Manfred, op. 115

Poema drammatico in tre parti per soli, coro e orchestra

Musica: Robert Schumann (1810 - 1856)
Libretto: Richard Fohl (e F. W. Suckow), da George Byron

Ruoli: Organico: soprano, contralto, tenore, 5 bassi, 9 voci recitanti, coro misto, 2 flauti, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, organo, archi
Composizione: Dresda, 19 ottobre 1848 - 1851
Prima esecuzione: Weimar, Hoftheater, 13 giugno 1852
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia, 1853
Struttura musicale

  1. Ouverture - Rasch. Langsam (mi bemolle maggiore)
  2. Gesang der Geister: Dein Gebot zieht mich heraus - Langsam (sol diesis minore) - voce e orchestra
  3. Erscheinung eines Zauberbildes: O Gott, ist's so, wenn du nicht Wahnbild - Leidenschaftlich, innig (re maggiore) - voce e orchestra
  4. Geisterbannfluch: Wenn der Mond auf stiller Welle - Langsam, feierlich (do minore) - voce e orchestra
  5. Alpenkruhreigen: Horch, der Ton! - Nicht schnell (fa maggiore) - voce e orchestra
  6. Zwischenachtmusik - Massig (fa maggiore) - orchestra sola
  7. Rufung der Alpenfee: Du schoner Geist mit deinem Haar - Nicht schnell (la maggiore) - voce e orchestra
  8. Hymnus der Geister Ariman's: Heil unsrem Meister! - Majestatisch (re minore) - coro e orchestra
  9. Choeur: Wirf in den Staub dich - Mit Wuth (re minore) - coro e orchestra
  10. Choeur: Zermalmt den Wurm - Dasselbe Tempo (mi bemolle maggiore) - coro e orchestra
  11. Beschwörung der Astarte: Schatten! Geist! Was immer du seist - Langsam (mi bemolle maggiore) - voce e orchestra
  12. Manfred's Ansprache an Astarte: O höre, hör' mich. Astarte! - Langsam (mi maggiore - sol maggiore) - voce e orcehstra
  13. Ein Friede kam auf mich - Sehr langsam (do maggiore) - voce e orchestra
  14. Abschied von der Sonne - Langsam (la bemolle maggiore) - orchestra
  15. ... - Nicht schnell (sol minore) - orchestra
  16. Klostergesang: Requiem aeternam - Langsam (do minore) - voce e orchestra

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Schumann compose le musiche per il Manfred di Byron nel 1848, l'anno della sua opera Genoveva e di molte delle Szenen aus Goethes Faust. Sembra quasi che ci sia stato un ordine prestabilito, o un logico progetto nella vita artistica di Schumann, anche se la sua esistenza era insidiata dalla fragilità nervosa e poi, col tempo, da un disordine psichico di esaltazioni e di sempre più gravi disperazioni che gli consumarono la mente e il corpo e l'uccisero. E forse già, nell'epoca felice e produttiva, dal 1830 al 1850 circa, la ripartizione in anni diversi dei lavori dello stesso genere musicale era segno che l'esteriore sicurezza di decisioni nascondeva un'ansiosa prudenza nel cammino verso le forme estetiche complesse. Certo, le proporzioni estrinseche dell'opera d'arte e la complessità della sua organizzazione espressiva non accrescono solo per se stesse la sostanza artistica, sì che da quella sua prudenza il genio di Schumann, il suo acuto pensiero, il vigore morale (in lui più austero e deciso che nei suoi coetanei e grandi amici, Liszt, Chopin, l'amatissimo Mendelssohn: del difficile rapporto con Wagner, che suo amico non fu, diremo qualche cosa più avanti) non furono mai debilitati, ed egli creò, anno per anno, in ogni genere un suo capolavoro o molti capolavori: per il pianoforte dal 1830 al 1839, per la voce umana col pianoforte nel prodigioso anno 1840 (centotrentotto Lieder!), per l'orchestra nel 1841 (la Prima sinfonia in si bemolle maggiore e la sinfonia in re minore, che, pubblicata dieci anni dopo, sarà la Quarta), per i piccoli complessi da camera nel 1842. Infine, nel 1843 ci fu l'impegno maggiore fino a quel momento della vita, il grande oratorio profano Das Paradies und die Peri: Schumann l'aveva, dapprima, concepita per il teatro ma, come già in passato, scelse una sosta intermedia prima del passo verso la responsabilità più matura, anzi per lui la definitiva, cioè l'opera tedesca.

