Sinfonia n. 9 in do maggiore "La grande" D. 944


Musica: Franz Schubert (1797 - 1828)
  1. Andante (do maggiore). Allegro ma non troppo
  2. Andante con moto (la minore)
  3. Scherzo. Allegro vivace (do maggiore). Trio (mi maggiore)
  4. Allegro vivace (do maggiore)
Organico: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, 3 tromboni, timpani, archi
Composizione: estate 1825 - marzo 1828
Prima esecuzione: Lipsia, 21 marzo 1839
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia, 1840
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Delle otto Sinfonie di Franz Schubert che sono giunte ai posteri in forma completa - laddove il concetto di "completezza" si riferisce non al numero dei movimenti compiuti ma all'integrità e all'eseguibilità della loro stesura; dunque fra le complete ha posto anche la celebre "Incompiuta" - solamente le ultime due, appunto l'"Incompiuta" e la "Grande", sono opere dell'autore maturo, giunto al pieno possesso dei propri mezzi espressivi. Le prime sei Sinfonie, scritte fra il 1813 e il 1818 (fra i sedici e i ventun anni) sono da considerarsi piuttosto alla stregua di esperienze formative, lavori di fattura anche pregevolissima e di interesse sommo, ma esercitazioni nella difficile tecnica di scrittura orchestrale più che libere manifestazioni della creatività del musicista - creatività che aveva invece già trovato una personalissima definizione nell'ambito della produzione cameristica e liederistica.

Delle ambizioni del compositore nel genere sinfonico offre importante testimonianza una celebre lettera del marzo 1824 all'amico Leopold Kupelwieser, nella quale Schubert osserva: «Nei "Lieder" ho fatto ben poco di nuovo, ma mi sono cimentato in parecchi lavori strumentali... Soprattutto voglio in questo modo aprirmi la strada verso la grande sinfonia». In questa prospettiva si inseriscono dunque i due lavori incompiuti scritti fra il 1821 e il 1822: una sinfonia in mi maggiore abbozzata in tutti e quattro i movimenti, nessuno dei quali tuttavia eseguibile nella forma pervenutaci, e la Sinfonia in si minore (appunto l'"Incompiuta") che annovera due movimenti del tutto definiti e l'abbozzo di uno Scherzo.

Ma l'interesse di Schubert era volto verso un lavoro di dimensioni ancora più ampie ed ambiziose, che potesse stare a confronto con le ultime opere di Beethoven, senza per questo rinunciare alle caratteristiche peculiari del proprio stile. La messa a punto di un simile progetto dovette richiedere certamente un sommo impegno al compositore. Della Sinfonia "Grande" abbiamo una prima notizia in una lettera di Bauernfeld, l'amico che ospitò Schubert presso le località montane di Gmunden e Gastein nel 1825; e la partitura completa reca poi la data del 1828. Dalla distanza fra queste due date è derivata peraltro la pertinace convinzione di buona parte della critica che Schubert abbia composto una Sinfonia "di Gastein", poi andata smarrita; mentre invece (come dimostrò Maurice J. E. Brown nel 1958) è ormai indubbia la identità della Sinfonia di "Gastein" e della "Grande". (E da tutte queste vicissitudini è derivato anche un ripetuto slittamento del numero d'ordine assegnato alla Sinfonia in questione nei diversi cataloghi: n. 7, in quanto prima sinfonia completa dopo la n. 6; n. 8, calcolando anche l'"lncompiuta"; n. 9, calcolando anche la abbozzata Sinfonia in mi maggiore; e addirittura n. 10, inserendo nel catalogo anche l'inesistente Sinfonia "di Gastein").

Nel 1828 Schubert offrì poi la partitura alla Società degli amici della musica di Vienna per una esecuzione finalmente "ufficiale"; la "Grande" sarebbe stata così la prima delle Sinfonie di Schubert a ricevere una esecuzione pubblica. Sicuramente furono effettuate delle prove d'orchestra, ma il lavoro risultò troppo complesso per le forze dell'orchestra della Società. Schubert propose in sostituzione la Sesta Sinfonia; ma questa fu eseguita solamente pochi mesi più tardi, nel concerto commemorativo per la morte del compositore. La partitura della "Grande" venne poi ritrovata da Schumann fra le carte del compositore nel 1839, ed eseguita a Lipsia sotto la direzione di Mendelssohn; e per una completa edizione a stampa si dovette aspettare l'anno 1849.

Questi fatti valgono da soli a dimostrare le grandi ambizioni della partitura, i cui orizzonti superavano incomparabilmente la prassi dell'epoca. E la "Grande" rappresenta effettivamente un ponte lanciato verso il sinfonismo tardo romantico, per l'ampliamento dell'organico (tre tromboni in più rispetto alla "Quarta") e delle dimensioni, ma anche per il superamento della logica sinfonica "classica", basata su una ferrea dialettica fra elementi contrapposti. Schubert aderisce apparentemente alle regole di costruzione della forma classica, ma ne modifica poi dall'interno gli equilibri; allenta la contrapposizione fra i diversi temi e vi sostituisce una ripetizione articolata dei medesimi, senza che per questo venga a mancare una logica narrativa alla composizione, assicurata dalle strette relazioni "sotterranee", dal nervoso impulso ritmico che percorre incessantemente l'intera partitura.

