, connesso nella tradizione liturgica alla illustrazione della croce. Il mistero dogmatico della clausola iniziale si fa sentire, dal Resurrexit in poi, prima di ogni versetto. Va sottolineato che Schubert ha omesso di musicare l'Et in unam sanctam catholicam et apostolicam ecclesiam, il che, come osserva ancora l'Einstein, si accorda perfettamente al soggettivismo dell'opera. Il Vitam venturi chiude con un radioso inno in do maggiore.
La sortita del Sanctus conta, come s'è detto, fra le intuizioni insondabili di Schubert; è replicata tre volte in diverse tonalità, esaurendo nel processo modulante il totale cromatico. Essa conduce direttamente al Pleni sunt coeli, passo stupendamente descrittivo, dove l'incedere della processione vocale è accompagnato da distanti fanfare di legni ed ottoni. L'Osanna pastorale ed il Benedictus, su uno scorrevole basso obbligato, mostrano l'artefatto e ad un tempo ingenuo raccoglimento dell'ultimo Mozart.
L'Agnus
conclude nella quiete degli umili con cui la Messa si era
aperta. Schubert torna alla sua insondabile maestria di armonista,
varia impercettibilmente l'emozione, modulando prima di ogni Miserere; conclude
con una andatura sommessa di marcia, un Dona nobis pacem in
cammino verso l'ignoto.