In un'esposizione così secca, l'elenco cronologico è poco più che uno scheletro di biografia, ma dimostra ciò che si è già detto: che Schumann mise gradualmente alla prova le sue energie creative per realizzare la grande forma della musica drammatica e vocale-corale. Che essa corrispondesse o no alla natura primaria del suo genio, è un dubbio che Schumann prima evitò e poi, dopo l'insuccesso della Genoveva, agitò dolorosamente dentro di sé tra sconforti, speranze e nuovi tentativi non scenici.

Con un eccesso di rigore Schumann giovane aveva preso partito per la musica pura condannando ogni tipo di commistione tra melodia e parola. Ma egli era un artista coltissimo, saturo di poesia e di emozioni poetiche: per quanto tempo i versi amati e venerati di Goethe, Schiller, Heine, Eichendorff, Chamisso potevano restare estranei alla sua musica? Come si è visto, quel tempo fu breve; e i Lieder del 1840 mutarono del tutto la disposizione di Schumann verso la parola cantata e verso l'espressione drammatica in musica. Questo lo sollecitò ad accorgersi dell'urgenza della questione, nazionale più che solo culturale, dell'opera tedesca (è appunto dell'autunno 1842 la sua celebre frase, riportata in tutte le biografie: «Sa Ella qual è la mia preghiera di artista, al mattino e alla sera? Si chiama "opera tedesca" e qui sta il nostro lavoro»). Era in quel decennio il problema centrale per i musicisti e, in genere, per gli intelletti in Germania, ma un problema tale che non trovava soluzione nelle singole capacità creative, quand'anche di un genio e che Schumann non potè risolvere, perché egli era istintivamente ostile a ogni eloquenza e dunque anche a quella che all'espressione teatrale è indispensabile. Negli anni in cui il sinfonismo tedesco aveva raggiunto il punto alto della sua evoluzione, nella tecnica strumentale e per la complessità espressiva, l'opera in Germania non era più una questione qualità di musicale, bensì di maturità drammaturgica e qundi di dinamica scenica e di eloquenza vocale, adeguate all'evoluzione del linguaggio strumentale. Lo comprese Wagner, al quale gli studi e le riflessioni chiarirono fino in fondo quelle difficoltà e i mezzi di superarle. Così, per esempio, quando a Dresda nel 1847 Wagner lesse il libretto che Schumann si era scritto per la Genoveva, vi colse immediatamente i difetti della disorganizzazione e della staticità, e propose al collega di collaborare per migliorarlo. Schumann, irritato, respinse l'offerta, e continuò per la sua strada, sbagliando. Schumann e Wagner non si intesero né in quell'occasione né poi; anche se la figura di Wagner, già allora così decisa e autorevole, contribuì a tener vive in Schumann l'attesa e l'ambizione emulativa di un risultato drammatico soddisfacente. Così si spiegano l'interesse e, con esso, l'ingenerosa diffidenza che Schumann dimostrò per il Fliegende Holländer e per il Tannhauser.

Ma perché per illustrare le musiche di Schumann al Manfred di Byron ci si dilunga sulla Genoveva, sul problema dell'opera tedesca, sui rapporti di Schumann con Wagner? Perché tutte le composizioni vocali e corali di Schumann dal 1847, perfino le ballate con solisti e cori degli ultimi anni della sua vita cosciente, sono cammini, deviazioni, accostamenti all'idea dell'opera; e il Manfred forse più degli altri lavori. Vedremo fra poco in che senso questa musica può dirsi surrogato di un'opera.

Per i suoi oratori e per le ballate narrative e drammatiche Schumann aveva adoperato testi della grande poesia tedesca, primi quelli di Goethe, che forniscono al lirismo musicale un impianto ideale in sé solido e un dinamismo di figure e sentimenti; oppure si era apprestato un tema fiabesco che da ogni dinamica poteva prescindere.

Ma perché scelse il Manfred di Byron, che non è né un poema, né un dramma, ne una favola, o è tutte queste cose mescolate e indistinte? È sicuro che questo testo non ha in sé, e non può prestare alla musica, un energico dispositivo di tipi, di eventi e di sviluppi, anzi esso ci appare oggi così enfatico, bizzarro, svagato da lasciarci interdetti. Perché, ripetiamo, Schumann lo scelse? Né fu il solo, allora e poi, a sentirsene preso. Le risposte alla nostra perplessità di oggi per la fama ottocentesca di Byron sarebbero molte e varie, delle quali due sono principali: l'autorità di Goethe, almeno per i paesi di lingua tedesca ma non solo per quelli, e la leggenda biografica del poeta eroe.

