Sonata n. 1 in fa diesis minore per pianoforte, op. 11


Musica: Robert Schumann (1810 - 1856)
  1. Introduzione - Un poco Adagio. Allegro vivace (fa diesis minore)
  2. Aria (fa diesis minore)
  3. Scherzo e Intermezzo - Allegrissimo (fa diesis minore)
  4. Finale - Allegro un poco Maestoso (fa diesis minore)
Organico: pianoforte
Composizione: 1833 - Lipsia, 5 giugno 1836
Edizione: Kinster, Lipsia, 1836
Dedica: Clara Wieck
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

La composizione pianistica occupa quasi esclusivamente l'interesse del giovane Schumann. Per lui, come per Chopin, tutti i problemi che il romanticismo aveva aperto alla musica giungono al compositore attraverso la mediazione fisica e culturale del pianoforte. Che da mediatore di 'idee', quale era stato per Beethoven, diventa ora veicolo di relazioni, di comportamenti espressivi, nelle occasioni che la società borghese riserva al discorso della cultura, nei salotti per esempio. Così il grande tema compositivo della Sonata, trattato ancora da Schubert come un problema centrale della comunicazione musicale (ovvero della comunicazione di idee attraverso la musica), si fa con il giovane Schumann problema di distribuzione e coordinamento di situazioni espressive caratterialmente distinte e in larga misura autonome. Le ricorrenze 'cicliche' in opere come la Sonata in fa diesis minore op. 11 non ne cancellano la sostanziale rapsodicità, che non tanto è una nuova risposta al problema classico della Sonata, quanto piuttosto è un tentativo di aggirarne la problematica costruttiva mediante la sovrimpressione di un sigillo di organicità formale che l'opera nella sua effettiva composizione contraddice apertamente. Con il che non si vuole affatto negare alla Sonata in questione una sua propria organicità, ma solo affermarne l'indipendenza, se non addirittura l'opposizione, nei confronti dei modelli strutturali fissati dalla classicità in termini di dialettica discorsiva.

La stessa genesi della Sonata è sintomatica in questo senso: l'Allegro vivace, scritto nel 1832, era già stato pubblicato da Schumann come Fandango: Rhapsodie pour le Pianoforte op. 4. Il secondo movimento, Aria, è interamente basato su un Lied del 1827-29, An Anna. Lo stesso Lied ha inoltre fornito il materiale dell'Introduzione, aggiunta al primo tempo al momento del 'montaggio' della Sonata (1834-35). L'unità dell'insieme non è di tipo diverso da quella che miracolosamente tiene assieme le molteplicità divergenti di Papillons, del Carnaval, dei Davidsbündlertänze: unità della funzione espressiva, rifratta in una serie di momenti psicologico-musicali che una stessa distanza separa dal soggetto che li esprime.

E questa distanza ha un nome: ironia, e una specificazione storico-culturale ormai ovvia: romantica. La funzione espressiva, preminente nella musica occidentale almeno da Beethoven in poi, si colloca con Schumann entro l'ambito assegnatole dalla teorizzazione romantica, non è quindi direttamente riferibile a quel campo di esperienze ed emozioni soggettive cui l'autore sembra voler alludere. A proposito del Carnaval op. 9 (1835) per esempio, Schumann s'intrattiene più volte nelle sue lettere sulle occasioni autobiografiche cui sarebbero da riconnettersi i singoli pezzi della raccolta: Estrella sta per Ernestine von Fricken, Chiarina per Clara Wieck, la futura Clara Schumann, la coppia Eusebius-Florestan per Schumann stesso, il cui animo appare romanticamente scisso in due comportamenti complementari, dolce e sognante il primo, ardente e impetuoso il secondo. Anche l'origine di tutta la raccolta sarebbe del tutto accidentale: «Una delle mie conoscenze musicali - scrive Schumann in un articolo dedicato a Liszt - era originaria di una cittadina di nome Asch, e, poiché le stesse quattro lettere si trovano anche nel mio nome, mi è venuta l'idea di prenderle come spunto per una serie di brevi pezzi, allo stesso modo come Bach si è servito del suo proprio nome». (La «conoscenza musicale» era Ernestine, di cui nel 1834 Schumann aveva pensato di chiedere la mano). E a Moscheles dichiara: «il tutto non ha forse grande valore artistico, ma può offrire un certo interesse per la varietà delle rappresentazioni immaginative che vi sono caratterizzate».

