The Rake's Progress (La carriera di un libertino)

Opera in tre atti

Musica: Igor Stravinskij (1882 - 1971)
Libretto: Wystan Hugh Auden e Chester Kallman

Ruoli: Organico: 2 flauti (2 anche ottavino), 2 oboi (2 anche corno inglese), 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, campana, clavicembalo (o pianoforte), archi
Composizione: 1948 - Hollywood, 7 aprile 1951
Prima rappresentazione: Venezia, Teatro la Fenice, 11 settembre 1951
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, 1951
Sinossi

Luogo dell'azione: Inghilterra, XVIII secolo.

Atto primo

Scena 1. Il giardino della casa di campagna di Trulove, in un pomeriggio di primavera. Tom e Anne amoreggiano; il padre della ragazza, Trulove, dubita delle qualità morali del giovane e per questo gli offre un lavoro come contabile. Tom rifiuta, lavorare non gli interessa, ed esprime il suo primo desiderio: diventare ricco. All'istante compare uno sconosciuto, Nick Shadow, per annunciare che uno zio di Tom, appena defunto, ha lasciato in eredità al nipote un patrimonio. Tom assume Shadow al proprio servizio e decide di stabilirsi a Londra prima di sposare Anne. I due giovani si separano affettuosamente. Shadow dichiara che per la sua ricompensa attenderà un anno e un giorno, quindi si rivolge al pubblico rivelandosi come il diavolo: «La carriera di un libertino ha inizio».

Scena 2. Il bordello di Mother Goose, a Londra. Tra prostitute e clienti, la tenutaria Mother Goose e Shadow inculcano a Tom i princìpi di un'esistenza cinica e dissoluta. Quando il discorso cade sull'amore, tuttavia, il giovane è afferrato dalla nostalgia per Anne; vorrebbe andarsene, ma Shadow ferma il tempo e lo riporta indietro di un'ora, incitando Tom a divertirsi. Il giovane si rivolge allora ad Amore perché accolga la sua tristezza; le prostitute, turbate e affascinate, vorrebbero consolarlo, ma Mother Goose afferma il propri diritti e si apparta con il giovane. Shadow commenta che quando i sogni del libertino finiranno questi morirà.

Scena 3. Il giardino della casa di Trulove, notte autunnale di luna piena. Anne è convinta che, nonostante non abbia più notizie di Tom, il giovane la ami ancora e abbia bisogno del suo aiuto. Per questo è decisa ad andare a Londra a cercarlo, e invoca come alleate la notte e la luna.

Atto secondo

Scena 1.
Stanza della colazione nella casa di Tom, in una piazza di Londra. Tom è annoiato, deluso dalla vita brillante che conduce ed esprime un secondo desiderio: essere felice. Shadow lo convince allora a prendere in moglie Baba la Turca, mostruosa donna da circo con tanto di barba nera: soltanto così, con un gesto gratuito che lo libererà in un sol colpo dai vincoli della passione e della ragione,Tom potrà essere felice. Una risata dei due uomini ne suggella l'intesa.

Scena 2. La strada di fronte alla casa di Tom, crepuscolo autunnale. Anne sta aspettando Tom, quando è sorpresa da una processione di servitori. Tom scende da una portantina, vede la ragazza e tenta di convincerla a ritornare a casa. Seduta nella portantina, Baba la Turca, il volto velato, reclama intanto le attenzioni del marito: Tom confessa alla stupefatta Anne che quella è la sua sposa e tranquillizza Baba dicendole che l'altra donna non è che una lattaia alla quale deve del denaro.La folla dei passanti ha nel frattempo riconosciuto Baba e la acclama; per compiacere il pubblico, Baba allora si toglie il velo mostrando la sua folta barba nera.

Scena 3. La stanza della casa di Tom, ora ingombra di oggetti di ogni genere. Tom non sopporta più la presenza e le continue chiacchiere di Baba, la quale dal canto suo reagisce con furia all'irritazione e al disprezzo del marito. Mentre Tom, dopo aver zittito la moglie ponendo sul capo di lei la sua parrucca, si abbandona al sonno, sopraggiunge Shadow con una strana macchina che trasforma le pietre in pane (pantomima). Svegliatosi, Tom esprime un terzo desiderio: compiere buone azioni con una macchina che ha appena sognato ed essere degno dell'amore di Anne. Quando riconosce la macchina in quella di Shadow, Tom esulta: ne vuole costruire altre, su scala industriale, così da eliminare dal mondo fame e povertà.