Sì, George Gordon sesto Lord di Byron, fu una leggenda, in vita e dopo la sua morte prematura da combattente per la libertà dei Greci. L'ideale romantico e decadente della vita estetica ed eroica egli lo incarnò per primo in Europa e con più audace provocazione di tutti coloro che per un secolo almeno lo imitarono. Byron era tutto e poteva fare tutto: era bello (a F. D. Guerrazzi, che non era davvero generoso, sembrò «un dio greco»), era atletico, era coraggioso, produceva poesie con torrenziale fecondità, girava il mondo, incantava i salotti, combatteva, seduceva in amori leciti e proibiti (questi, naturalmente, i più ostentati). Egli era tutti i suoi dannati eroi, frenetici e magniloquenti, e quegli eroi erano lui, sì che l'uno e gli altri si confusero nell'immaginazione dei lettori d'Europa, anche illustrissimi, tra i quali Goethe, Leopardi, Nietzsche. I documenti dell'interesse e dell'ammirazione, in verità non incondizionata, di Goethe per Byron sono numerosi nei diari, nelle lettere, nei colloqui (si vedano, recenti, E. M. Butler, Byron and Goethe: Analysis of a Passion, London 1956 e Lord Byron and His Contemporaries, a cura di Ch. E. Robinson, London e Toronto 1982): e forse lusingato di aver trovato nel Wunderkind, nel fanciullo prodigio, come egli chiamò Byron, un suo seguace e imitatore, Goethe espresse ammirazione per il Manfred, non solo nella celebre recensione del 1820 in «Kunst und Altertum» (poi nei Samtliche Werke, ed. in 15 volumi, vol. XIII, pp. 640-2, Stuttgart 1874: «La tragedia Manfred di Byron è per me un fenomeno meraviglioso che mi tocca molto da vicino...» e via su questo tono), ma anche in altre occasioni; e ne tradusse pagine (i versi «We are the fools of Time and Terror» nella recensione citata, in cui annota: «II monologo di Amleto qui ci sembra migliorato»; in seguito, tradusse anche l'incontro di Manfred e Astarte e il soliloquio iniziale; e in Germania circolarono presto versioni in tedesco delle opere complete di Byron, una pubblicata a Lipsia da A. Wagner già nel 1819 e una, a cura di un certo Adrian, pseudonimo, pubblicata a Francoforte nel 1837: ma Schumann si servì, per il Manfred, della traduzione di K. A. Suckow, un poco accorciata e mutata nella sequenza di due scene nel III atto).

Ciò che è duraturo di Byron e tuttora degno di attenzione e di ammirazione è il suo talento satirico, brillante e acre, senza pose né esagerazioni, come è nel bel poema Don Juan. Il resto, il byronismo vero, fu moda, anche se vi parteciparono spiriti incomparabilmente superiori a Byron (e come ogni moda di gusto, stile e di condotta sociale, quando è passato il suo tempo, essa sembra ai posteri inconsistente e anche ridicola). Sì che non è meraviglia che Schumann, ragazzo di 18 anni, si sia esaltato piangendo notti intere sulle pagine del Manfred, e dieci anni dopo, anche confortato dall'autorità di Goethe, sia tornato su quelle pagine, quando inseguiva l'ideale del teatro musicale tedesco. Egli sarà stato affascinato anche dagli spiriti satanici che circolano per tutto il poema, perché era attirato e turbato dall'occultismo e teneva sedute spiritiche, specialmente dal 1847, dopo la morte di Mendelssohn, con la cui anima egli continuò ad incontrarsi: il Manfred lo concluse esattamente un anno dopo quella perdita per lui irreparabile! E dalla serie uniforme di soliloqui, incubi, invettive che è il testo letterario di Byron, egli creò, con la musica, un esperimento di teatro, un monodramma fantastico e spettrale, con un personaggio vero e con i suoi dolorosi affetti. Non è un'opera, perché Schumann fu fin troppo rispettoso dei versi che egli intese solo accompagnare e illustrare e perché il protagonista non è creato nel canto; ma è quanto di più vicino egli abbia creato al tipo di dramma in musica, per la forza crescente del pathos, che ha un'ascesa di natura drammatica-teatrale, per la giusta intensità emotiva della scena centrale (l'apparizione di Astarte, di sublime lirismo, anche se concentrato in pochi minuti di musica), infine per la severità della catarsi finale, che manca nell'originale letterario e fu inventata da Schumann.

