Sinfonia n. 15 in la maggiore, op. 141


Musica: Dmitri Shostakovich (1906 - 1975)
  1. Allegretto
  2. Adagio. Largo. Adagio. Largo
  3. Allegretto
  4. Adagio. Allegretto. Adagio. Allegretto
Organico: ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, triangolo, frusta, nacchere, woodblok, tom-tom, tamburo, grancassa, piatti, tam-tam, glockenspiel, xilofono, vibrafono, celesta, archi
Composizione: Repino, 29 luglio 1971
Prima esecuzione: Mosca, Sala grande del Conservatorio, 8 gennaio 1972
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Sostakovic, lo sanno tutti, non ebbe rapporti facili e tranquilli con il potere politico in URSS e in più di una occasione i responsabili delle questioni ideologiche e culturali del suo paese intervennero per scomunicare o quanto meno censurare ed esprimere riserve nei confronti di alcune composizioni, in cui era evidente in modo netto la volontà dell'artista di affermare le proprie scelte linguistiche e tecniche. Senza voler ripercorrere il lungo itinerario creativo di questo complesso e tormentato musicista, si può dire che quattro furono i casi in cui Sostakovic rimase impigliato tra le maglie della censura ufficiale sovietica. Una prima volta dopo la rappresentazione dell'opera Il Naso, avvenuta a Leningrado il 12 gennaio 1930 e accolta con diffidenza e irritazione dal regime staliniano per quella carica di antiburocratismo, di anticonformismo e di avanguardismo che caratterizza questa singolare e brillante partitura, ricca di umori satirici e di sberleffi timbrici e ritmici, molto vicini ad una certa maniera inventiva stravinskiana e alla musica gestuale concepita dalla coppia Brecht-Weill. La seconda scomunica avvenne nel 1936 a causa dell'opera Lady Macbeth di Mzensk, rielaborata e rifatta poi con il nuovo titolo di Katerina Izmajlova e aspramente criticata soprattutto per il suo «formalismo estraneo all'arte sovietica».

Poi, nel 1945 le vivaci dissonanze racchiuse nella Nona Sinfonia non mancarono di suscitare osservazioni e reazioni non troppo obiettive e benevole verso l'autore. Infine, ma in maniera più sfumata e non ufficiale, nel 1963 fu rimproverato al musicista di aver fatto ricorso nella Tredicesima Sinfonia alle poesie di Evtusenko, toccando un tema molto delicato quale «la questione ebraica», sempre viva e attentamente seguita nei paesi dell'Est (infatti, nell'ultima delle cinque poesie si rievoca con accenti commossi l'assassinio nel 1941 da parte dei nazisti di settantacinquemila ebrei a Babij Yar, presso Kiev).

Con questo non si vuole affatto circoscrivere la personalità di Sostakovic e giudicarla in base alle accoglienze, diciamo così, in negativo e anche in positivo riservate in patria, e in tempi lontani dagli attuali, alla sua musica. Sarebbe un criterio riduttivo e ingeneroso nei confronti di un artista poliedrico, che ha percorso con coerenza la sua strada e non si è piegato alle mode tecnicistiche e ideologiche di un determinato momento storico per assumere la veste di musicista controcorrente. Del resto la sua identità espressiva (per rimanere nel campo delle sinfonie, una forma da lui prediletta) è rimasta sostanzialmente uguale, al dì là di certe «uscite» celebrative, legate ad avvenimenti di notevole significato politico: predilezione per i grandi affreschi sonori; accurata elaborazione tematica, con richiami a volte all'esempio mahleriano; attenta valorizzazione del discorso ritmico, tra armonie dissonanti e anche atonali; senso del caustico e del caricaturale, pur tra schiarite melodiche di tono pensoso e meditativo.