Atto terzo

Scena 1.
La stanza nella casa di Tom, con ogni cosa ricoperta di ragnatele e di polvere. L'impresa di Tom è fallita e i suoi beni sono messi all'asta; Anne è tra il pubblico. Nella serie dei beni all'incanto c'è anche Baba, che, non appena viene rimossa la parrucca che le copre la testa, riprende il discorso interrotto nella scena precedente. Dalla strada, arrivano le voci irridenti di Tom e Shadow. Prima di uscire dignitosamente di scena con l'aiuto riluttante di Sellem, il banditore, Baba rassicura Anne sull'amore di Tom nei confronti di lei.

Scena 2. Un cimitero con tombe, in una notte senza stelle. Sono trascorsi un anno e un giorno dal patto tra Tom e Shadow e quest'ultimo reclama il suo compenso: non si tratta di denaro, ma dell'anima del libertino. A lui il diavolo concede tuttavia, per eccesso di presunzione, un'estrema via di scampo: può ancora giocarsi la vita - e la salvezza dell'anima - in una partita a carte. Tom deve indovinare le tre carte che Shadow estrarrà dal mazzo. E, anche grazie al suo amore per Anne, le indovina: la prima è la regina di cuori; la seconda, il due di picche; la terza, ancora la regina di cuori che Shadow, barando, aveva reinserito nel mazzo e di nuovo estratto. Sconfitto, il diavolo sprofonda nel fuoco e nel ghiaccio ma porta con sé la ragione di Tom che ora crede di essere Adone.

Scena 3. Il manicomio di Bedlam. Credendosi Adone, Tom chiama gli altri internati a celebrare le sue nozze con Venere; e in effetti, quando sopraggiunge Anne, egli la prende per la dea dell'amore. Le chiede perdono. Anne, dal canto suo, culla Tom e lo addormenta con una ninna nanna prima che Trulove sopraggiunga e la porti via. Risvegliatosi, Tom cerca invano la sua Venere ma non la trova e muore con il cuore spezzato.

Epilogo. Davanti al sipario, s'accendono le luci. Si presentano i personaggi principali dell'opera, per affermarne la morale: con gli oziosi il diavolo trova sempre lavoro.

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Stravinskij aveva iniziato a pensare a un'opera in inglese sin dal 1939, quando si era stabilito negli Stati Uniti. Perché si presentasse l'occasione di realizzarla, tuttavia, avrebbe dovuto aspettare diversi anni. Nel maggio 1947 il compositore visitò la mostra di William Hogarth, allestita nel Chicago Art Institute, e fu decisiva, per la scelta del soggetto, l'impressione di grande teatralità suscitata dalle incisioni tratte dal ciclo di otto dipinti The Rake's Progress (1732-33). Non è chiaro se questa impressione fosse allora rafforzata in Stravinskij dalla conoscenza diretta delle recenti trasposizioni del soggetto nel balletto di Ninette de Valois (1935) e nel film di Sidney Gilliat con Rex Harrison (1945). Certo è che, su consiglio di Aldous Huxley, il compositore individuò come librettista Wystan Hugh Auden, il quale, dopo aver lavorato nel novembre 1947 con Stravinskij per definire la sceneggiatura, l'intreccio, i personaggi e lo stile dell'opera, chiamò a collaborare al libretto l'amico Chester Kallman. Il testo fu redatto in pochi mesi e consegnato alla fine di marzo 1948. Stravinskij lavorò alla partitura componendo un atto per anno e completò il lavoro nella primavera del 1951.

Programmato dal XIV Festival di Musica Contemporanea di Venezia in coproduzione col Teatro alla Scala, The Rake's Progress andò in scena al Teatro La Fenice l'11 settembre 1951. Per la prima assoluta fu lo stesso Stravinskij a salire sul podio, mentre le altre recite furono dirette da Ferdinand Leitner; tra gli interpreti dello spettacolo, firmato per la regia da Carl Ebert, c'erano Robert Rounseville (Rakewell), Elisabeth Schwarzkopf (Anne), Otakar Kraus (Shadow) e Jennie Tourel (Baba). Al successo di pubblico non corrisposero gli unanimi consensi della critica, che anche nelle numerose riprese successive (soltanto nei restanti mesi del 1951 l'opera andò in scena in tedesco a Stoccarda e ad Amburgo, in italiano a Milano) si divise sul carattere retrospettivo dell'opera; opera che, in ogni caso, si sarebbe poi imposta come la più rappresentata tra quelle composte dopo la morte di Puccini. Il rapporto controverso del Rake con «tradizione» e «modernità» ha fornito del resto materia per una discussione storico-critica quasi inesauribile; il che sta già a indicare la vitalità estetica e le ambiguità affascinanti di un'opera irriducibile a una chiave di lettura univoca.