Un esperimento di dramma creato con la musica, si è appena detto, da un testo non drammatico: e un personaggio con una sua verità di angoscia, un personaggio che non canta e che, dunque, non ha vita musicale, ma assume un'inconfondibile fisionomia di eroe romantico dalla musica.

Infatti, già la magnifica ouverture, tutta dedicata a lui, ce lo presenta in un ritratto ideale indimenticabile. Questo brano, meritamente celebre, è un vero poema sinfonico, un Charakterbild lisztiano (cioè, la descrizione della psicologia di un personaggio, della sua fisionomia interiore ed esteriore) superiore, per concisione tematica e solidità costruttiva, a qualsiasi poema Liszt abbia scritto. Si inizia con tre rapidi accordi in contrattempo, che sono un gesto scenico, un passo affannato e deciso di qualcuno verso di noi: poi una mestissima melodia cromatica ascendente e discendente dei legni e dei violini secondi ci addita il suo aspetto, ci esprime i suoi pensieri desolati. Da quella melodia si enuclea il primo tema sinfonico, a disegno circolare e convulso, il tema dell'immagine-ricordo della sorella amante, Astarte. Dopo un'ampia e drammatica elaborazione del tema di Astarte è introdotto il secondo terna, sviluppato dal primo in un sottile sistema di affinità, e verrebbe da dire: consanguineità, fisionomica, negli intervalli e nella configurazione a circolo. Esso è un'idea, o un moto dell'anima che non sa, non può uscire fuori di sé e che si contrae ossessivamente in se stesso. E il tema di Manfred. Nel dinamismo drammatico di grande respiro e complessità i due temi (anzi tre, perché a Manfred è riferito anche un terzo breve tema, una cellula tematica che è poco più di un brivido) si confrontano tra loro e soprattutto con due motivi solenni, enunciati dagli ottoni, che esprimono il soprannaturale. Nella musica del poema la capacità costruttiva è ammirevole nel decorso delle idee e nella tensione dei contrasti, così come è complessa e precisa l'articolazione dei contenuti narrativi: il ricordo, il rimorso, la disperazione, la sfida, fino all'esaltato desiderio della fine; e con il compimento del desiderio, dopo un'ultima, evanescente apparizione del tema di Astarte, l'ouverture si conclude.

Seguono quindici episodi, dei quali uno, la splendida introduzione alla seconda parte, è solo sinfonico, gli altri sono corali e solistici (le apparizioni degli spiriti dei quattro elementi, i fantasmi, i dèmoni di Arimane) o sono melologhi (musica che accompagna la recitazione dell'attore protagonista). Tra questi episodi spiccano, per l'austerità della commozione, il vano incontro di Manfred col fantasma della sorella, che ho già ricordato, e l'addio al sole. In entrambi il ritegno espressivo e la castità dell'invenzione riscattano del tutto le esagerazioni verbali e immaginative dei versi, sì che ce ne resta un ricordo poetico perfettamente schumanniano e salvo da qualsiasi ombra di artificio.

Questa musica, in gran parte della quale egli aveva versato il meglio del suo genio, Schumann non l'ascoltò mai. Partito da Dùsseldorf con Clara per Weimar, dove Liszt avrebbe diretto la prima esecuzione il 13 giugno 1852, egli, aggredito dai suoi fantasmi interiori, travolto dall'angoscia e dalla disperazione, dovette interrompere il viaggio, né ebbe più occasione di incontrare sulla scena l'eroe che egli aveva tanto nobilitato.