Alcune di queste componenti linguistiche si ritrovano certamente in misura più o meno accentuata nella Sinfonìa n. 15, l'ultima composta da Sostakovic e la cui prima esecuzione ebbe luogo l'8 gennaio 1972 nella sala grande del Conservatorio di Mosca. Quello che colpisce subito nell'Allegretto del primo tempo, concepito quasi come un pastiche alla Stravinsky (si ascolta con meravigliata sorpresa un tema tratto dalla sinfonia del Guglielmo Tell di Rossini e ripetuto più volte dalle trombe), è l'atmosfera briosa e scherzosa che coinvolge man mano tutta l'orchestra in una festosa girandola di suoni. La sortita iniziale tocca al flauto, accompagnato dal tintinnio dei campanelli e dal pizzicato dagli archi, e ad esso segue il fagotto con il suo cordiale borbottio; ecco quindi l'intervento degli archi sostenuti dal ritmo della percussione, in un ruolo di primaria rilevanza e non solo nell'Allegretto (l'organico strumentale della sinfonia prevede infatti, oltre agli archi, ai fiati e ai legni, la presenza di triangolo, timpani, castagnette, tamburo militare, piatti, cassa, tam-tam, campanelli, celesta, xilofono e vibrafono). Una estrema varietà timbrica caratterizza lo sviluppo del primo movimento, dove sembra far capolino tra un inciso ritmico e l'altro lo sberleffo dello stravinskiano Petruska.

Il successivo Adagio si apre con una frase maestosa e solenne dei corni, delle trombe e dei tromboni, su cui si innesta dapprima il canto intensamente lirico del violoncello e poi il trombone in una perorazione quasi da marcia funebre. L'orchestra si amplifica e si irrobustisce elaborando i vari temi, per ritornare al clima iniziale e spegnersi tra le assorte armonie dei tromboni e della tuba. Il secondo Allegretto si richiama al primo per la spiritosa e giocosa inventiva strumentale, dalla sortita del clarinetto all'assolo del violino e alle punteggiature spiritose delle trombe; il tutto reso più stuzzicante dalle sortite del timpano e dello xilofono.

Nell'Adagio finale c'è un'altra famosa citazione: il tema della marcia funebre del Sigfrido di Wagner, collocato ad apertura di sipario e inserito anche in seguito per sottolineare meglio quel sentimento funereo che contraddistingue l'ultimo movimento. Gli archi elaborano questa premessa psicologica in cui si coagula gradatamente ogni settore dell'orchestra, fino a sfiorare un lirismo assorto e malinconico di ascendenza mahleriana. In questo gioco di reminiscenze e di ritorni al passato, Sostakovic non manca di dire la sua parola originale sotto il profilo inventivo: ci sembra di coglierla nelle battute conclusive della sinfonia, tra le armonie filiformi dei campanelli, della celesta e dello xilofono che evocano a distanza il paesaggio di un mondo che va scomparendo o, forse meglio, lo spegnersi della vita umana.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

«Sarebbe per caso, la razza dei compositori di razza, in via d'estinzione?»: cosi si chiedeva, commentando la morte di Sciostakovic, di poco seguita a quelle di Blacher e Dallapiccola, Fedele D'Amico; soverchio il suo pessimismo (troppo polemico, certo, verso le generazioni più giovani), ma felice quanto mai, e piena di significati, la definizione, capace di riproporre un senso delle proporzioni che nella fortuna (e sfortuna) di Sciostakovic, nel giudizio critico come nel «consumo» anche commerciale della musica sua, è mancato in misura probabilmente maggiore che per gli altri maestri del nostro tempo.

«Compositore di razza» (e questa stessa «Quindicesima» ne dà una dimostrazione quasi paradigmatica) Sciostakovic lo fu non soltanto per la straordinaria ricchezza della sua produzione, o per l'agguerritissima maestria tecnica (molto precoce, fra l'altro), che sarebbero bastate, al più, a giustificare certo successo commerciale; piuttosto sospetto, del resto, per essersi limitato, almeno presso molti, alle pagine più caduche di lui. Ma anche, e soprattutto, perché questa stessa abilità artigianale, per quanto esplicata (non sempre, però) in modi linguistici tradizionali fino e al di là dell'anacronismo, portava in sé, come un dato storicamente inevitabile, tale una serie di contraddizioni (e ne è spia, in fondo, l'ibridismo stilistico di tanta musica di Sciostakovic), tale una carica di dubbi, da fare di lui, anzi che un «Piacentini della rivoluzione» (sono ancora parole di D'Amico), un artista legittimamente moderno, e di conseguenza, a suo modo, di crisi.

Dicendo questo, non si vuol certo sorvolare disinvoltamente sul ruolo negativo che lo Sciostakovic del tempo dell'autocritica famosa ha svolto in anni fra i più sofferti nella storia della musica del Novecento, né fingere d'ignorare talune sue, famigerate, prese di posizione. O meno ancora, affermare l'attualità linguistica ed ideologica della «Quindicesima»: che si presenta tuttavia, con le sue scelte certo antistoriche, ma coerenti a tutto il cammino creativo di Sciostakovic, come un documento ineliminabile alla definizione della sua personalità; tassello non superfluo, quindi, nella complessa facciata della musica d'oggi.