A ben guardare, le stesse categorie di «tradizione» e «modernità» appaiono equivoche se non sono, a loro volta, storicizzate. Da un lato è ovvio che il Rake possa sembrare - e tanto più poteva sembrarlo nel dopoguerra delle neoavanguardie - più che altro un'opera esplicitamente e polemicamente retrospettiva; lo stesso Stravinskij scrive in Memories and Commentaries: «The Rake's Progress è decisamente un'opera, composta di arie, recitativi, cori e pezzi d'insieme. La sua struttura musicale, il concetto dell'uso di queste forme, perfino i rapporti tonali, sono sulla linea della tradizione classica». Secondo lo schema interpretativo che suddivide l'attività di Stravinskij in fasi ben distinte, con essa si concluderebbe il cosiddetto periodo «neoclassico» iniziato con Pulcinella (1920); e senza dubbio il «neoclassicismo» del Rake è manifesto in ogni aspetto dell'opera: dal soggetto alla struttura, dal testo alla musica. Prendendo a modello l'architettura drammaturgica e le forme dell'opera comica del Settecento nella declinazione di Mozart e Da Ponte - con particolare attenzione a Così fan tutte - Stravinskij trovò un coautore tanto ideale quanto geniale in Auden, per il quale il problema della «modernità» consisteva nel non essere «più sostenuti dalla tradizione senza esserne consapevoli» [«no longer supported by tradition without being aware of it»].

Dall'altro lato, sarebbe equivoco considerare regressivo in sé il principio dell'«opera a numeri» in opposizione a quello del «dramma» di ascendenza wagneriana, in cui la logica dell'azione attraversa e connette le scene. Come la raffinata «favola» di Auden e Kallman offre un ordito ricchissimo di citazioni, allusioni, riferimenti letterari e culturali, così la musica di Stravinskij manifesta una fitta rete di richiami che comprende, oltre a Mozart, Händel e Gluck, Schubert e Weber, Rossini e Donizetti, Verdi e Cajkovskij. Eppure la partitura, che nel testo si riflette in modo speculare, non è tanto un virtuosistico pastiche quanto piuttosto la quintessenza dell'assimilazione organica di Stravinskij al proprio stile, in un atteggiamento onnivoro non privo di tratti necrofagi, di forme e convenzioni drammaturgiche della tradizione operistica, utilizzate come materiali e strutture da impiegare in un complesso gioco teatrale, che ha appunto il senso della «favola», con consapevole, ironico distacco (in modo non molto diverso Stravinskij avrebbe d'altronde assimilato dopo il Rake la serialità, ormai divenuta anch'essa ai suoi occhi un linguaggio storicizzato). Auden e Stravinskij imprimono alla dimensione morale e alla critica sociale di Hogarth una nuova tensione ideale, segnata da connotazioni mitologico-culturali e religiose e incentrata sul tema della redenzione attraverso l'amore. Per questo gli stessi personaggi sono creature ben più complesse dei tipi umani suggeriti da Hogarth: in Tom Rakewell si ravvisano i lineamenti di Prometeo, Don Giovanni, Faust e persino di Cristo tentato da Satana; in Anne, quelli di Venere e della Mater dolorosa; nel diavolo Nick Shadow, quelli di un mefistofelico alter ego del protagonista.