Quest'ultima affermazione - d'una modestia eccessiva, come giustamente rileva Cortot, e presto smentita dall'enorme successo del Carnaval presso il pubblico e i pianisti - contiene tuttavia un significativo accenno al fondamento tecnico-comunicativo dell'opera: la varietà delle rappresentazioni immaginative, tutte occupanti lo spazio culturale (non soggettivo quindi) aperto dall'ironia romantica, e da tale spazio (non quindi da leggi interne alla musica) unificate nella loro funzione espressiva. In questo senso, nel senso cioè in cui la musica romantica tende a crearsi una sua area espressiva entro la comune prospettiva estetico-letteraria offerta dalla cultura borghese, è ancora oggi difendibile la tesi secondo cui la musica occidentale avrebbe raggiunto il suo culmine evolutivo nel periodo classico romantico, non solo e non tanto per il 'valore' estetico delle opere, quanto per la posizione centrale assunta dalla musica nel discorso culturale europeo (musica che si fa filosofia, poesia, Gesamtkunstwerk). La nuova collocazione ha del resto profondamente modificato le strutture interne dell'espressione musicale. Già il classicismo beethoveniano differisce radicalmente da quello di Haydn e Mozart per i suoi nuovi rapporti con la coscienza storica e con la tecnica di sviluppo dell'idea. Schubert sta a Beethoven un po' come Schopenhauer sta a Hegel e Mendelssohn non è senza rapporti con il boom della filologia; la categoria herderiano-schlegeliana del 'popolare' invade la musica non meno della letteratura; lo sviluppo autonomo della dimensione armonica è analizzatile in termini di oggettivazione del soggettivo ovvero di razionalizzazione dell'irrazionale, cioè con una terminologia coniata per lo studio analitico della cultura borghese. Così molti aspetti della scrittura schumanniana, in particolare di quella pianistica, sono attribuibili all'induzione del coevo pensiero critico-filosofico: la polifonia 'virtuale' per esempio, o il 'disturbo' delle armonie fondamentali per intersezione con il piano armonico fittizio creato dalle alterazioni, o ancora la melodia ellittica e allusiva, lo spiazzamento degli accenti ritmici sui tempi deboli ecc. - tutto ciò è una proiezione simbolica dell''intervallo' ironico istituito dal pensiero romantico tra convinzione linguistica, soggetto esprimente e testo. Schumann, almeno lo Schumann di questi anni, che quello di poi subirà altre pressioni culturali, non compone più direttamente nella lingua musicale corrente, ma compone in un certo senso su quella lingua: non tanto l'esplorazione estensiva del sistema tonale lo interessa quanto la sottile e corrosiva violenza all'usuale, la vertigine della convenzione sospesa, la voluttà di una fuggevole 'assenza'. Questo modo di intendere e di praticare la composizione musicale trova il suo alveo formale nello schema della sequenza formalmente irrelata - che tale resta nonostante l'intervento unificatore di un ASCH, di un tema da variare o di un motivo-ricordo. Meno congeniale l'alveo offerto dalla forma sonata, che infatti viene usata da Schumann con felice irriverenza. Così anche l'ascolto di un'opera come la Sonata in fa diesis minore ha da essere schumanniano e non p. es. beethoveniano. L'orecchio che le si addice è lo stesso - capace di inseguire le poetiche distrazioni del Carnaval - che da Schumann in poi distingue gli uomini nuovi dai Filistei.

Boris Porena

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

La prima sonata (Grosse Sonate in fa diesis minore op. 11) è stata composta fra il 1834 e il '35. È dedicata «alla signorina Clara Wieck», che ne fu mirabile interprete. Si svolge in quattro movimenti, un Allegro vivace preceduto da una introduzione (Un poco adagio), un'Aria, uno Scherzo ed Intermezzo (Allegrissimo), un Finale (Allegro quasi maestoso). L'ossequio alle forme della tradizione è in questo giovanile lavoro di assoluta devozione, ma, sulle orme degli adorati modelli letterari, Hoffmann e Jean Paul (gli «uomini venuti dalla luna») l'invenzione scantina ad ogni passo verso zone di un irrelato fantasticare, inseguendo miraggi di immediatezza espressiva, o addirittura il pulsare del vitale: una indicazione dello Scherzo è preziosa: «bassi vivi». È una premessa a Berg.

