Concerto n. 2 in do diesis minore per violino e orchestra, op. 129


Musica: Dmitri Shostakovich (1906 - 1975)
  1. Moderato
  2. Adagio
  3. Adagio – Allegro
Organico: violino solista, ottavino, flauto, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, controfagotto, timpani, tom-tom, archi
Composizione: Repino, 18 maggio 1967
Prima esecuzione: Mosca, Sala grande del Conservatorio, 26 ottobre 1967
Dedica: David Fyodorovich Oistrakh
Guida all'ascolto (nota 1)

Nel 1955 cioè a distanza di più di venti anni dal «Concerto per pianoforte e orchestra» Dimitri Sciostakovic affidava a David Oistrach l'esecuzione di un nuovo Concerto per solista e orchestra - stavolta naturalmente si trattava del violino - che venne presentato con grande successo prima a Leningrado e poi a New York. Ora distanza di 12 anni il fecondo compositore sovietico si è riavvicinato al genere con il Concerto che si esegue stasera, scritto ancora una volta per David Oistrach ed eseguito dallo stesso violinista, oltre che in patria, per la prima volta a Londra lo scorso novembre.

Tutti conoscono in qualche modo la parabola, creatìva del musicista sovietico e il dibattito critico cui ogni sua opera dà luogo. Artisticamente, formandosi nel clima incandescente dei primi anni postrivoluzionari, Sciostakovic trovò infatti presto il suo posto nel seno delle correnti rinnovatoci della cultura sovietica, ponendo il suo indubbio talento musicale alla ricerca di nuove strade, delle quali sono vìva testimonianza le opere «Lady Macbeth di Mtsensk» e «Il naso» oltre alle opere strumentali di quello stesso periodo tra le quali fanno spicco le prime quattro «Sinfonie». Sono anche note le critiche cui presto la sua opera fu sottoposta da parte dei massimi dirigenti politici del suo paese che lesserò in chiave «formalistica» l'aspra ironia che pervadeva quelle sue prove di compositore. E furono critiche cui presto seguì la decisione di togliere dai cartelloni dei teatri e dalle sale di concerto dellUrss le opere bollate pubblicamente di quel giudizio, una decisione che dette luogo a qualche ripensamento solo dopo le decisioni di quel XX Congresso del partito comunista sovietico che aprì il processo al cosiddetto «culto della personalità». Ma questi avvenimenti fanno ancora parte della cronaca, dietro la quale sta la storia, sconosciuta, delle reazioni intime del musicista alle critiche - di cui può fornire una traccia la decisione di Sciostakovic dì non affrontare più il teatro e la struggente ironia della Quinta Sinfonia composta subito dopo il richiamo ufficiale - e quella, invece assai nota, della sua acccttazione delle critiche rivoltegli contenuta stavolta nelle sue opere posteriori caratterizzate dal rifiuto programmatico di ogni novità linguistica - sarebbe assai interessante anche se qui fuor di luogo soffermarsi sul suo cammino ai margini estremi della tonalità e quindi sul suo contributo al divenire del linguaggio musicale nel corso degli ultimi trent'anni - dal recupero della grande tradizione sinfonica russa ed occidentale, dall'intento celebrativo di molte sue composizioni dal contenuto «positivo» della sua musica intesa - ma anche qui occorrerebbe stabilire quanto vi sia di storicamente positivo nel rapporto dialettico che presto ebbe ad instaurarsi tra il contenuto ottimistico della sua musica e quello spesso aprioristicamente negatorio di tanta estrema musica contemporanea - non tanto a descrivere i drammi dell'uomo contemporaneo quanto ad affermarne le positive speranze, la sua funzione determinante nella conquista di un meno aleatorio futuro; od anche a porre in evidenza il carattere positivamente nuovo di quella parte dell'umanità impegnata a costruire una società come quella sovietica ( e qui sarebbe però necessario sottolineare il limite di una visione del mondo che sembra mancare di ogni reale dialettica negando perfino i drammi individuali e collettivi che non hanno mancato di punteggiare la stessa costruzione di quella società).