Già il tema iniziale della Sinfonia, esposto dai corni, offre l'idea di questo continuo ripiegamento del materiale su sé stesso; il tema, in soluzioni espressive continuamente rinnovate, è protagonista esclusivo della mastodontica introduzione (Andante) che, con una progressiva "lievitazione", scivola direttamente nel seguente Allegro ma non troppo. Qui si impongono tre blocchi tematici, uno in ritmo puntato esposto dai bassi, uno in staccato dei legni e un terzo dei tromboni, tutti e tre ritmicamente incisivi e dalla configurazione "circolare", riallacciabili cioè al tema dell'Andante; e proprio quest'ultimo si pone alla base delle variegate trasformazioni della sezione dello sviluppo. La riesposizione sfocia in una coda incalzante e simmetrica (Più moto), sigillata dalla riapparizione del tema dell'Andante nella sua veste testuale.

Sui pizzicati degli archi l'oboe staglia la melodia "all'ongarese" che da l'avvio all'Andante con moto, movimento che si articola secondo lo schema ABAC-BA; a un primo grande blocco tematico segue un nuovo episodio aperto da una intensa polifonia degli archi e chiuso dai richiami misteriosi dei corni; la riesposizione del primo blocco conduce a uno sviluppo drammatico, con un celebre passaggio di violoncelli e oboe, e a un ritorno del secondo episodio; e il movimento si chiude richiamandosi al motivo iniziale, con un mirabile e calibrato senso delle proporzioni che dona aurea compiutezza alle poliedriche peregrinazioni del movimento. Segue uno Scherzo brillante e serrato, cui si contrappone un Trio dal carattere di Ländler popolare.

L'intera Sinfonia gravita però verso il Finale, movimento di articolazione estremamente ampia, in forma-sonata, aperto dai richiami degli ottoni con le risposte degli archi. L'incessante propulsione ritmica è l'elemento più evidente del primo blocco tematico, cui succede una lunga cantilena per note ribattute dei legni. Oltre duecento battute prende la sezione dello sviluppo, che segue una logica paratattica, evitando una vera e propria "elaborazione" del materiale, e preferendo richiamarsi ai singoli elementi già comparsi e assunti separatamente. Dopo la riesposizione trova luogo una coda che conduce a una vera apoteosi la frenesia ritmica del movimento; conclusione degna della "grande" sinfonia che tenta una interpretazione postuma dell'età del classicismo, e offre suggerimenti profetici alle epoche successive.

Arrigo Quattrocchi

Guida all'ascolto n. 2 (nota 2)

Nell'estate 1825, durante un viaggio in Siria, Schubert lavorò a una sinfonia di cui parlano le lettere degli amici. In un primo tempo questa sinfonia, detta "di Gmunden e Gastein", fu ritenuta misteriosamente perduta, finché M. Brown formulò la ben fondata ipotesi che essa coincidesse proprio con la Sinfonia in do magg. D. 944, l'ultima finita da Schubert. La data 1828, che si leggeva sull'autografo, venne ritenuta quella del compimento. Ulteriori conferme dell'ipotesi di Brown sono venute da un più accurato esame del manoscritto, dove secondo E. Hilmar bisogna in realtà leggere 1825, e dove la qualità stessa della carta e della scrittura rivela una elaborazione prolungata. L'ultima sinfonia di Schubert va dunque datata 1825-28. La si sarebbe dovuta eseguire a Vienna subito dopo la morte del compositore, ma fu giudicata troppo difficile e sostituita con l'altra Sinfonia in do magg. n. 6 (detta, per distinguerla, "La piccola"). La composizione fu riportata alla luce da Schumann, che ritrovò il manoscritto, nel gennaio 1839, in casa del fratello di Schubert, Ferdinand. Fu diretta da Mendelssohn a Lipsia il 21 marzo 1839 e pubblicata nel 1840, anno in cui Schumann le dedicò un articolo entusiastico, giustamente famoso, parlando di «completa indipendenza da Beethoven», e di «divina lunghezza». Si tratta, nella storia della sinfonia, di un caposaldo che avrebbero tenuto presente Bruckner e Mahler, e che riassume alcuni aspetti essenziali del mondo schubertiano, dove la dilatata, sognante concezione del tempo musicale sembra schiudere orizzonti infiniti e una inesauribile varietà di paesaggi.