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Scrivere una sonata per pianoforte, a metà degli anni Trenta del secolo scorso, non doveva essere una cosa facile: c'era un'eredità molto pesante, quella di Beethoven, con cui fare i conti; e c'era nel contempo un pensiero musicale, ormai pienamente romantico, che non si ritrovava per nulla a suo agio nell'architettura, nella logica costruttiva di quella forma. Per chi come Schumann cercava di affermarsi come compositore pianistico, d'altra parte, il lavoro di ampie dimensioni, e la sonata in modo particolare, erano una tappa assolutamente obbligata.

Quel che sappiamo della genesi della prima Sonata pianistica schumanniana non fa che confermarci la constatazione da cui siamo partiti: Schumann impiegò quasi due anni per la composizione del lavoro (e un anno abbondante gli richiedettero anche la sua seconda e la terza Sonata, di poco successive). Il primo nucleo dell'opera, in effetti, andrebbe cercato in un Lied (Ad Anna) scritto nel 1828, e appartenente a una raccolta di dodici melodie dedicate alle sue tre cognate; la composizione vera e propria della Sonata iniziò invece nel 1833, e si protrasse sino al 1835. La Sonata venne poi pubblicata a Lipsia nel 1836, con la firma «Florestano ed Eusebio»: una firma che ci riporta al mondo fantastico ideato da Schumann per le discussioni estetico-musicali della sua rivista, dove Florestano rappresentava la natura fantastica e ardente della sua personalità, ed Eusebio quella contemplativa e sognante; ma una firma, anche, che per il fatto stesso di comprendere entrambi i personaggi non si poneva come un distanzia mento dell'autore dall'opera, bensi come una completa e totale sottoscrizione di paternità da parte di Schumann.

Non poteva essere altrimenti, d'altro canto: se scrivere una sonata rappresentava per Schumann una scommessa, questa Sonata op. 11 è indubbiamente una scommessa vinta. Ma non vinta piegando la propria personalità agli equilibri precostituiti della forma, rinunciando al proprio mondo poetico-musicale per adattarsi ai principi costruttivi del periodo classico o di Beethoven; vinta, invece, «reinventando» dall'interno quella stessa forma, ricostruendo un nuovo equilibrio architettonico capace di dare unitarietà e solidità strutturale al proprio mondo espressivo.

Va detto, tra l'altro, che proprio questo aspetto di reinvenzione formale, che pone la Sonata tra le realizzazioni più alte del compositore di Zwickau, è rimasto per lungo tempo totalmente incompreso. Ancora agli inizi degli anni Sessanta del nostro secolo, ad esempio, Carlo Zecchi così scriveva nella presentazione di una delle più diffuse edizioni didattiche italiane della composizione:

«... Da tale laborioso processo creativo risulta che Schumann non era proprio naturalmente predisposto a un tale genere di composizioni di vaste proporzioni architettoniche e come egli si sforzasse di trovare la sua propria strada e di risolvere i problemi che ad esse composizioni sono legati, attraverso episodi di alto interesse pianistico e di originale contenuto lirico o drammatico. Ma se egli trovò difficoltà a mantenersi nella forma e nei limiti dei suoi grandi predecessori, ha mostrato una straordinaria originalità inventiva nella scelta e nello sviluppo dei temi,... ha insomma supplito col profondo contenuto lirico del suo genio inventivo e coll'interesse pianistico a quella che potrebbe sembrare una deficienza nel piano architettonico».

Come dire: la forma non è un gran che, ma c'è della musica così bella...

