Le baiser de la fée

Balletto allegorico in quattro scene

Musica: Igor Stravinskij (1882 - 1971)
Libretto: Bronislava Nizinska

Ruoli:

  1. Berceuse dans la tempête
  2. La fête au village
  3. Près du moulin
  4. Épilogue: berceuse des félicités éternelles

Organico: ottavino, 2 flauti, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti, clarinetto basso, 2 fagotti, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, grancassa, arpa, archi
Composizione: Talloires, aprile - Nizza, 30 ottobre 1928 (revisione 1950)
Prima rappresentazione: Parigi, Théâtre de l'Opéra, 27 novembre 1928
Edizione: Édition Russe de Musique, Parigi, 1928
Dedica: alla memoria di Petr Il'ic Cajkovskij
Guida all'ascolto (nota 1)

Una fata, bianca e gelida, bacia in fronte un bambino - o piuttosto lo «marca» con un bacio. Il bambino cresce, diventa uomo, sta per sposarsi, Ma la fata ritorna e se lo porta via per sempre. Questa è la nuda trama della favola di Hans Andersen, che lo stesso Stravinsky ha trasformato nel suo balletto Il bacio della Fata, un omaggio a Ciaikovski e al balletto classico tardo-ottocentesco.

C'è da chiedersi se tutti i balletti romantici - sia dell'800 sia del '900 - non raccontino, in fondo, la stessa storia. Ma sì. James, l'eroe della Silfide, e cioè il prototipo del balletto romantico (1832), così come questo ultimo protagonista romantico del Bacio e del repertorio classico dei Ballets Russes (1928), è l'incarnazione dell'idea di Poeta, di Artista creatore, dilaniato tra materialità e spiritualità, tra realtà e fantasia, tra la quieta vita domestica e la fuga, il viaggio, la ricerca. E Silfide del 1832, così come la Fata del 1928, è l'incarnazione del mondo superumano ed eterno dell'arte. Il suo bacio, così come la sua pallida, eterea bellezza, sono sempre in qualche modo fatali. Perché la visione romantica vuole il Poeta come «maledetto» e la Poesia come «Belle dame sans merci». E chi tocca l'Arte, il mistero della creazione poetica, non sopravvive, ma muore languidamente - o resta impietrito ed esangue nell'eternità. L'Arte è l'evoluzione romantica dell'idea di albero del bene e del male. È l'arte che - nell'estetica romantica - dà il divino, eterno sapere; o che, piuttosto, suscita il miraggio, sempre sfuggente ed effimero, del sapere e dell'eternità. Eva è - in questo senso - la «Belle dame» e Adamo il «Poeta».

E ancora - ripensando al grande libro di Mario Praz La carne, la morte e il Diavolo - il balletto romantico di ieri e di oggi rielabora e riprende non soltanto il tema primordiale del paradiso terrestre - della seduzione dell'arte e dell'immortalità - ma anche il mito di Medusa, il mito della Sfinge, e in qualche modo, quello di Euridice. La bellezza-che-uccide, il pallore malato e impassibile della creatura sublime e mostruosa il cui scopo è attirare e poi uccidere, è dunque anche il senso profondo di Myrtha, regina delle Willi, in Giselle, e della Regina della Montagna di rame nel Fiore di pietra di Lavronsky-Prokofiev - concepito e creato soltanto quarantanni fa.

Il decadentismo, che dal romanticismo procede, ha poi portato il rapporto Poeta-«Belle dame sans merci» a conseguenze estreme: la Fata diviene Donna Fatale e il Poeta il ricettacolo di ogni fragilità e di ogni corruzione, lungo una gamma immensa di livelli qualitativi, che vanno da romanzi di D'Annunzio alla canzone Vipera.