Approdo ideale di questa visione direttamente «politica» della musica e della sua funzione, dei limiti aprioristici di ogni possibile ricerca linguistica ed anche prova della sincerità con la quale Sciostakovic accettò le ormai lontane critiche alla sua musica giovanile, è uno scritto apparso nel 1962 sulla rivista Sovietskaia Kultura con il titolo: «Vie verso l'alta musica del comunismo» nel quale pur riconoscendo che « ...un grave danno è derivato all'arte, compresa quella musicale, dal culto della personalità di Stalin... » respinge il principio stesso di ogni rinnovamento linguistico al di fuori della tonalità condannando «... il grigio dogma di Schoenberg...» ed invitando « ...i giovani compositori, così come i musicisti della generazione più anziana... » a conoscere « ...le correnti che sono di moda nella musica contemporanea nei paesi stranieri per poter combattere contro le loro illusorie tentazioni... ». Il centro dell'articolo era costituto da un fermo richiamo alla continuità della tradizione «anello indissolubile nel processo dialettico dello sviluppo dell'arte» che concludeva con queste parole: «...occorre trovare mezzi di espressione che siano più chiari, più efficienti di quelli vecchi; occorre sperimentare senza distaccarsi dalla vita, cercando le vie più brevi per giungerà al cuore del popolo. La cosa più ovvia è quella di non impiegare la propria energia di compositori nella ricerca di accordi «scarabocchiati» ultramoderni mai prima sentiti. Non occorre una grande ispirazione per mettere insieme per forza un certo numero di righe senza contrappunto tra loro!...». E prima aveva richiamato con forza i lettori del suo scritto a respingere la teoria secondo la quale la musica russa avrebbe esaurito le proprie fonti di ispirazione nazionale e popolare, affermando per contro la continuità con la tradizione della Scuola Nazionale Russa e per invitare a risalire alle radici della musica popolare superando una situazione nella quale «...la musica sovietica ha allentato alquanto i legami con la propria base nazionale...».

E' in questo dialettico rapporto tra tradizione e innovazione - ma innovazione dei contenuti e non del linguaggio, ammonisce lo stesso Sciostakovic nello scritto citato - in questo rifiuto delle più avanzate esperienze linguistiche europee che deve essere inquadrato il Secondo Concerto per violino e orchestra. E che rappresenta, secondo noi, il naturale punto di approdo di questa concezione della musica sia pur messa al servizio di un grande talento. Non per nulla fin dalla sua divisione in tre tempi questo Concerto si avvicina ai modelli della grande musica romantica; non per nulla la semplicità dei mezzi espressivi - nell'orchestra mancano trombe e tromboni - e della scrittura, ripropone i modelli ottocenteschi; non per nulla il primo tempo ha, secondo le regole della tradizione, la forma di sonata, mentre un crìtico sovietico ha messo in evidenza nel lavoro sciostakoviciano la maestria dello sviluppo tematico e. lo scontro tra temi diversi che è, come si sa, caratteristica fondamentale della musica strumentale tradizionale. E' quindi in questa chiave - dove l'elemento tradizionale prende il sopravvento sull'elemento dell'innnovazione della stessa visione dialettica di Sciostakovic - che va ascoltato questo Concerto, la cui invenzione tematica e armonica è stata anche condizionata dalla evidente volontà del compositore di fornire a David Oistrach una partitura nella quale potesse mettere in evidenza le sue migliori caratteristiche di virtuoso.

Il Concerto si apre con un Moderato nella tonalità di do minore che dà subito il via al violino solista per lanciarlo in una ampia melodia cantabile che poi si trasferisce all'intera orchestra lasciando al violino il compito di riprendere le trame prima affidate ai «tutti». Nel contrasto di queste due componenti tematiche, nel variato dialogo tra solista ed orchestra, si sviluppa poi l'intero primo tempo in una ondata gradualmente crescente di sviluppo drammatico che si scioglie prima nella cadenza del solista e poi nella ripresa del patetico tema iniziale e del secondo gruppo di temi. Il secondo movimento è un Adagio in sol minore in forma tripartita, «illimitato dominio - secondo, il giudizio del critico sovietico V. Bobrovski - della cantabilità lirica». Dopo l'austero adagio si passa al Finale (un Allegro nella tonalità di re bemolle maggiore scritto in forma di rondò) caratterizzato dallo sviluppo dinamico di un tema principale scintillante e brioso che apre la porta alla vìrtuosistica cadenza, la quale conduce direttamente alla conclusione basata sul ritorno del tema principale divenuto ora «superbamente luminoso e sonoro».

Gianfilippo De' Rossi


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 30 ottobre 1968


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Ultimo aggiornamento 21 marzo 2013