Proveremo a scoprire insieme, ascoltando, che le cose stanno in tutt'altro modo: e se non potremo andare a fondo di certi aspetti costruttivi (che richiederebbero da parte di chi ci legge una competenza approfondita delle leggi strutturali dell'armonia tonale, e uno studio dettagliato della composizione anche sulla carta, oltre che attraverso l'ascolto), potremo perlomeno intuire che non si tratta affatto di «deficienza nel piano architettonico», ma di costruzione di un piano architettonico del tutto nuovo e differente.

Il primo tempo della Sonata inizia con un'Introduzione (Un poco adagio): un arpeggio in posizione allargata martellato nel forte dalla mano sinistra, al quale la destra sovrappone una melodia che assume toni eroico-drammatici grazie agli scatti nervosissimi che precedono ognuna delle lunghe note da cui essa è costituita. Dopo un po' la situazione sonora viene rovesciata: l'arpeggio passa alla destra, ed è la mano sinistra a eseguire la melodia eroica con le sue «zampate felinesche», conducendo nel contempo l'Introduzione verso la tonalità di la maggiore (il relativo maggiore rispetto al fa diesis minore con cui era incominciata). A questo punto avviene un mutamento assolutamente sorprendente: il fortissimo cui si era nel frattempo arrivati si trasforma in un delicatissimo, e sull'arpeggio della sinistra emerge nella destra una melodia di straordinario lirismo, dalle caratteristiche di tenera cantabilità vocale (si tratta, in effetti, proprio di quel Lied Ad Anna cui si era accennato più sopra). Continuano nel grave, al di sotto dell'arpeggio della sinistra, le «zampate» che ci riportano al clima dell'inizio; ma la nuova melodia prosegue nonostante quelle, crescendo di intensità e persino aumentando la sua carica di tensione lirico-espressiva, per arrivare infine a una conclusione che, grazie all'armonia su cui va a collocarsi (la dominante di fa diesis minore), prepara il ritorno del tema iniziale.

Si ripete dunque la prima parte, e l'Introduzione si conclude con un crescendo e un accelerando sulla ripetizione quasi parossistica dell'arpeggio, eseguito da entrambe le mani.

Descritta in questi termini l'Introduzione che abbiamo appena ascoltato non sembrerebbe possedere caratteri di grande originalità formale, ma soltanto una forte carica lirico-espressiva, che in effetti colpisce e affascina sin dal primo ascolto: non si tratta certo della prima sonata che si apre con un'Introduzione, né della prima Introduzione strutturata sulla presenza di due temi diversi, secondo lo schema ABA (o forse meglio, AA'BA). Ma attenzione: innanzitutto la melodia non è affatto un secondo tema, un'alternativa al primo, ma «emerge» al di sopra dello stesso tessuto di arpeggi che era presente sin dall'inizio, e si fa largo tra le «zampate» che continuano a essere presenti, quasi come se si trattasse dell'affiorare di un ricordo; e l'Introduzione nel suo insieme, cosa questa ancor più importante, a ben vedere ... non introduce affatto il primo tema, ma semplicemente lo precede. Secondo la «normale» logica costruttiva della forma-sonata, infatti, un'Introduzione ha senso in quanto prepara, porta alla comparsa di qualcosa, crea una tensione che la comparsa di quel qualcosa risolve. L'Introduzione di Schumann, invece, si conclude in modo autonomo, come un pezzo chiuso e a sé stante.