La Sinfonia si apre in un clima di magica evocazione, con il vasto e solenne respiro dell'introduzione, che si integra nell'organismo del primo tempo anche attraverso la citazione del suo tema verso la fine della coda, in una sorta di apoteosi. Nell'Allegro ma non troppo l'elementare energia del primo tema è originata dall'insistenza sul ritmo puntato e sulla successione tonica-dominante. Cantabile e ricco di chiaroscuri è il secondo tema, e grande rilievo assume un misterioso terzo tema, affidato ai tromboni, costruito su brevi incisi, quasi a domande e risposte, e chiaramente desunto dal materiale dell'introduzione. Soprattutto l'ampiezza dell'esposizione (per la quale Schubert prescrive il ritornello) conferisce proporzioni monumentali al prìmo tempo. Gli idealizzati andamenti di marcia che percorrono l'Andante con moto rivelano analogie (non necessariamente intenzionali) con alcuni Lieder del ciclo Die Winterreise (n. 1 e n. 20 in particolare). Articolato secondo lo schema ABA-'B'A" (dove ogni ritorno è variato), questo movimento, con le sue ambivalenze e i suoi mutevoli umori  (con i momenti di dolente intensità, le aperture liriche, il cupo insistito incedere delle crome all'inizio), può essere considerato una delle massime incarnazioni strumentali del tema legato all'immagine schubertiana del Viandante. Lo Scherzo (Allegro vivace) presenta una eccezionale estensione, tra vigore popolaresco e incantata o inquieta cantabilità viennese. Il grandioso finale, in forma di sonata (con lo sviluppo dominato dal secondo tema), è tutto percorso da uno slancio trascinante, da un'impetuosa ansia visionaria che sembra schiudere, con gioiosa immediatezza, l'utopia della liberazione.

Guida all'ascolto n. 3 (nota 3)

Schubert iniziò a comporre la Sinfonia n. 9 in do maggiore D 944 (conosciuta anche come «Grande» per distinguerla dall'altra sinfonia in do maggiore, la n. 6 D 589 «Piccola») nel 1825 e la completò al più tardi nel 1826. Come tanti altri lavori strumentali schubertiani, la partitura ebbe all'inizio una storia difficile. Rifiutata nel 1826 e poi ancora nel 1828 dall'orchestra della Gesellschaft der Musikfreunde di Vienna perché ritenuta troppo lunga e difficile, l'ultima sinfonia portata a termine da Schubert sarà riscoperta da Robert Schumann nel 1839 in occasione di una visita al fratello Ferdinand. Si deve appunto a Schumann se la sinfonia avrà la sua prima esecuzione, al Gewandhaus di Lipsia, il 21 marzo 1839 sotto la direzione di Felix Mendelssohn. L'anno successivo Schumann le dedica una celebre recensione sulla Neue Zeitschrift für Musik (La Sinfonia in do maggiore di Franz Schubert), e tuttavia l'opera stenta a entrare nel repertorio; Mendelssohn la dirige a Francoforte sul Meno nel 1841, ma a Vienna ha luogo un'esecuzione soltanto parziale nel 1839 ed esecuzioni mancate per l'ostruzionismo delle orchestre si registrano a Parigi nel 1842 e a Londra nel 1844. Eccessiva lunghezza e difficoltà (di esecuzione come di comprensione) erano i difetti che i contemporanei addebitavano alla partitura che, insieme con l'«Incompiuta» (1822), rappresenta il capolavoro sinfonico di Schubert.

Schumann ne colse invece all'istante il valore assoluto; nella sua profetica recensione sono individuati gli aspetti salienti dell'opera: la novità del mondo «poetico» e l'espressione di una ricca vita interiore; l'intensità pervasiva del significato e la «divina lunghezza» (paragonata a un romanzo di Jean Paul); la tecnica magistrale della composizione e la completa indipendenza da Beethoven; la connessione e l'organicità dell'insieme; il nesso tra l'ampiezza della forma e il carattere narrativo che agisce sulla coscienza e sull'esperienza dell'ascoltatore. Ora, nelle linee esteriori (architettura, tipologia dei movimenti, configurazione e trattamento dei temi perlopiù costituiti da brevi motivi anziché da tornite e conchiuse idee metodiche, importanza della pulsione ritmica come elemento portante dello svolgimento musicale) la sinfonia appare più tradizionale, più legata ai modelli classici e beethoveniani di quanto non fosse l'«Incompiuta»; e tuttavia essa propone al contempo una nuova poetica e una nuova concezione linguistica di segno romantico.

Decisivo è il rapporto a distanza con la Nona sinfonia (1824) di Beethoven, da cui Schubert prende lo spunto per un'opera grandiosa e ottimistica, positivamente utopica e di una vastità di respiro proiettata verso prospettive virtualmente infinite (tra l'altro, nel finale della Sinfonia D 944 compare un'esplicita citazione dell'Inno alla gioia). Ma se la grandiosità sinfonica per Beethoven è connessa anzitutto con la questione propriamente costruttiva di realizzare un progetto formale in grado di reggere proporzioni inaudite, per Schubert essa pone un problema inerente al dilatarsi della dimensione del tempo e dello spazio sonoro. In Beethoven l'articolazione formale su scala poderosa corrisponde a una costruzione consequenziale, dialettica e discorsiva del discorso musicale organizzato secondo leggi razionali; il che riflette un atteggiamento attivo da parte dell'individuo, la volontà d'intervenire operativamente sulla realtà. In Schubert, viceversa, la dilatazione temporale e spaziale della forma comporta una costruzione divagante, digressiva e narrativa del discorso musicale secondo procedimenti che esulano dalla logica dialettica e discorsiva; il che rispecchia una disposizione contemplativa dell'individuo nei confronti del mondo e della natura che lo comprendono, una disponibilità a riverberarne la profondità degli spazi, i misteri, le risonanze segrete. Essenziale a questa dilatazione del tempo e dello spazio musicale è una logica formale fondata su processi di accumulazione e di espansione concentrica (grazie alle tecniche della ripetizione, della variante, della parafrasi, della trasformazione e proliferazione tematica), su blocchi di progressioni armoniche a largo raggio, su contrasti di addensamento e rarefazione, di assottigliamento e amplificazione della tessitura orchestrale. Il principio della moltiplicazione svolge un ruolo determinante nella configurazione dei temi e nella struttura sintattica del discorso musicale: la proliferazione di minime cellule produce frasi e periodi che a loro volta, in un superiore ordine di grandezze, generano sezioni via via più ampie.

