Quartetto per archi n. 6 in re maggiore, D. 74


Musica: Franz Schubert (1797 - 1828)
  1. Allegro ma non troppo (re maggiore)
  2. Andante (sol maggiore)
  3. Menuetto: Allegro (re maggiore) e Trio
  4. Allegro (re maggiore)
Organico: 2 violini, viola, violoncello
Composizione: Vienna, 22 agosto - 3 settembre 1813
Prima esecuzione: Vienna, residenza di Schubert, 4 ottobre 1813
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia, 1890
Guida all'ascolto (nota 1)

Con quattordici composizioni (a cui si dovrebbero sommare diversi frammenti e alcuni smarriti quartetti giovanili) il genere del quartetto per archi occupa, nel catalogo cameristico di Franz Schubert, uno spazio che è numericamente subalterno solamente al grande blocco delle diciannove sonate per pianoforte. Gli autori delle generazioni precedenti - in testa Haydn, Mozart, Beethoven - avevano rivolto il loro interesse principalmente verso le grandi forme, la sinfonia, il quartetto, la sonata; i settantacinque quartetti per archi scritti da Haydn, i ventisette di Mozart, i diciassette di Beethoven mostrano l'impegno militante di questi autori nel riflettere sulle vaste articolazioni. Diversamente, le generazioni successive a quella di Schubert guarderanno con distacco al genere del quartetto. Per i compositori dell'età romantica l'esempio beethoveniano costituisce un termine di paragone da venerare, un ideale formale di perfezione inattingibile. Di qui la difficoltà di scrivere quartetti che possano reggere tale paragone. Al quartetto i romantici tornano quindi solo in limitate occasioni, e in una prospettiva del tutto differente; quella del confronto con un genere desueto, con la storia.

Già queste semplici osservazioni valgono a chiarire come la produzione quartettistica di Franz Schubert vada, in un certo senso, contro la storia. Più che proteso alle rivoluzioni proposte dalla generazione dei giovani leoni romantici, Schubert appare come indissolubilmente legato all'età del classicismo; epigono di Haydn, Mozart e Beethoven, intento a confrontarsi con questi modelli del passato, ma non riprendendo tali e quali le forme della tradizione, bensì reinterpretandole secondo la propria sensibilità e la propria visione del mondo.

Non viene meno per Schubert la particolarissima scrittura per archi elaborata nell'età del classicismo. La complessa ricerca operata da Haydn, e ripresa da Mozart, aveva portato, negli anni Ottanta del secolo diciottesimo, alla definizione di una scrittura quartettistica che esaltava al massimo la preziosità e l'esclusivismo del genere, qualificando il quartetto per archi come il genere peculiare e quintessenziale dello stile classico.

Questo tipo di scrittura è insieme "obbligata e concertante", presuppone cioè un ruolo egualitario di ogni strumento, ottenuto però non secondo la totale indipendenza melodica delle voci l'una dall'altra - propria del vecchio stile contrappuntistico - ma secondo un calibrato dialogo degli strumenti, che alternano ciascuno reciprocamente la funzione melodica e quella di accompagnamento. È insomma una scrittura che risponde nel modo più convincente al problema proprio della formazione cameristica per archi; quello di ricercare una varietà coloristica all'interno di un timbro monocromo. Ma a rendere ancora più astratto e prezioso questo tipo di scrittura contribuisce in modo essenziale il principio dell'elaborazione tematica, ossia la tecnica di riprendere e elaborare il materiale tematico, sviluppando al massimo le potenzialità di pochi temi posti alla base del singolo movimento (evitando dunque la continua, piacevole melodiosità che è il principio basilare dei generi musicali più disimpegnati). Ecco quindi che, per l'insieme di questi motivi, il quartetto si collocava nella sfera concettuale più alta, e insieme al vertice dell'impegno professionale di un musicista.

Schubert apparteneva a una generazione che, a differenza di Beethoven, non aveva vissuto le tensioni ideali dell'età napoleonica, ma era cresciuto piuttosto nell'epoca in cui quelle tensioni avevano visto la loro disfatta. Logico quindi che i principi informatori della sua musica fossero così diversi da quelli di Beethoven. Il quartetto beethoveniano si nutriva, come la sonata - per usare una sommaria, comoda schematizzazione -, di una dialettica di contrasti fra due idee principali che rifletteva le tensioni ideali di cui si è detto. Nel quartetto schubertiano questa dialettica viene a mancare; viene sostituita da una logica paratattica, in cui le melodie, spesso di ascendenza liederistica, vengono iterate e riesposte sotto diverse illuminazioni espressive. Per usare le parole di Piero Rattalino, «L'assenza di contrasti in Schubert, contrapposta alla ricchezza di contrasti e di superamenti in Beethoven, rivela l'impossibilità di un rapporto dialettico con il mondo, il senso della solitudine, la nostalgia priva di oggetto determinato».

Tali caratteristiche, peraltro, appartengono compiutamente alla produzione del compositore maturo; mentre i quartetti giovanili di Schubert sono ancora lavori sperimentali, alla ricerca di una emancipazione dagli illustri modelli di Mozart e Haydn: troppo recenti e complesse erano le partiture di Beethoven. Agli anni di scuola risalgono i Quartetti D. 74 e D. 173, destinati alla ricreazione con i compagni di convitto, o ancora alla prassi familiare (infatti Schubert e i suoi fratelli suonavano in quartetto, talvolta col padre). In particolare il Quartetto D. 74 fu scritto nell'agosto-novembre 1813, dal compositore sedicenne. Nel tempo iniziale il primo tema sorge sulla linea del basso come quello di una giocosa sinfonia italiana, e tutto il movimento è animato da una vena cantabile in cui prevale il primo violino, secondo la brillantezza consueta alla tonalità di re maggiore; manca una costruzione rigorosa, e a tratti il movimento può apparire pletorico, ma reca nell'insieme la traccia dell'insegnamento italianista di Salieri. Segue un Andante di impostazione affettuosa, con un episodio centrale che si mostra sospeso fra unisoni e pizzicati e poi fra malinconici intrecci. A un giocoso Minuetto succede il Finale, anch'esso di stampo haydniano, una sorta di moto perpetuo con echi sinfonici e fanfare che sembrano rimandare a una strumentazione più corposa.

Arrigo Quattrocchi


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 6 settembre 1997


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Ultimo aggiornamento 22 novembre 2014