Franco Serpa

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Afflitto da gravi crisi nervose e da una sorta di stanchezza interiore che lo opprime e gli impedisce di sfruttare serenamente le energie creative, Schumann si allontana da Lipsia, dopo quindici anni di intensa attività, e alla fine del 1844 si trasferisce a Dresda. Varie sono le circostanze all'origine di questo stato di smarrimento e di profonda depressione. Il dispiacere per il ritiro di Mendelssohn, amico fedele e stimato, dalla direzione del Gewandhaus; l'abbandono della rivista musicale diretta per dieci anni, dovuto all'incomprensione con i colleghi di lavoro e ad una progressiva perdita d'entusiasmo; le notevoli difficoltà finanziarie, se pure in parte mitigate da una fortunata tournée intrapresa in Russia con la moglie Clara; ma soprattutto la ricerca di prestigio e notorietà, che convince l'artista della necessità di evadere dall'ambiente lipsiense e di misurare altrove le sue capacità e le sue giustificate ambizioni. Fino a quel momento, infatti, la critica aveva sottovalutato la sua produzione musicale, considerandola semplice appendice all'attività di scrittore e letterato; né d'altro canto potevano bastare i consensi accordatigli da una ristretta élite di compositori (David, Bennett) che gravitavano intorno all'area, influente ma limitata, dello stesso Mendelssohn. Tuttavia, neanche a Dresda Schumann trova un terreno favorevole o, per lo meno, adatto ad appagare le sue esigenze; la vicinanza di Wagner non gli è di nessun aiuto e anzi si trasforma in vera e propria diffidenza, per un musicista che «non sa scrivere né pensare quattro battute correttamente». Irrequietezza ed insoddisfazione lo spingono a chiudersi in se stesso e a cercare un momentaneo conforto con lo studio delle grandi opere del passato: è il periodo delle composizioni in stile rigoroso e contrappuntistico, applicato nelle fughe per pianoforte ed organo. Una serie di viaggi a Vienna, Berlino e Praga — quest'ultima fu l'unica delle tre città a riservargli calorose accoglienze — interrompe provvisoriamente questa fase di accanita applicazione, ma non serve ad alleviare l'instabilità psichica di Schumann, che nell'aprile del 1847 è già di ritorno a Dresda. Desideroso di affrontare nuovi generi musicali, più vicini al suo particolare stato d'animo, l'artista trova un naturale approdo nelle forme sinfonico-corali, nell'oratorio e nella musica drammatica. In questa scelta, consapevole e ben definita, che presuppone l'accostamento a modi e strutture teatrali, s'inquadra la duplice finalità schumanniana: da un lato allargare gli interessi creativi e al tempo stesso valutare le proprie possibilità in un ambito in cui la musica, costretta a seguire ed assecondare la funzione espressiva delle parole, sia in grado di rispecchiare più fedelmente luci ed ombre dell'animo umano. Nasce cosi, in tre mesi (aprile-giugno 1847), lo schizzo integrale dell'opera «Genoveffa», prima affermazione del declamato melodico opposto ai moduli statici del recitativo; s'intensifica l'impegno per le «Faustzenen», già abbozzate nel 1843 ed elaborate dal dramma di Goethe, che in quel periodo è quasi una tappa d'obbligo per tutti i musicisti; inizia, nel 1848, la composizione del «Manfred», tratta dall'opera omonima di George Byron. Indubbiamente, il rinnovato fervore e la sorprendente concentrazione realizzativa che distinguono questo ciclo di lavori, furono alquanto favoriti dalle tematiche e dai contenuti del reportorio teatrale romantico: il tragico dibattersi delle passioni, l'angoscia del vivere quotidiano, l'essenza fortemente individualizzata di ogni personaggio. Tali spunti offrono a Schumann, nel momento più delicato e più intensamente sofferto della sua carriera, un ideale punto di riferimento che proprio nel «Manfred», rappresentazione simbolica dell'eterno contrasto tra il Bene e il Male, sfocerà in vera e propria conquista dei mezzi sonoro-espressivi, traducendo in esito concreto i crismi di una concezione in cui l'arte è più che mai legata all'esistenza terrena («Odio tutto ciò che non nasce da un intimo impulso di vita»).