Sotto l'apparente rilassatezza, l'integrazione della forma è conseguita attraverso una rete fittissima di relazioni che intreccia richiami, reminiscenze, associazioni, corrispondenze sulla base di un numero limitato di strutture melodiche, ritmiche e armoniche: l'intervallo di terza (che accomuna i temi principali dei diversi movimenti e si ripercuote sull'organizzazione tonale), le figure dal profilo melodico circolare e quelle in ritmo puntato. Le relazioni intrecciate nel corso della composizione sono funzionali all'«idea poetica» dell'opera, qui da intendersi non come contenuto o programma extramusicale bensì come processo estetico che consente al compositore di conseguire un intento unitario su vasta scala al di là dei modelli della tradizione: all'«idea poetica» sono riconducibili materiali, temi e forme; è essa che conferisce coesione e direzionalità alla struttura complessiva anche se ciò non comporta la comunicazione di un esplicito messaggio come avviene nella Nona di Beethoven. I significati della sinfonia non sono la rappresentazione contenutistica della musica, sono piuttosto le libere visioni e le associazioni suscitate dall'«idea poetica» nell'ascoltatore. Certo, arrivati all'ultima battuta del finale si esperisce un senso di risoluzione, il raggiungimento di una meta, lo scioglimento dell'intreccio delineato dai caratteri espressivi, dalla sostanza musicale e dai processi formali dei quattro movimenti: è qualcosa di simile all'epilogo di un racconto. Qualcosa di simile a un traguardo, utopico e sublime, verso il quale convergono, per essere chiarite, tutte le ambivalenti esperienze di vitalismo e ripiegamento, di percezione esteriore e immaginazione inferiore, di propulsione e di stasi, di incertezza e insieme di tenace volontà provate nel corso della sinfonia.

L'ampio respiro del primo movimento (Andante - Allegro ma non troppo), naturalmente in forma di sonata, definisce il formato monumentale e il tono grandioso della sinfonia. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, l'estesa introduzione in tempo Andante afferma subito e con chiarezza la tonalità d'impianto dell'opera, do maggiore. L'evocativo e cantabile tema dei corni pone in rilievo due microstrutture fondamentali dell'opera (l'intervallo di terza e il ritmo puntato) e avrà così un essenziale ruolo germinativo nel movimento e poi nel corso dell'intera sinfonia; il tema viene ripetuto ed esteso in una serie di varianti che coinvolgono via via i legni, gli archi e l'intera orchestra in un climax con squilli degli ottoni e rullo di timpani. Il vitalistico e ritmato primo gruppo tematico in do maggiore con cui, in tempo Allegro ma non troppo, si passa all'esposizione è distribuito tra archi (figure in ritmo puntato) e fiati (accordi ribattuti di terzine), e viene quindi condotto attraverso una breve transizione che porta al secondo gruppo tematico dalle vivaci inflessioni quasi popolareggianti, in mi minore, inizialmente suonato dai legni. Ciò che s'ascolta di seguito è una variante dello stesso gruppo secondario, in sol maggiore, ancora affidata ai legni, e poi un misterioso e digressivo tema complementare dei tromboni, modulante da mi bemolle maggiore, derivato da quello dell'introduzione. Chiude l'esposizione il gruppo conclusivo, che ribadisce la tonalità della dominante, sol maggiore, basandosi su motivi del secondo e del primo gruppo tematico.

A questo punto la presente incisione sceglie di tagliare la replica dell'esposizione e passa direttamente allo sviluppo. L'arcata iniziale muove da la bemolle maggiore elaborando una combinazione di elementi del primo e del secondo gruppo tematico in un climax che raggiunge un punto culminante. Di qui lo sviluppo prosegue a piena orchestra, attingendo al tema complementare dei tromboni, e traccia un anticlimax con l'alleggerirsi dell'orchestrazione e l'attenuarsi della pressione ritmica, mentre emergono i legni, gli archi gravi, i corni e i timpani. L'attacco della ripresa interviene in modo molto discreto, con il primo gruppo tematico in do maggiore, suonato piano. Tocca alla transizione, ora ampliata in una vera e propria elaborazione, far lievitare di nuovo il discorso sinfonico sino alla ricomparsa del secondo gruppo tematico, in do minore. Di qui sino all'epilogo la ripresa ripercorre l'esposizione con le dovute correzioni tonali: ecco dunque ripresentarsi la variante del secondo gruppo tematico, in do maggiore, poi il tema complementare dei tromboni, modulante da la bemolle maggiore, e infine il gruppo conclusivo, in do maggiore. La coda, con Più moto è in do maggiore, disegna un grande crescendo dove riappaiono gli elementi del primo gruppo tematico e quindi, in una sorta di apoteosi di senso riepilogativo, anche il tema dell'introduzione suonato dai fiati e poi anche dagli archi.