L'Allegro vivace era stato inizialmente concepito come un Fandango, una sorta di folle danza orgiastica nella quale alcuni commentatori hanno creduto di vedere l'appassionato Florestano e Clara, futura moglie di Schumann e dedicataria della Sonata. Dopo un breve rimbalzare su un intervallo di quinta nel grave (che si ricollega, anche se un po' alla lontana, alle «zampate» dell'Introduzione), il primo tema vero e proprio della Sonata inizia con il suo caratteristico ritmo di cavalcata (papapàm, papapàm, papapàm, pam), rimbalzando continuamente tra mano destra e sinistra in un intreccio quasi contrappuntistico e spostandosi progressivamente in su e in giù nello spazio sonoro, per poi «incantarsi» nella ripetizione di uno stesso frammento e quindi ricominciare come all'inizio. Tutto l'episodio si ripete quindi per due volte (la prima piano e staccatissimo, la seconda fortissimo), finché al di sopra dell'incessante «papapàm» emerge uno spunto più melodico e continuo, che porta la cavalcata ad arenarsi su una corona di sospensione, come in bilico sull'orlo di un precipizio. Qui inizia il secondo tema, nella lontanissima tonalità di mi bemolle minore: ritmicamente, se non melodicamente, è simile al primo, ma grazie a una serie di sforzati e alla collocazione ritmica dei bassi suona alle nostre orecchie come «pàpapam» (anziché «papapàm»), e si infittisce poi ulteriormente alla sua ripetizione, trasformandosi in una sorta di fibrillazione ritmica. La «fibrillazione» si interrompe di netto e ricompare lo spunto del primo tema, piano e più lento, ripetuto alcune volte trascinandolo nello spazio per riavvicinarsi alla tonalità di partenza, o meglio al suo relativo maggiore e cioè la maggiore. Ed ecco dunque un'ultima ricomparsa del primo tema, in la maggiore e in una nitida e rilucente scrittura accordale, privato di tutti gli intrecci contrappuntistici con il quale l'avevamo conosciuto. Il tema si calma e si spegne a poco a poco, sull'ostinata ripetizione del «papapàm» della cavalcata, e lascia quindi lo spazio a un terzo tema conclusivo, dalle caratteristiche di ampia cantabilità melodica e di riposante e serena tranquillità. Qui termina l'Esposizione, con gli stessi rimbalzi nel grave con cui era incominciata (anche se ora sono in la maggiore anziché in fa diesis minore). E l'Esposizione, secondo le regole classiche della forma-sonata, viene ritornellata, e cioè ripetuta integralmente.

Un'Esposizione, a ben vedere, che si comporta proprio come abbiamo visto fare l'Introduzione: rispetta cioè le «regole», ma insieme le stravolge, le piega a un progetto compositivo diverso. Nella sonata classica (e anche in quella beethoveniana) c'è opposizione, contrapposizione tra primo e secondo tema: ed è proprio questo contrasto (tematico in senso stretto, oppure semplicemente armonico, e cioè contrapposizione di tonalità) che crea la tensione costruttiva, la spinta a «risolvere» che realizza l'architettura del brano. Qui non c'è nulla di tutto questo: il secondo tema non è scritto in una tonalità contrastante con il primo, ma in una tonalità lontanissima, che crea un senso di distanza più che di opposizione; e alle nostre orecchie suona come una sorta di climax, di punto culminante del parossismo ritmico che abbiamo visto crescere sin dall'inizio. E il terzo tema, anziché essere una riconferma della tonalità contrastante, stabilita dal secondo tema, appare invece come lo stadio conclusivo di un discorso unitario, l'approdo a cui tendeva la «cavalcata» sin dalle prime battute.

È chiaro che ci troviamo all'interno di una logica costruttiva completamente differente da quella del periodo classico e beethoveniano, anche se ci mancano ancora molti elementi per capirne i presupposti. Di una logica, comunque, si tratta, perché se così non fosse non potremmo certo avvertire all'ascolto quel senso di ferrea consequenzialità che indubbiamente quest'Esposizione ci comunica.

All'Esposizione segue lo Sviluppo, nel quale a farla da padrone è naturalmente il primo tema, col suo ritmo ossessivo; ma Schumann dà ampio spazio anche allo spunto di apertura melodica che avevamo conosciuto, e ai rimbalzi di quinta dell'inizio. Ricompare anche il secondo tema, ma viene subito reinglobato nel flusso ritmico generale. Dopo un piano nel quale l'agitazione sembra quasi spegnersi per naturale esaurimento, la tensione ricomincia ancora una volta a crescere, mentre la destra intensifica il suo movimento ritmico trasformandolo in un arpeggio continuo. A questo punto ricompare nella mano sinistra, al di sotto dell'arpeggio continuo della destra, il primo tema dell'Introduzione, quello dello «zampate». È un effetto di grossa sorpresa, come una secca cesura che interrompe inopinatamente lo Sviluppo. Ma la sorpresa è forse ancora maggiore subito dopo, quando lo Sviluppo riprende esattamente come all'inizio, soltanto trasponendo il tutto un tono sopra: come se l'intero Sviluppo fosse una gigantesca progressione, interrotta a metà dalla ricomparsa del tema dell'Introduzione.