Cesare Fertonani

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

La genesi di The Rake's Progress (La carriera del libertino), l'opera capitale del periodo americano di Stravinskij (aveva lasciato la Francia allo scoppio della seconda guerra mondiale), ci è narrata diffusamente dallo stesso autore. "Sei anni fa (cioè nel 1947), a Chicago, ad una mostra sulla pittura inglese, fui colpito dalle diverse serie narrative di Hogarth [William Hogarth, pittore inglese del Settecento, nato e morto a Londra rispettivamente nel 1697 e nel 1764] che mi sembrarono una successione di scene d'opera. Poco dopo, conversando con il mio amico e vicino di Hollywood Aldous Huxley - che si potrebbe chiamare il 'padrino' della mia opera, poiché fu lui a suggerire Wystan H. Auden come librettista - discutemmo il problema dell'opera in lingua inglese. Nel settembre 1947, dopo aver finito l'Orpheus, informai il mio editore, il defunto Ralph Hawkes, del mio progetto di scrivere una lunga opera. L'idea gli piacque molto; commissionò il libretto a W.H.Auden. In novembre il poeta mi raggiunse a Hollywood: ci accordammo sul soggetto, una favola morale in tre atti basata sulla serie The Rake's Progress e impostammo una trama, l'azione, le scene e i personaggi. Tornato a New York, Auden prese come collaboratore Chester Kallman. Nel marzo 1948, consegnarono quello che è sicuramente uno dei più bei libretti d'opera. La composizione della musica mi tenne occupato per tre anni [1948-1951: l'Epilogue è datato 7 aprile 1951]". Per la prima rappresentazione Stravinskij preferì un teatro di proporzioni ridotte ma di grande tradizione, come La Fenice di Venezia. La première ebbe luogo martedì 11 settembre 1951, nell'ambito del XIV Festival Internazionale di Musica Contemporanea di Venezia. Il coro e l'orchestra erano quelli del Teatro alla Scala, sotto la direzione dell'autore; il regista Carl Ebert; nel cast figuravano nomi importanti: Raffaele Ariè, Elisabeth Schwarzkopf, Robert Rounseville, Otakar Kraus e Jennie Tourel.

Stravinskij coltivava da molti anni l'idea non soltanto di tornare all'opera, che nel suo catalogo mancava dai tempi giovanili di Le rossignol e Mavra, ma anche di scrivere un'opera in inglese, che cioè nascesse con la prosodia inglese e fosse elaborata alla sua maniera con corrispondenti elementi di gesticolazione musicale. La visione dei quadri di Hogarth fu dunque soltanto l'occasione esterna che mise in moto un meccanismo in parte già prefigurato. Fu però un impulso decisivo, almeno per due motivi. Il racconto per immagini di Hogarth intitolato appunto The Rake's Progress, una serie di otto dipinti del 1732-1733 divenuti molto popolari grazie alle incisioni che ne furono tratte, oltre a narrare una storia emblematica - l'ascesa e la caduta del libertino come lo poteva intendere moralisticamente il razionalismo settecentesco -, rappresentava nel suo seguito di scene un'idea molto vicina alla concezione che Stravinskij aveva dell'opera, ossia come una serie di quadri staccati basati su forme chiuse; inoltre costituiva la quintessenza di quel particolare tipo di Settecento inglese che configurava un idioma e in musica si rispecchiava nel melodramma italiano, e nel Mozart italiano in particolare. Non dramma musicale, dunque, ma opera: da questo punto di vista The Rake's Progress è, come scrisse l'autore, "decisamente un'opera, composta di arie, recitativi, cori e pezzi d'insieme. La sua struttura musicale, il concetto dell'uso di queste forme, perfino i rapporti tonali, sono sulla linea della tradizione classica".

Naturalmente a Stravinskij non sfuggiva che un'opera "sulla linea della tradizione classica" avrebbe comunque dovuto confrontarsi con la contemporaneità, e non soltanto per evitare l'accusa di restaurazione e di sguardo rivolto nostalgicamente al passato (accusa che già aveva colpito anni addietro i suoi lavori cosiddetti neoclassici): si trattava anche di una questione, oltre che di forme, di linguaggio e di stile, anzi di cristallizzazione di un nuovo stile. Il suo modo di intendere la contemporaneità non era però basato sul principio di progresso, bensì di riflessione: e in questo senso non esistevano esperienze che non potessero essere rese attuali. In questa sorta di moto pendolare, di storicità e rispecchiamento, la vicenda illustrata in The Rake's Progress conteneva non soltanto precisi riferimenti a un modello storico ma anche elementi di universalità che la visione contemporanea avrebbe potuto rendere più chiari: di fatto li rese più problematici. Sotto questo profilo il ciclo di Hogarth, tipico prodotto della cultura inglese del Settecento "moralista", ossia incline alla satira e alla parodia della società londinese del tempo, diviene un apologo, una favola non più soltanto "morale" bensì "artistica", una parabola caricata di simboli assai più pregnanti e sospesa in una dimensione mitica, senza spazio e senza tempo. In altri termini, La carriera del libertino assume un valore più comprensivo e si trasforma, come acutamente suggerisce Quirino Principe, nella Carriera di libertino: dove il libertino è prima di tutto l'autore alle prese con i suoi ritorni al passato e le sue alchimie di compositore spregiudicato, capace di ironizzare anche su se stesso.