Mancano tuttora, almeno da noi, i documenti che possano far luce diretta sugli ultimi anni di attività di Sciostakovic: ma si può ritenere, con buona approssimazione, essere la «Quindicesima», portata a termine nell'estate del 1971, l'ultimo lavoro sinfonico del maestro sovietico. Sembrerebbe provarlo un'intenzione programmatica abbastanza evidente, pur nell'assenza di esplicite indicazioni in tal senso, nelle strutture formali e nel materiale tematico dell'opera; confermata, del resto, da una testimonianza del figlio del compositore, Maksim (che l'8 gennaio 1972, nell'Auditorium del Conservatorio di Mosca, diresse la prima esecuzione della Sinfonia, davanti a circa tremila ascoltatori). Tema del lavoro sarebbe, allora, «il ciclo della vita dell'uomo»; se in tale assunto, com'è parso a qualcuno, fosse da ravvisare anche un riferimento più o meno direttamente autobiografico, la «Quindicesima» potrebbe senz'altro proporsi, se non come un «testamento spirituale», almeno come un deliberato, conclusivo coronamento di un'attività che proprio nella sinfonia cercava la forma più completa di espressione.

Sulla guida di questo programma sarebbe certo possibile seguire, misura per misura, lo svolgimento della Sinfonia: e riconoscere nel carattere giocoso, e verosimilmente «infantile» del primo movimento, con la citazione, più volte ripetuta, di un frammento dell'Ouverture del «Guglielmo Tell»; in certo greve descrittivismo psicologico, d'impronta ciaikovskiana, massicciamente presente nel secondo; nei grotteschi graffiti del terzo; e ancor più apertamente nell'ampio Adagio finale, caratterizzato a sua volta, con fin troppo scoperta intenzione significante, dal wagneriano «tema del Fato» e da echi ritmici della «Marcia funebre» del «Crepuscolo degli Dei», le diverse stazioni di un tale itinerario. Ma la «Quindicesima» può fornire indicazioni interessanti anche a chi rinunzi ad una simile operazione, del resto abbastanza tediosa; che in un'attenta lettura di essa, il «compositore di razza» rivela la propria inconfondibile impronta, nella disposizione della sostanza musicale come nel suo sviluppo formale.

Sotto la lussureggiante veste sonora di questa Sinfonia, che si fregia di una doviziosa inventiva strumentale (violino, flauto, violoncello, trombone e contrabbasso emergono nel tessuto della partitura con particolare evidenza solistica, ma tutta l'orchestra, e segnatamente la percussione, viene lanciata da Sciostakovic a spericolate sortite fantastiche), l'ordito formale dell'opera si dimostra capace di fondere lo stesso a volte plateale eclettismo del materiale tematico e timbrico in una salda unità di strutture. Cosi anche la citazione del «Tell» viene in realtà sottilmente preparata, sotto il profilo ritmico e melodico, dalle misure che direttamente la precedono, tanto da risultare pienamente integrata a tutto lo svolgimento del primo tempo. Cosi il trapasso dall'Adagio allo Scherzo (tale è, anche se il compositore non lo indica esplicitamente, il terzo movimento), si realizza con studiata coerenza; cosi, finalmente, lo stesso tema wagneriano dell'ultimo Adagio, che può certo essere un connotato abbastanza irritante di questo lavoro, si fa in realtà elemento generatore di uno sviluppo teso con assoluta logicità, nel continuo divenire delle variazioni, verso la conclusione del pezzo: che suona quasi macabra, nella sovrapposizione dei timbri della percussione ad un lungo pedale di tonica.

Proprio con questa conclusione, prescindendo dal «programma» vero o supposto della Sinfonia, Sciostakovic sembra siglare il senso più duraturo di tutta la sua opera: che smentendo le suggestioni di certo trionfalismo ricorrente in alcuni dei lavori precedenti, lo apparenta, si, alla decadenza di un Ciajkovskij, ma anche rivela la presenza costante di altri esempi, uno dei quali potrebbe persino essere Mahler; tanto da garantirgli, al di là della legittima diffidenza o magari del rifiuto da parte di molti, un ruolo autentico di testimone del tempo.

Daniele Spini


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 28 ottobre 1979
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 3 aprile 1976


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Ultimo aggiornamento 22 settembre 2019