La Ripresa non contiene sorprese e si svolge prevalentemente secondo le «regole», con i mutamenti di tonalità più o meno consueti: dopo il primo tema in fa diesis minore, infatti, il secondo ricompare in do diesis minore, e il terzo ancora in fa diesis.

Una nuova sorpresa ci attende invece con il secondo movimento, l'Aria. Una sorpresa innanzitutto per la tonalità, per lo meno per chi è abituato a cogliere queste sensazioni: il movimento lento inizia infatti in la maggiore, e cioè non in una tonalità contrastante con il fa diesis minore con cui si era chiuso il primo movimento, ma esattamente con la sua relativa maggiore. E un'altra sorpresa ci attende quando ci rendiamo conto che il tema dell'Aria altro non è che quella straordinaria melodia che avevamo udito a metà dell'Introduzione. Il clima, ovviamente, è tutt'altro: non c'è più l'agitazione dell'arpeggio, dal quale la melodia emergeva nell'Introduzione, bensi un accompagnamento ad accordi ribattuti capace di dar corpo e contemporaneamente leggerezza alla linea melodica. Mancano, ovviamente, le impennate ritmiche, le «zampate» di cui la melodia portava le tracce nell'Introduzione: qui esse risultano morbidamente appianate, e ne resta soltanto un'eco lontana nei salti di quinta discendente al di sotto dell'accompagnamento, ora eseguiti però pianissimo e con un ritmo meno serrato.

Al movimento lento fa seguito lo Scherzo e Intermezzo, nel quale si combinano una grande inventiva nella scrittura pianistica, una trascinante vivacità ritmica e una sottile perizia contrappuntistica (si noti ad esempio proprio lo spunto iniziale, dove l'entrata della destra è insieme accompagnamento e ripresa «a canone» dell'attacco della sinistra). Lo Scherzo possiede due Trii: il primo (Più allegro) è basato su una melodia legatissimo che si staglia nella zona centrale della tastiera, al di sopra e al di sotto di una serie di staccati, creando l'effetto di una «terza mano»; dopo la ripresa della sezione principale dello Scherzo compare invece il secondo Trio, che Schumann ha battezzato Intermezzo. «Alla burla ma pomposo», scriveva Cortot di questo episodio, e non possiamo non essere d'accordo con lui: c'è infatti qualcosa di fortemente ironico in questo Intermezzo, ma anche una spiccata regalità «alla francese», ed entrambe si combinano per creare una pagina assolutamente unica, di quelle che rimangono impresse nella memoria sin dal primo ascolto.

Dopo l'Intermezzo sarebbe logico attendersi un ultimo ritorno dello Scherzo; ma ancora una volta Schumann gioca di contropiede e fa precedere il ritorno dello Scherzo da un... recitativo, un vero e proprio recitativo d'opera con tanto di frasi ritmicamente spezzate, punteggiate dagli accordi dell'orchestra. Non manca nemmeno lo strumento obbligato: «Quasi Oboe» scrive infatti Schumann verso la metà del passaggio, in corrispondenza dell'ampio salto di settima discendente seguito da una scala ascendente. Il recitativo si conclude poi con un ampio arpeggio ascendente eseguito a due mani, e lascia spazio all'ultima e conclusiva ricomparsa dello Scherzo.

La forma dell'ultimo movimento, il Finale, è quella che viene solitamente chiamata rondò-sonata: come dice la parola stessa si tratta di una struttura intermedia tra il rondò (ritorno di uno stesso tema inframmezzato da differenti sezioni alternative) e la vera e propria forma-sonata basata sul contrasto di due temi. In questo caso, più in particolare, si tratta di un rondò-sonata privo della sezione centrale di Sviluppo.

