Concerto per violoncello n. 2 in sol maggiore, op. 126


Musica: Dmitri Shostakovich (1906 - 1975)
  1. Largo
  2. Allegretto
  3. Allegretto
Organico: 2 flauti (2 anche ottvino), 2 oboi, 2 clarinetti, 3 fagotti (3 anche controfagotto), 2 corni, timpani, frusta, woodblok, tom-tom, tamburello, tamburo, grancassa, xilofono, 2 arpe, archi
Composizione: Repino, 27 aprile 1966
Prima esecuzione: Mosca, Sala grande del Conservatorio, 25 settembre 1966
Dedica: Mstislav Leopoldovich Rostropovich
Guida all'ascolto (nota 1)

Dei due Concerti per violoncello e orchestra composti da Sostakovic il Secondo in sol minore op. 126 è il meno noto e il meno frequentemente eseguito, nonostante si faccia apprezzare più dell'altro per originalità, come lavoro estremamente significativo del tardo stile del suo autore. La data di composizione è il 1966: anno sul finire del quale, il 25 novembre, venne presentato per la prima volta nella Sala Grande del Conservatorio di Mosca dal violoncellista Mstislav Rostropovic (che ne era il dedicatario, come lo era stato del Concerto n. 1 op. 107, del 1959) con l'Orchestra Sinfonica di Stato dell'URSS diretta da Evgenij Svetlanov. Esso riflette la posizione di isolato rilievo del musicista nei suoi difficili rapporti con il potere sovietico e segna, dopo le composizioni celebrative del dopoguerra, un ritorno a quell'attitudine profondamente meditativa, venata di malinconico intimismo, che costituisce l'altro aspetto, non meno fondamentale e costante, della personalità musicale di Sostakovic. Forse stimolato dal lavoro di riorchestrazione del Concerto per violoncello di Schumann, realizzato nel 1963, Sostakovic compone un'opera liberamente articolata in tono rapsodico, rinunciando tanto agli elementi del folclore quanto alla fastosità di una scrittura grandiosamente sinfonica: tratti, questi, brillantemente sviluppati nel Primo Concerto. Tratto caratteristico del Secondo è invece la ricerca di una espressività più calda e intima, per così dire più sotterranea e velata, che si traduce anche nella tendenza ad assottigliare l'organico in dimensioni cameristìche.

Questa generale tendenza a una voluta riduzione dei mezzi talvolta sfociante in una sorta di divisionismo timbrico assai estroso, non impedisce che i passaggi tra un episodio e l'altro siano contrassegnati da un più ampio respiro sinfonico, in una sorta di liberazione delle forze latenti, aggressivamente ritmiche. La prevalenza del tono discorsivo, che sembra scaturire da esigenze liberamente associatìve più che da preventiva organizzazione strutturale (donde l'insolita procedura dei movimenti: Largo - Allegretto - Allegretto), conduce sovente alla sovrapposizione di scelte stilistiche disorientanti se non stranianti, suggerendo, soprattutto nell'uso della melodia e dell'armonia, una ingegnosa contaminazione di scherzoso accademismo romantico e di improvvisa, severa solennità: quest'ultima attraversata dagli squarci taglienti di un linguaggio imprevedibilmente amaro e proiettata negli orizzonti di un lucido pessimismo. Non va certo dimenticato, tra i pregi di quest'opera assai particolare, il contributo offerto alla parte solistica, anzitutto sotto il profilo tecnico, dal grande violoncellista che ne è il dedicatario. La collaborazione con Rostropovic fu intensa e produttiva dal punto di vista creativo, sì da estendersi a tutta la composizione, fino a permearla da cima a fondo: anche quando non si esibisce virtuoslsticamente, il solista rimane il punto di riferimento, la guida lungo tutta la partitura; senza però diventare mai il protagonista assoluto, Par di intravedere anche qui una specie di gioco tra dare e avere, ricordare e proporre, concedere e negare, che è poi la cifra stilistica più propria del lavoro: un gioco condotto dai due artisti ad altissimi livelli di gusto e di intelligenza.

Il tono generale di introspezione è dominante nel movimento iniziale, un Largo che prende vita gradualmente dall'intervallo di semitono proposto dal violoncello solo; dalla scrittura a due parti (il solista con gli archi gravi) si produce un progressivo allargamento che anela, senza raggiungerla, alla pienezza orchestrale. L'episodio centrale è ravvivato dal ritmo scandito dagli archi e dagli strumentini su una figura di semicrome che dal solista circola in tutta l'orchestra: sorta di ebbrezza motoria senza meta, non sapresti dire se ironica o tragica. Dopo il culmine di un recitativo del violoncello (ora bicordi con l'arco, ora accordi in pizzicato) violentemente "contrappuntato" dalla grancassa, che suona insieme grottesco e drammatico, la ripresa riconduce al tono iniziale, in un lento spegnersi intriso di tristezza e di solitudine.

Il secondo tempo è un breve Allegretto di rigidità quasi meccanica, con larvali apparizioni di suggestioni popolaresche, freddamente briose. Il clima per così dire invernale si riscalda a poco a poco in una schiarita che lascia balenare in controluce un paesaggio romantico, nel quale svettano i corni in dialogo amoroso con il solista. Con una fanfara sostenuta solamente dal rullo del tamburo, ai corni spetta il compito di iniziare il terzo movimento, ancora un Allegretto, evidente prolungamento del precedente, che porta a conclusione il Concerto. Vi accadono molte e diverse cose, tenute insieme da una frase cadenzante del violoncello ironicamente sospesa su un trillo, in sol maggiore, come ritornello di uno sghembo rondò. Nel momento in cui la perorazione di tutta l'orchestra sembrerebbe costituire la sigla finale di un convenzionale trionfo, un congedo inatteso ci riporta alla verità di un dolore forte, non esibito ma sospeso: il violoncello solista indugia su un pedale grave, quasi rientrando nel grembo oscuro dell'anima, scortato da un lugubre accompagnamento di percussioni.

Sergio Sablich


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 14 dicembre 1996


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Ultimo aggiornamento 13 ottobre 2011