Il secondo movimento, Andante con moto, ha come spesso accade in Schubert una forma ambigua. L'impianto è infatti quello di una sonata senza sviluppo centrale, ma che reca l'impronta del rondò per il ritorno strofico delle idee tematiche. Il probabile modello fu l'Allegretto della Settima sinfonia di Beethoven, con il quale l'Andante con moto condivide la tonalità e il metro (la minore, 2/4), l'andamento non troppo lento e in tempo di marcia, la presenza di sezioni in maggiore e di un'elaborazione o sviluppo all'interno della ripresa. Si tratta di uno di quei movimenti schubertiani percorsi da un incedere motorio e processionale che assume anche aspetti ipnotici per la ripetizione delle idee e per la tendenziale staticità armonica. La breve introduzione degli archi fissa l'andamento di marcia su cui si profila la lirica prima idea del gruppo tematico principale, in la minore, di struggente ed elegante malinconia, intonata dall'oboe e dal clarinetto; il periodo si conclude in maggiore con un cambiamento di modo tipicamente schubertiano che suggerisce il passaggio dall'ombra alla luce. La seconda idea, sempre in la minore, irrompe drammaticamente, con strappate, colpi di timpano, frasi divise tra archi e legni e quindi a piena orchestra: la marcia assume tratti epicamente squadrati e minacciosi. Ritornano quindi con varianti, specie di strumentazione, la prima idea, la seconda e infine ancora la prima idea del gruppo tematico principale. Dopo una breve successione discendente dei bassi su note tenute dei fiati si profila il gruppo tematico secondario, in fa maggiore, avviato dal cantabile degli archi, nel quale s'insinuano all'improvviso echi drammatici della seconda idea del gruppo principale, prima di una delicata frase dei legni. Una nota più volte ripetuta dei corni (sol) segna la riconduzione su armonie enigmatiche e come sospese degli archi.

La ripresa variata, in la minore, ripropone la prima e la seconda idea del gruppo tematico principale, poi ripetute in alternanza. Segue una digressione-elaborazione drammatizzante, basata su elementi della seconda idea del gruppo tematico principale e punteggiata dagli squilli degli ottoni; la digressione culmina in un accordo dissonante e in fortissimo (fff) seguito da una battuta di pausa. Subito dopo, in netto contrasto, una transizione condotta su motivi della prima idea del gruppo tematico principale (violoncelli, oboe) porta al gruppo tematico secondario, in la maggiore, ora variato per il consistente addensamento della scrittura sinfonica e con le linee melodiche ai legni; la nota ripetuta (si), che segna la riconduzione, ora è suonata dai clarinetti. La coda, in la minore, è costituita da un'ulteriore variante della prima idea del gruppo tematico principale, nella quale s'inseriscono, come ombre aggressive che appaiono e poi si dissolvono, echi e frammenti della marcia minacciosa della seconda idea.

Anche la forma del terzo movimento è articolata e complessa; lo Scherzo offre in particolare una sovrapposizione di forma ternaria e di sonata. In tempo Allegro vivace, si apre con la prima idea tematica, in do maggiore, iniziata da un dialogo tra archi all'unisono e fiati; presto le succede la più distesa seconda idea tematica, in sol maggiore, dalle movenze di valzer; segue la replica della prima parte dello Scherzo. Lo stacco della seconda parte coincide con l'awio dello sviluppo che, muovendo da la bemolle maggiore, allinea nell'ordine: la testa della prima idea; una nuova idea ai legni, generata dalla combinazione di elementi della prima e della seconda idea; un'ulteriore nuova idea cantabile che passa dai legni agli archi. Lo sviluppo si conclude con la conduzione di motivi della seconda e della prima idea verso la ripresa. Qui la prima idea tematica riappare in do maggiore, ma variata nelle armonie e nella strumentazione (l'ordine originario del dialogo tra archi e fiati è invertito). Poi alla seconda idea tematica, ora anch'essa in do maggiore, segue la ricapitolazione dell'idea cantabile dello sviluppo; la seconda parte dello Scherzo è quindi replicata. Il Trio centrale in la maggiore, introdotto da note ribattute di corni, tromboni e legni, ha gli inconfondibili e accattivanti tratti di un Ländler in due parti; all'interno della seconda parte è contenuta una ricapitolazione della prima. Schubert affida il ruolo di protagonisti ai fiati. Segue infine la ripresa completa, senza repliche, dello Scherzo.