Nell'operazione che fece di The Rake's Progress un'opera tipicamente novecentesca per coscienza e consapevolezza gran parte ebbero i due librettisti, che lavorarono con il compositore in una stretta consonanza di intenti. Il libretto del poeta Auden, al quale l'amico Kallman portò in dote la sua esperienza teatrale scrivendo l'ultima parte dell'atto I scena I e tutta la scena III, parte della scena I dell'atto II e tutta la scena II, parti delle scene I e II dell'atto III, si distacca dallo schema di Hogarth proprio al fine di rendere più ricco e multiforme, più screziato e da ultimo più ambiguo, il significato della vicenda. "Nel comporre il nostro libretto" - scriveva Auden - "Chester Kallman e io abbiamo conservato gli elementi essenziali della versione di Hogarth come l'improvvisa eredità, lo sperpero della stessa, il matrimonio con una brutta e vecchia donna, la vendita all'asta della proprietà dell'eroe e la sua fine in manicomio. Abbiamo poi aggiunto altri tre miti comuni: 1) la storia di Mefistofele - qui il protagonista Tom Rakewell si prende un servo chiamato Ombra; 2) una partita di carte con il diavolo in cui il diavolo perde per soverchia fiducia in se stesso; 3) il mito dei tre desideri: nell'opera il primo desiderio di Rakewell è di essere ricco, il secondo di essere felice e il terzo di essere buono. Questi tre desideri sono in relazione con le tre tentazioni e rispettivamente cioè con il desiderio del piacere, il desiderio dell'assoluta libertà spirituale in qualche atto gratuito, e il desiderio di diventare il salvatore del mondo". In effetti, guardando più da vicino, il protagonista Tom Rakewell ha contorni assai più problematici e sfumati, e non è solo un corrotto, un dissoluto che dopo aver sperperato la sua vita viene punito. La fortuna non gli deriva dall'eredità del padre avaro (come nel primo dei quadri di Hogarth), ma gli viene lasciata inaspettatamente da un ricco zio che egli neppure conosce; l'ascesa non è segnata dall'esibizione della ricchezza accumulata e dall'ambizione di emancipazione sociale tipo borghese gentiluomo (La levée, secondo quadro di Hogarth), ma dall'azione di una potenza demoniaca esterna. Anche le ragioni della sua caduta sono modificate da Auden, che lo mostra non soltanto soccombere alla lussuria e ai piaceri della carne (come nella scena del bordello, pendant del quadro III hogarthiano, L'orgia), ma abbandonarsi anche alla sfrenatezza dell'acte gratuit (il matrimonio con la mostruosa Baba la Turca) e alla megalomane illusione di poter cambiare le miserie del mondo sfruttando la fantastica invenzione che tramuta le pietre in pane: del che in Hogarth non vi è traccia. Anche la figura di Hogarth della fanciulla (Sarah Young) che il protagonista ha sedotto promettendole il matrimonio e da cui ha avuto un figlio scompare e il suo posto è preso dalla virtuosa e delicata ragazza di campagna Anne Trulove, che incarna l'immagine stessa dell'amore fedele e idealizzato. La novità più importante è però costituita dall'invenzione di un personaggio del tutto estraneo a Hogarth, Nick Shadow, che riassume in sé i tratti di Mefistofele, alter ego di Rakewell-Faust, e di Leporello, servitore di Rakewell-Don Giovanni. Shadow si offre di realizzare i tre desideri di Rakewell - ricchezza, felicità, salvezza del genere umano - ma dopo un anno e un giorno di servizio (l'azione si svolge da primavera a primavera), falliti i suoi desideri, gli rivela di essere il diavolo e reclama come compenso l'anima del suo padrone. Rakewell ottiene di poter giocare il suo destino a carte e con fortuna stupefacente vince; il diavolo allora lo condanna alla follia. Se per lui non vi è redenzione, la sua fine non è la conseguenza di un comportamento scellerato bensì di un potere soprannaturale di cui è vittima.

