Il programma di stasera si conclude con un lavoro appartenente
alla stagione neoclassica di Igor Stravinsky, il Concerto in mi bemolle maggiore
per orchestra da camera, detto Dumbarton
Oaks, dal nome di una tenuta nel distretto americano di
Columbia, il cui proprietario Robert Woods Bliss, aveva commissionato
al compositore tale musica, eseguita per la prima volta nella stessa
località l'8 maggio 1938. Il brano fu scritto in origine per
orchestra da camera, così come viene eseguito stasera, ma
l'autore si preoccupò di trascriverlo nella versione per due
pianoforti, raccontando poi di aver composto su commissione tale
partitura, allo scopo di pagare le cure mediche cui dovette sottoporsi
in quel periodo insieme alla moglie Caterina Nosenko e alle due figlie,
Ludmila e Milena (una di queste ultime, insieme alla prima moglie,
sarebbero morte a breve distanza l'una dall'altra nel 1939). Confessa
ancora il musicista che, mentre scriveva il suo Concerto, studiava
e suonava regolarmente Bach e l'attraevano i Concerti brandeburghesi,
specialmente il terzo, alla cui struttura strumentale si richiama,
utilizzando tre violini e tre viole. Di questa scelta si avverte la
presenza nel Dumbarton
Oaks, anche se, specifica Stravinsky, «non credo
che Bach mi avrebbe lesinato il prestito di queste idee e di questi
materiali, dal momento che imprestare in tal modo era qualcosa che
anche a lui stesso piaceva fare». Naturalmente Stravinsky
utilizza i temi bachiani in modo personale e in un gioco
contrappuntistico di sonorità asciutte e taglienti, in cui
riaffiorano le cadenze ritmiche del Sacre e delle Noces. Il primo
movimento (Tempo giusto)
è punteggiato da una spigliata e fresca serenità
di accenti strumentali, dove non mancano momenti di pensosa
riflessione. Particolarmente piacevole e spiritoso è l'Allegretto
centrale, intonato ad un fosforescente divertimento, qua e
là increspato di leggera malinconia. Secondo Casella il tema
di questo movimento fa pensare al Falstaff
di Verdi e precisamente alla frase del primo atto corrispondente alle
parole «Se Falstaff s'assottiglia». Il finale (Con moto)
è psicologicamente ambivalente, cioè gaio e
triste, con rimembranze di sapore ciaikovskiano, ma comunque sorretto
da un battito cardiaco ritmicamente pulsante e di indubbia sigla
stravinskiana. Il brano, della durata di 12 minuti, prevede il seguente
organico strumentale: clarinetto in si bemolle, fagotto, due corni, tre
violini, tre viole, due violoncelli e due contrabbassi.
Il corpo generoso del Concerto grosso, antico ma palpitante ancora nell'Europa dei Trenta, è il calco al quale, con dichiarata evidenza, si ispira il Concerto in mi bemolle maggiore di Stravinskij, noto col nome della proprietà - Dumbarton Oaks, nel distretto di Washington - dei coniugi statunitensi Bliss, che per festeggiare il loro trentesimo anniversario chiedono al maestro una nuova opera, creata nella loro dimora nel maggio del 1938 (sessant'anni fa, esattamente), per la direzione di Nadia Boulanger.
Un flauto, un clarinetto, un fagotto, due corni, tre violini, tre viole, due violoncelli, due contrabbassi: a questo organico il maestro chiede di riprodurre i bachiani Concerti brandeburghesi, nell'alternanza tra il tutti dell'orchestra, un concertino di solisti affidato ai dieci strumenti ad arco, l'emersiome frequente di alcuni passaggi dove unico è il protagonista. Un gioco, naturalmente; quel genere di passatempi nei quali il grande prestigiatore sapeva far eccellere le proprie arti imitative, fregolesche.
Il periodo neo-classico dura ormai da tempo, ma l'invenzione lieve e divertita sa ancora nascondere l'usura del meccanismo. Citazioni contrappuntistiche, economia di mezzi orchestrali: l'imitazione bachiana rispetta questi parametri, e questi soltanto. Se ne stacca nella varietà timbrica, e soprattutto nella mobilità del ritmo, vero motore del concerto, anima inconfondibile del maestro anche nei travestimenti più ricercati.
Se l'armonia resta ferma, il tempo del racconto pulsa, invece e sempre, a la Stravinskij. Ma Bach serve come una scialuppa al naufrago, come orizzonte di simmetria, rigore e numero in una cultura che queste certezze aveva perduto. Nella sua età di mezzo, il principe Igor, padrone del mondo dei suoni, ha bisogno di credere a un ordo: Johann Sebastian è la benedizione invocata, la retta via che conviene seguire.
Altre decadi dovranno passare e l'appiglio neo-classico sfrangiarsi, prima che, nella lunghissima sua esistenza creatrice, Stravinskij scopra un ordine diverso, quello dei dodici suoni e della serie. Allora, si poserà lì lo sguardo bulimico e il suo metabolismo invidiabile potrà assimilare anche questo corpo nuovo, senza perdersi.
Nei tre movimenti delle Oaks - Tempo giusto, Allegretto, Con moto - si riaffacciano le ombre, più o meno corpose, di tutti i pergolesini, da Pulcinella in avanti; e anche il passo strascicato di un tango, l'impettito procedere di una marcia scandita dai corni, il ghiribizzo clownesco del finale.
Pierre Boulez è persuaso che il grande problema di Stravinskij sia stato «non rifare il Sacre», la bomba atomica della musica scoppiata quando l'artificiere aveva soltanto trentun anni. Poi, per non restare imprigionato dall'onda d'urto di quella eruzione sconvolgente, il suo problema è diventato cercare vie di fuga, veri o falsi o tutti e due che siano quei fogli settecenteschi dissepolti nelle generose e misteriose (tuttora) biblioteche di musica napoletane e poi portati a lungo con sé. Ma, e questo è il pregio mirabile, il creatore è sempre riconoscibile, anche all'ombra di queste amichevoli querce americane.
Sandro Cappelletto