L'imponenza del finale, Allegro vivace, in forma di sonata, fa da contrappeso a quella del movimento iniziale. Il primo gruppo tematico dell'esposizione, in do maggiore, mostra chiaramente come le idee siano costituite da piccole cellule che si prestano a essere elaborate e combinate insieme le une con le altre: vi sì ascoltano motivi di fanfara e poi un'idea cantabile, dal profilo melodico circolare, ai legni. La susseguente transizione è condotta su motivi del primo gruppo tematico e culmina in una strappata a pieno organico seguita da due battute di pausa generale: è una di quelle interruzioni inattese nelle quali Schubert è maestro. Introdotto da una nota ripetuta dei corni (re), risuona allora il secondo gruppo tematico, in sol maggiore, intonato dai legni; una delle idee allude in modo piuttosto scoperto all'Inno alla gioia dalla Nona sinfonia di Beethoven che avrà ampio spazio nel prosieguo del movimento. Il gruppo conclusivo, in sol maggiore, riprende elementi del primo e del secondo gruppo tematico tra cui l'idea che allude all'Inno alla gioia.

Anche nel finale la presente incisione sceglie di tagliare la replica dell'esposizione e di passare direttamente allo sviluppo. La prima arcata muove da mi bemolle maggiore: quella che era una semplice allusione all'Inno alla gioia diviene esplicita citazione, che circola tra i legni, in particolare rilievo ai clarinetti e agli oboi. Ancora improntata alla citazione beethoveniana è la seconda arcata, che muove da re bemolle maggiore con tremoli dei violini e legni in evidenza. Continuando la dinamica modulante, lo sviluppo prosegue con la terza arcata, che elabora motivi di entrambi i gruppi tematici, e poi con la quarta arcata, che polarizza grazie a lunghi pedali armonici la dominante della tonalità d'impianto, do maggiore, preparando così la ripresa; l'elaborazione combina elementi di entrambi i gruppi tematici, iterando soprattutto l'inciso in ritmo puntato con cui incomincia il movimento. A questo punto si verifica una sorpresa per la sfasatura tra struttura tematica e struttura tonale, peraltro non del tutto inconsueta in Schubert: con la ripresa il primo gruppo tematico riappare non nella tonalità d'impianto, do maggiore, bensì in quella di mi bemolle maggiore. L'effetto è che la ripresa appare come assorbita all'interno dello sviluppo, nel contesto di un processo modulante ancora in corso; anziché ritornare a do maggiore, la ripresa .del primo gruppo tematico raggiunge poi la tonalità sostitutiva della sottodominante, fa maggiore. Anche nella transizione variata si prolunga il senso di tensione dinamica, ritardando il più possibile la risoluzione tonale del discorso sinfonico. È soltanto con il riapparire del secondo gruppo tematico che, a seguito dell'ennesima brusca virata armonica, si ritorna alla tonalità d'impianto. Dopo il gruppo conclusivo, in do maggiore, spetta alla coda la funzione di riaffermare definitivamente la tonalità d'impianto e di dar vita a un maestoso epilogo in crescendo con la combinazione e la sovrapposizione di motivi di entrambi i gruppi tematici.

Guida all'ascolto n. 4 (nota 4)

La Sinfonia in Do maggiore è l'ultimo lavoro portato a termine da Schubert nel genere sinfonico. L'appellativo di "Grande" le venne dato per distinguerla dall'altra Sinfonia in Do maggiore (detta appunto "La Piccola") del 1817-18, che era anche l'ultima sua sinfonia intera e completa prima di questa. Ciò non significa che nel frattempo Schubert non si fosse occupato di sinfonie. A parte quella in Si minore dell'ottobre 1822, in due soli movimenti, a cui sarebbe toccata una grande fama postuma col titolo di Incompiuta (la sua riscoperta avvenne solo nel 1867), Schubert aveva iniziato altri lavori sinfonici rimasti tutti, per vari motivi, allo stadio più o meno frammentario. Di una Sinfonia in Re maggiore (maggio 1818) abbiamo gli schizzi di due movimenti; di una in Mi maggiore (agosto 1821) gli abbozzi in partitura che, rinvenuti nel 1934, furono ricostruiti e strumentati nelle parti mancanti da Felix Weingartner (cosicchè questa Sinfonia entrò nel catalogo schubertiano col numero di settima). Quanto a una testimoniata ma mai ritrovata Sinfonia detta di Gmunden-Gastein, perchè ivi composta nel giugno-settembre 1825, ci sono state tramandate solo la dedica e l'offerta alla Società degli Amici della Musica di Vienna: pare ormai certo che essa vada identificata con La Grande, di cui sarebbe per così dire una prima versione; e ciò spiegherebbe il fatto che non sia mai stata ritrovata.

Tutte queste circostanze hanno provocato una notevole confusione nella catalogazione dell'ultima produzione sinfonica di Schubert: a seconda che si contino o meno i frammenti e le opere incomplete, La Grande e la stessa Incompiuta assumono una numerazione diversa. Se si accetta come settima la Sinfonia in Mi maggiore, l'Incompiuta avrà il numero otto e La Grande il nove; altrimenti, a scalare, rispettivamente il sette e l'otto. Numeri a parte, la Sinfonia in Do maggiore, fosse o meno anticipata dalla perduta Sinfonia di "Gmunden-Gastein", fu composta nella stesura definitiva nel marzo 1828, come si legge in testa al manoscritto completo della partitura. Sappiamo inoltre che in quell'epoca Schubert offrì il lavoro, forse già per la seconda volta, alla Società degli Amici della Musica di Vienna: la quale registrò il ricevimento della partitura ma poco dopo la respinse giudicandola "troppo lunga e difficile", e rifiutando dunque l'esecuzione. A Schubert non rimase altro che riprendersi il manoscritto e riporlo in un cassetto in casa di suo fratello Ferdinand, dove allora alloggiava. Pochi mesi dopo, il 19 novembre 1828, Schubert moriva senza aver potuto udire una sola nota del suo ultimo capolavoro.