Pubblicato nel 1817, il «Manfred» di Byron fu accolto positivamente, anche se una parte della critica intravide nell'opera richiami e suggestioni del «Faust» goethiano, oltre che una precisa analogia delle vicende del protagonista con quelle dell'autore, su cui gravava il sospetto di una relazione non ben accertata con la sorellastra Augusta Leigh. Il dramma è comunque una delle testimonianze più efficaci della poetica byroniana, che si definisce qui quale autentica indagine sui valori dell'io, esaltando nella figura principale il desiderio incontenibile di superare, sfidando qualsiasi imposizione, i limiti della propria condizione umana. In un castello isolato sulle Alpi, Manfred vive tormentato dal rimorso di un misterioso delitto da lui commesso. Grazie alle sue arti magiche, egli è in grado di comunicare con gli spiriti dell'universo, che tutto possono offrirgli tranne l'unica cosa che veramente desidera: l'oblio. Sconvolto, si dirige su un'alta montagna con l'intenzione di lanciarsi nel vuoto, ma viene salvato dall'intervento di un cacciatore; si rivolge allora, ma invano, alla Maga delle Alpi, rifiuta di sottomettersi alle forze del Male e ingiunge alle Parche di condurlo da Arimene, re degli spiriti infernali. A lui chiede di evocare la donna amata e poi «distrutta dal suo fatale abbraccio»: rispondendo alla sua invocazione, il fantasma di Astarte gli predice per il giorno seguente la soluzione alle pene che lo affliggono. Al momento stabilito i demoni appaiono, ma egli nega il loro potere, scacciandoli; poi muore, sotto gli occhi di un abate, accorso troppo tardi per redimere i peccati delia sua anima.

Byron aveva definito il suo lavoro come «qualcosa di selvaggio, di metafisico, di inesplicabile»: è facile quindi supporre che proprio queste caratteristiche abbiano attratto Schumann, stimolandolo alla realizzazione delle musiche di scena, composte nell'arco di tre anni (1848-1851) fino alla prima rappresentazione dell'opera, avvenuta al Teatro di Corte di Weimar il 13 giugno del 1852, sotto la direzione di Franz Liszt, generoso organizzatore dell'allestimento. L'essenza del dramma byroniano e l'ambiguo fluttuare in cui vagano le sensazioni del protagonista, stabiliscono un ideale collegamento con la visione schumanniana e, in particolare, con le tre tendenze che il compositore riconosce alla base della sua personalità, riflesse in altrettante figure immaginarie: Florestano audace e impulsivo, Eusebio timido e malinconico, e infine il Maestro Raro, espressione di un'esigenza razionale che prelude all'ordine interiore a alla perfezione. Cosi, nella storia di Manfred e nella diabolica cornice che lo vede agire, Schumann recepisce immediatamente motivi congeniali alla sua ispirazione e al suo travolgente impeto creativo. La fierezza ostinata e la dignità dell'eroe, la sprezzante solitudine, il contatto con le potenze invisibili, penetrano nella sensibilità del musicista sempre viva e pronta a cogliere un anelito di purificazione, anche se inevitabilmente minata da malesseri esistenziali: «Che cosa proprio sono, non so io stesso chiaramente... Non sono un pensatore profondo, non riesco mai a seguire conseguentemente il filo che ho ordito talvolta con abilità. Ho fantasia, credo, e questa non mi viene negata da nessuno». In virtù di questa 'fantasia', Schumann abbandona la veste letteraria ed esclude i compromessi intellettuali, affidando decisamente alla musica il compito di sintetizzare la multiforme varietà delle sue concezioni. L'impianto musicale del «Manfred», diviso in tre parti, si articola in una «Ouverture» e quindici pezzi, alternati alla recitazione in una sorta di commento descrittivo che segue coerentemente lo svolgersi degli eventi. Accanto all'orchestra acquista rilievo l'impiego dei cantanti solisti e del Coro: i primi impegnati nel dar risalto ad alcune 'entrate' dei singoli personaggi, il secondo utilizzato per quei momenti di tensione collettiva e di particolare effetto, richiesti dal dramma di Byron. NeII'«Ouverture», che assume un ruolo dominante, convergono gli elementi-chiave che Schumann estrae dal contesto dell'opera byroniana, per proporli come logico e indispensabile filo conduttore. Dopo una lenta introduzione, sostenuta da suggestivi spunti cromatici degli strumenti a fiato e destinata a creare un clima di attesa, i violini espongono in mi bemolle minore il tema di 'Manfred: il ritmo è affannoso e incalzante, favorito opportunamente dalle terzine e da un veemente sincopato, che esprime tutta l'ansia e l'inquietudine di un'anima oppressa dal rimorso. Subito dopo, senza ricorrere ad episodi di transizione, s'introduce il secondo tema, che rappresenta simbolicamente la figura di Astarte: sempre i violini ricamano un sottile e penetrante disegno melodico, basato ancora una volta sugli effetti del cromatismo, che con una catena di semitoni discendenti attenua il colorito espressivo, suggerendo una atmosfera di quiete e di serenità. Alie sfide di Manfred, ai fremiti ribelli della sua volontà, si contrappone il ricordo di Astarte, sfuggevole e misterioso, ma estremamente concreto nella sua funzione di catarsi spirituale. I due temi, quindi, non appaiono isolati: sono piuttosto il risultato di una mirabile forza di concentrazione espressiva e di una graduale compenetrazione, in cui consiste l'intero sviluppo dell'«Ouverture», che propone, senza soluzione di continuità, l'alternarsi delle due melodie, variate soltanto nella tonalità, ma intatte nelle loro figurazione iniziale. La conclusione, preparata da un progressivo sfumare e ritardare di tutti gli strumenti, è siglata da eteree risonanze del secondo tema, affidato a clarinetti e flauti, e da un ultimo, brevissimo accenno al primo tema da parte dei violini.