Il primo tema, regale e maestoso nella sua ampia ascesa melodica, va da fa diesis minore a la maggiore. A esso fa seguito un tema di transizione, che ha il sapore di una «sigla di stacco», e che inizia in la minore per concludere in mi bemolle maggiore. E in mi bemolle maggiore troviamo ora un gruppo di temi, che costituisce la prima «alternativa» prevista dalla forma del rondò: un tema che riprende il ritmo zoppicante trasformandolo in senso melodico, un breve spunto di carattere decisamente melodico-cantabile, e quindi una variante del tema zoppicante. A questo punto ricompare il tema principale, che va ora da do minore a mi bemolle maggiore.

Chi avesse un po' di pratica dell'armonia tonale, e avesse seguito con attenzione il percorso tra le diverse tonalità compiuto sin qui da Schumann, a questo punto dovrebbe già essere inorridito. Il rapporto tra fa diesis minore e do minore (le due tonalità in cui compare il tema), cosi come il rapporto fra la maggiore e mi bemolle maggiore (le tonalità a cui le due presentazioni del tema vanno ad approdare), è infatti un rapporto di «tritono», e cioè quella distanza di tre toni interi che fin dagli albori della musica occidentale è stata battezzata con il nome di «diabolus in musica», e accuratamente evitata in quanto radicalmente inconciliabile con qualsiasi equilibrio tonale. Ma è proprio questo il rapporto tonale che Schumann mette alla base della sua composizione, e non solo in questo passaggio, ma in tutta la grande architettura di questo Finale: e a un livello di coerenza che ne esclude nel modo più assoluto un'origine casuale.

Di nuovo, come all'inizio, il tema di transizione ci porta verso il gruppo di temi che avevamo già ascoltato, ma che si ripresentano ora con piccole varianti e soprattutto in nuove tonalità, riportandoci nella direzione di la maggiore. Compare a questo punto un nuovo gruppo di temi: un breve episodio ad accordi staccati, un ampio disegno dei bassi accompagnato da ribattuti della mano destra, un concatenarsi di arpeggi tra mano sinistra e mano destra, una modificazione di quest'ultimo che lascia emergere un disegno melodico nella parte superiore, e infine un semplicissimo procedere melodico sostenuto da accordi quasi organistici nella mano sinistra.

A questo punto un episodio di transizione prepara con sapienti anticipazioni e con un crescendo dal piano al fortissimo l'inizio della Ripresa, che si ripresenta del tutto identica all'Esposizione, salvo la diversità dei percorsi tonali. Alla fine della Ripresa, il corrispondente dell'episodio di transizione che avevamo già ascoltato porta a un'ultima presentazione del tema principale (siamo questa volta in re diesis minore), e quindi alla brillante Coda conclusiva che porta a termine la Sonata nella tonalità di fa diesis maggiore.

Resta, a questo punto, da chiedersi il perché di tutte queste «anomalie» strutturali, e se sia possibile ricondurle a un insieme di principi unitari e coerenti. Come già prima dicevamo si tratta di un discorso molto complesso, ma possiamo comunque cercare di intuire una risposta, la logica costruttiva del periodo classico, e ancora di Beethoven, si fondava sull'opposizione, sul contrasto, ma soprattutto sulla risoluzione del contrasto: la sonata altro non era che il teatro dove si metteva in scena quest'opposizione, e si celebrava il rito del suo superamento. Per Schumann tutto ciò non ha più senso: il contrasto non va superato, ma accettato; tra i diversi aspetti della realtà non c'è una dialettica che debba portare sempre e comunque a un vincitore. Ecco allora che una grande struttura musicale può fondarsi sul contrario stesso della dialettica tra dominante e tonica, e cioè sul rapporto di tritono; ecco che l'opposizione tra relativo maggiore e relativo minore può trasformarsi nell'equivalenza, nell'interscambiabilità tra minore e maggiore; ecco che le diverse parti di una composizione non debbono per forza coordinarsi gerarchicamente, ma possono anche accostarsi, o sovrapporsi. Ecco perché la Sonata non è firmata da Robert Schumann, ma da un'endiadi, Florestano ed Eusebio.

Franco Sgrignoli


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia;
Roma, Sala Accademica di via dei Greci, 8 febbraio 1974
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 17 febbraio 1972
(3) Testo tratto dal libretto inserito nel CD allegato al n. 78 della rivista Amadeus


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Ultimo aggiornamento 21 febbraio 2017