A riconoscerlo come tale fu per primo Robert Schumann, dieci anni dopo. Recatosi a Vienna nel gennaio 1839, fece visita a Ferdinand Schubert e fra i numerosi manoscritti del fratello da lui custoditi rinvenne una Sinfonia di cui nessuno aveva ancora sentito parlare. "Chissà per quanto tempo ancora" - commentò lo strabiliato compositore - "essa sarebbe rimasta in quell'angolo oscuro e polveroso, se io non avessi subito persuaso Ferdinand Schubert a spedirla alla direzione dei concerti del Gewandhaus di Lipsia, o anche allo stesso artista che vi presiedeva". Schumann sapeva quel che faceva: quell'artista era infatti Felix Mendelssohn Bartoldhy, il quale ne rimase non meno scosso e decise subito di eseguirla. Cosa che avvenne il 21 marzo 1839, di fronte a un pubblico ammirato e perfino entusiasta. Non pertanto la strada al tardivo riconoscimento della Sinfonia fu spianata; né a molto valse la pubblicazione della partitura a Lipsia nel 1840 da parte di Breitkopf & Härtel, il più importante editore musicale del tempo. Dopo le esecuzioni lipsiensi, infatti, Mendelssohn la portò nel '42 a Londra; ma qui l'orchestra della Società Filarmonica si rifiutò di eseguire il Finale, che ai primi violini parve noioso (forse un eufemismo per nascondere obiettive difficoltà tecniche ed esecutive). Di peggio avvenne nel '44 a Parigi, dove l'orchestra della Società dei Concerti diretta da Habeneck si fermò sconcertata già dopo il primo tempo. Vienna aveva conosciuto sul finire del 1839 i primi due movimenti, eseguiti dai Filarmonici con l'inserzione in mezzo, secondo una prassi che a noi sembra barbara ma che era invece del tutto abituale nella moda del tempo, di un'aria d'opera, per l'esattezza della Lucia di Lammermoor. Sull'autorevole "Allgemeiner Musikalischer Anzeiger" si lesse fra l'altro: "Dopo i due movimenti di questa Sinfonia nessuno può mettere in dubbio il fatto che Schubert avesse una profonda conoscenza dell'arte della composizione; ci sembra però che egli non sapesse padroneggiare con altrettanta sicurezza le masse tonali. Così questa Sinfonia è una specie di schermaglia di strumenti, da cui non riesce a emergere un disegno efficace. A dire il vero c'è un filo rosso che si snoda attraverso l'intero lavoro, ma è troppo stinto perchè si possa individuarlo sempre con precisione. A mio parere quest'opera sarebbe stato meglio lasciarla dov'era". Questo parere è assai istruttivo sull'affidabilità dei critici di professione.

Che però anche Schubert fosse consapevole della novità e dell'arditezza nella concezione formale e tonale della sua grande Sinfonia, lo lascia intuire una lettera scritta il 31 marzo 1824 - dunque ancor prima di iniziarne la composizione - all'amico pittore Leopold Kupelwieser: "In fatto di Lieder non ho scritto granchè di nuovo; in compenso mi sono esercitato con numerosi lavori strumentali: ho composto due Quartetti e un Ottetto, e ho in mente di scrivere un altro Quartetto [alludeva ai tre ultimi Quartetti per archi in La minore, Re minore e Sol maggiore, quest'ultimo poi composto nel 1826, e al prodigioso Ottetto in Fa maggiore per archi e fiati, quasi un cartone di sinfonia]. Soprattutto voglio in questo modo prepararmi la strada verso la grande Sinfonia". Se si tien conto che la Nona Sinfonia di Beethoven, la "grande" sinfonia per antonomasia, era nata giusto fra il 1823 e il 1824, queste parole assumono un significato quasi profetico: non soltanto Schubert vedeva i lavori strumentali appena composti o progettati come una sorta di trampolino di lancio verso il cimento massimo della creazione di una sinfonia, ma intendeva questa meta, e la strada che vi conduceva, come un'ascesa verso le vette più alte dell'arte, nel rinnovato contatto con la forma più elevata, complessa e impegnativa che un musicista cresciuto nella venerazione per i classici potesse immaginare. La Sinfonia in Do maggiore è il risultato di questa aspirazione, la conseguenza di uno sblocco anche psicologico nei confronti della tradizione; raggiunto non sulla falsariga dell'imitazione di Beethoven ma con la lenta, caparbia riflessione sulle possibilità di una realizzazione linguistica e formale più ampia e articolata nei domini della musica strumentale pura.