Dopo il brano d'apertura, Manfred chiama al suo cospetto i quattro geni della terra, dell'acqua, dell'aria e del fuoco (sette nella versione di Byron) che esauriscono rapidamente il loro canto; successivamente, come un'oasi di momentaneo sollievo, la melodia si distende con l'apparizione di uno degli spiriti sotto le vesti di una donna bellissima, che suscita in Manfred l'illusione della ritrovata pace interiore. Bruscamente l'immagine svanisce, per lasciar posto alla terribile invettiva del primo Spirito, commentata dai bassi del Coro con un canto-recitativo ben adeguato al momento drammatico. Il cambio di scena sulle vette della Jungfrau trova il protagonista assorto in un monologo di rassegnazione, mentre il corno inglese evoca una delicata aria pastorale, che sorge solitaria dai lunghi silenzi delle montagne, precedendo l'arrivo del cacciatore che dissuade Manfred dalle sue funeste intenzioni. Dopo la suggestiva parentesi dell'Intermezzo orchestrale, non privo di riferimenti tematici all'«Ouverture», la seconda parte si apre con l'«Apparizione della Maga delle Alpi», presentata dai violini che intrecciano un motivo costruito sulla rapida ascesa di otto note: la musica si protrae anche durante il dialogo con Manfred e tutta la scena costituisce uno degli esempi più efficaci di melòlogo, cioè quella forma teatrale basata sulla sovrapposizione dell'accompagnamento orchestrale alla lettura del testo poetico. Questo procedimento, che caratterizza le fasi più significative del «Manfred» schumanniano, culmina nell'«Evocazione di Astarte», preceduta da un solenne intervento di Coro e orchestra che introduce l'eroe nella dimora di Arimene, sovrano delle potenze infernali: un sottofondo leggerissimo di violini annuncia la presenza della donna, mentre Manfred implora da lei il perdono con frasi supplichevoli descritte da una melodia lenta e dolorosa, che dà opportuno rilievo ai toni accorati della declamazione. È grande l'abilità con cui Schumann riesce a mantenere integro il ruolo della parola, senza trascurare o sminuire la sua espressività, ma anzi associandola con equilibrio ai vari inserimenti musicali. Nella terza ed ultima parte, dopo l'Intermezzo e il lungo colloquio di Manfred con l'abate, la musica riflette le sensazioni del protagonista, che insegue con i pensieri una lontana e ormai perduta serenità. Infatti, quasi improvvisamente, due violenti e drammatici accordi materializzano la figura 'tetra e orribile', cioè lo spirito che simboleggia la Morte: brevi e impetuose, le entrate dell'orchestra sottolineano il rifiuto sdegnoso di Manfred e la sua estrema sfida al demone («Morirò come vissi: solo!»]. Poi tutto si placa nel Requiem finale, sostenuto dal Coro e pervaso di misticismo e purificazione: le ultime note richiamano il dolce tema di Astarte e fissano nella tonalità maggiore la conclusione dell'opera.

Piero Gargiulo


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia;
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 14 ottobre 1995
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino;
Firenze, Teatro Comunale, 13 luglio 1979


I testi riportati in questa pagina sono tratti, prevalentemente, da programmi di sala di concerti e sono di proprietà delle Istituzioni o degli Editori riportati in calce alle note.
Ogni successiva diffusione può essere fatta solo previa autorizzazione da richiedere direttamente agli aventi diritto.


Ultimo aggiornamento 16 novembre 2018