Oggi, la Bellezza non uccide. E il Poeta non si immola tra le sue braccia. Il rapporto tra il Poeta e la società si è fatto più semplice, a volte troppo semplice; così come la Bellezza è tra noi, carta vincente di milioni di industrie. Si ha la sensazione che Poeta e Bellezza siano ormai partners - o magari complici - intenti ad appiattire la gente qualsiasi dai grandi e piccoli schermi. La vittima non è più l'Eletto, l'unico, il prescelto - il «baciato dalla fata». La Fata e il Poeta, insieme, inventano, ci incantano, ci seducono - e tutti gabbati.

Ma non per Eugenio Polyakov, pervicace romantico russo-fiorentino. Tanto crede, Polyakov, nell'eterno mito del Poeta che abbandona la casa, e le proprie radici, per inseguire avventurosamente l'utopia della fantasia e della libertà creativa, che l'ha vissuto - in qualche modo - in prima persona. Non solo. Il Bacio non è per lui occasione di semplice, devoto «revival» - di ricostruzione filologica dell'originale di Bronislava Nijinska, creato per i Ballets Russes e per Ida Rubinstein, nei panni della Fata (una fata seducente e bellissima, più mima che danzatrice). Ma è occasione per una nuova e audace rivisitazione della vicenda essenziale, ambientata negli anni stessi in cui il Bacio fu creato (gli ultimi anni venti), con al centro un Artista, che altri non è se non lo stesso Stravinsky, ancora giovane, quando con le sue gloriose scelte innovative - scelte musicali e culturali - stava dando, da Parigi, la scalata definitiva al successo. Chissà. È forse un gesto, davvero concreto, di omaggio a Stravinsky, nell'anno del centenario.

In un ambiente scenografico di gusto iperrealista, che riproduce in formato naturale episodi e caratteri della vicenda, «impietriti» per natura e per posizione - si svolge una sorta di astratto poema coreografico in quattro quadri. Una scultura «racconta» lo Stravinsky bambino, seduto al pianoforte sotto gli occhi delle sorelle. Quel bambino sarà baciato dalla Fata, alla fine della prima scena. E quel bambino rivedremo, ormai cresciuto, vestito tutto di bianco, come in certe foto estive del Maestro o in certi schizzi di Cocteau. Una schiera di creature indistinte, di sapore romantico, lo circondano. Tra loro c'è la Fata: una presenza ancora più sfuggente e impalpabile delle altre. Il Maestro danza con lei. Poi la scena analoga a quella originale della festa del villaggio si svolge, qui, in un bar parigino. Come nell'originale, arriva una zingara a predire al Maestro un destino ambiguo, «diverso». È naturale che la zingara abbia le connotazioni di una «musa» di Sainf-Germain des Prés, un po' alla Juliette Greco. La «scena del matrimonio» ha luogo lungo le rive della Senna, con echi visuali del «Dèjeuner sur l'herbe». Qui avviene il momento della riappropriazione definitiva dell'Eletto da parte della Fata. Ma, nella visione di Polyakov, è piuttosto lui, il Maestro, che sceglie di sua libera volontà di lasciare il certo per l'incerto, la terra per il cielo, la prosa per la poesia. Sale con la Fata su una simbolica rampa, che non porta tanto a un «cielo» indeterminato, quanto alla vetta del Parnaso - o della gloria dell'Arte. Come Apollo, accompagnato da Tersicore, nel finale di Apollon Musagète di Balanchine. Non c'è, in lui, nessun senso di rimorso, di angoscia, di rimpianto; ma soltanto una lucida, serena determinazione. Che accade dopo, nell'ultimo quadro? Qualcosa che - come si era accennato - ribalta un po' il messaggio culturale di questa versione coreografica. Accade, cioè, che non è l'Artista a congelarsi, a impietrirsi. Ma gli altri, che restano di polvere e cemento, sicché la realtà aderisce all'iper-realtà. Il mondo originario dell'Artista resterà sempre una sagoma, mentre egli stesso - l'eterno, romantico Eletto - salirà, unico vivo, al Parnaso.

Vittoria Ottolenghi


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 28 maggio 1982


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Ultimo aggiornamento 4 aprile 2017