La mediazione di Schumann è a questo punto decisiva. Egli colse per primo quel misto di fedeltà alla tradizione - i valori dello stile sinfonico classico - e di tensione romantica verso l'ampliamento e la trasformazione dei mezzi espressivi - la nuova distribuzione degli elementi melodici, ritmici e tonali nell'impianto formale - che contraddistingue questa Sinfonia come un unicum nella storia della sinfonia ottocentesca. E anche questa unicità non sfuggì all'occhio acuto di Schumann, fin dalla recensione apparsa sulla sua rivista, "Zeitschrift für Musik", per "l'apertura dell'anno 1840": "Chi non conosce la Sinfonia in Do maggiore conosce ben poco di Schubert; e questa lode può sembrare appena credibile se si pensa a tutto quello che Schubert ha già donato all'arte. Oltre a una magistrale tecnica della composizione musicale, qui c'è la vita in tutte le sue fibre, il colorito fino alla sfumatura più fine, v'è significato dappertutto, v'è la più acuta espressione del particolare e soprattutto infine v'è diffuso il romanticismo che già conosciamo in altre opere di Franz Schubert. E questa divina lunghezza della Sinfonia, questo sentimento di ricchezza profuso dovunque ricrea l'animo. [...] Questa Sinfonia ha dunque agito su di noi come nessuna ancora, dopo quella di Beethoven".

Divina lunghezza. Se Schumann avesse potuto sapere a quali fraintendimenti avrebbe portato quest'espressione peraltro felicissima, probabilmente l'avrebbe ritirata. Le estensioni per l'epoca amplissime e la stessa dimensione dell'organico, arricchito da ben tre tromboni, denotano già esteriormente la Sinfonia in Do maggiore come un'opera di proporzioni grandiose. Ma quel che più conta è che il grandioso e la lunghezza non nascano soltanto da una fecondità straordinaria di ispirazioni melodiche e da una vastità di intenzioni armoniche certo notevolissime, ma soprattutto racchiudano un'idea e una disciplina formale unitariamente e organicamente compiute da cima - la vasta e solenne Introduzione da cui germina la proposta tematica fondamentale - a fondo - la colossale costruzione in forma di sonata del Finale. Quest'idea s'apre la strada verso una concezione della forma tanto profondamente nuova quanto densamente significativa per i compositori successivi, e perfino nei versanti opposti di Brahms da un lato, di Bruckner dall'altro: al criterio beethoveniano di contrasto e sviluppo drammatico subentra qui il principio dello svolgimento ciclico basato sulle metamorfosi di un motivo elementare, che appare all'inizio intonato da due corni. E' questo motivo, una vera "idea originaria" lungamente inseguita da Schubert, a conferire unità a tutti i movimenti, trasformandosi e trasfigurandosi, nel tempo e nello spazio, attraverso apparizioni palesi o latenti: lo sentiamo risuonare, nel primo movimento "Allegro ma non troppo", dapprima nel possente richiamo di tromboni, poi nella Coda in forma di corale, e invece alleggerito nel secondo tema in Mi minore. Nell' "Andante con moto" si rispecchia nel basso, affidato a violoncelli e contrabbassi; ed è qui che il motivo dei corni intraprende nuove avventure: al lirismo di episodi teneramente imploranti si alternano, quasi come in un'antifona, le imperiose affermazioni dei fiati, lasciando però nuovamente spazio, nella parte centrale, alle effusioni gentili del dialogo fra oboe e violoncello, e a un passaggio in cui, come scrisse Schumann, "da remote distanze ci giunge il richiamo del corno, e tutto tace come se frammezzo all'orchestra si muovesse leggero un visitatore celeste".

Lo Scherzo ("Allegro vivace") è caratterizzato da una marcata energia ritmica, con la quale Schubert abbandona ormai del tutto le cadenze di danza e le movenze popolaresche che spesso, anche nelle grandi forme strumentali, avevano trovato in questi luoghi appartati espressioni relativamente serene e contemplative. Lo Scherzo è a suo modo un robusto ponte verso lo slancio fremente, spesso interrotto da brividi, del Finale: dove il tema iniziale è ripreso e dilatato fino all'ebbrezza dionisiaca, e il ritmo assume a tratti il furore di una danza macabra. La forma di sonata è forzata a limiti estremi, prima nella moltiplicazione degli episodi tematici, tra indugi, attese e nuovi, sempre più incisivi ritorni, poi, dopo un tentativo di coesione nella Ripresa, attraverso incandescenti accensioni, a cui si contrappongono gli ultimi ripensamenti della Coda, sublimi e nostalgici insieme. Il tripudio di suoni con cui la Sinfonia si conclude riattestandosi sull'iniziale Do maggiore non è più un gesto convenzionale, ma la consapevolezza della conquista e del coronamento di una meta, destinata a rimanere isolata.

Sergio Sablich


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium Parco della Musica, 27 novembre 2010
(2) Testo tratto dal Repertorio di musica sinfonica a cura di Piero Santi, Giunti Gruppo Editoriale, Firenze, 2001
(3) Testo tratto dal libretto inserito nel CD allegato al n. 178 della rivista Amadeus
(4) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Trieste,
Trieste, 20 settembre 1991


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Ultimo aggiornamento 23 novembre 2012