Il modello a cui Stravinskij si ispirò nello scrivere un'opera di stile "italiano-mozartiano" fu per sua stessa ammissione Così fan tutte; alcuni momenti, come la scena II dell'atto III e il quintetto dell'Epilogo, richiamano invece rispettivamente la scena del cimitero e il sestetto finale del Don Giovanni. Nella sua favola morale Stravinskij interpretò in senso novecentesco non soltanto le convenzioni ma anche lo spirito del dramma giocoso mozartiano, intrecciando commedia e tragedia in modo ingegnoso e vario. I nomi dei personaggi sono maschere di commedia (nella traduzione italiana del libretto si chiamano Tom Birba, Nick Ombra, Corfido, Mamma Oca) e talora l'azione volge decisamente alla farsa; gli stati d'animo sottendono però una gravità permeata di serietà e di mistero. E per quanto l'Epilogo stemperi la tensione introducendo la morale della favola in una sorta di giocoso vaudeville, la catastrofe finale della pazzia nell'ultima scena del manicomio non manca di suscitare pietà e prolunga il suo alone tragico oltre lo scioglimento lietamente distensivo. Se Mozart è dunque il punto di partenza, con qualche reminiscenza delle atmosfere elisie di Gluck, molteplici sono i riferimenti sia all'operismo barocco inglese (Purcell e Haendel), sia al melodramma italiano del primo Ottocento (Rossini, Donizetti, Verdi), sia alle proiezioni del settecentismo che giungono nell'Ottocento fino a Gounod (Faust), Offenbach (Orfeo all'inferno) e naturalmente Cajkovskij (La Donna di picche: il personaggio di Hermann, le carte, il diavolo). In ogni caso si tratta però più di memorie storiche sedimentate, ripensate se non reinventate, che di esplicite, riconoscibili citazioni.

Anche l'orchestra si rifà al più tipico organico settecentesco: legni e ottoni a due (senza i tromboni), timpani e archi, più il clavicembalo, cui è affidato non solo l'accompagnamento dei recitativi "secchi" ma anche parti "drammatiche" di rilievo (nell'elenco premesso alla partitura Stravinskij scrive "Cembalo (Pianoforte)"; alla prima veneziana fu impiegato il pianoforte, ma in molte esecuzioni successive fu ripristinato l'uso del clavicembalo: è una questione aperta). I recitativi "secchi" sono lo scheletro di un'opera che si articola in numeri chiusi chiaramente segnati in partitura e che consistono anche di "accompagnati", ariosi, arie, ensembles (Duetti, Terzetti e Quartetti), concertati e vari interventi corali. I tipi di aria comprendono come casi estremi una Cavatina (per Tom) e una Cabaletta (per Anne): in genere le parti vocali mantengono una costante cantabilità, con uso di intervalli ampi in funzione espressiva sia per Tom sia per Anne (la rovina di Tom sarà anzi sottolineata dalla perdita progressiva di questa facoltà di espandersi liricamente e dalle spire di un attanagliante cromatismo). Le arie, gli ensembles e i cori sono generalmente scritti in versi, mentre i recitativi sono in prosa. I vari numeri sono collegati da un deliberato impianto tonale che si rivela essenziale nella costruzione dei personaggi e delle situazioni (per esempio il la maggiore con cui l'opera si apre e si chiude) e il gioco delle modulazioni, mobile e spesso imprevedibile, vi recita un ruolo di primo piano.

Caratteristico è anche il ricorso, in alcune arie, a introduzioni strumentali e a soli "obbligati" che definiscono un clima, a seconda che si tratti di tromba, oboe, fagotto o corno. La parte strumentale presenta la trasparenza e la sobrietà di una composizione da camera: e come "musica da camera" l'autore considerava fondamentalmente la sua opera. I tratti più caratteristici dello stile stravinskiano si riscontrano però nel ritmo e nelle armonie. Nel ritmo predominano l'ostinato e il ribattuto, che scandiscono la vicenda come in una marcia ineluttabile, tanto oggettiva quanto ossessiva. I costrutti armonici sono invece spesso apparentemente "sporchi", in realtà sottoposti a un processo di acidificazione che li rende caustici e velenosi. Né mancano da un lato gli arcaismi modali, che offrono quasi un'oasi di pacificante consolazione, dall'altro le incursioni nella politonalità più inquieta e nervosa, per mezzo di continue sovrapposizioni e incroci. Nel complesso, però, l'opera mantiene una quadratura classica: divisa in tre atti, si articola in nove scene intese come entità a sé stanti, tre per ogni atto, e in un "a parte" in forma di Epilogo.

Il primo atto è introdotto da un brevissimo preludio, affidato quasi esclusivamente a una fanfara di trombe e corni, poco più di un segnale e un richiamo all'attenzione: l'autore lo considerava "non ouverture, né un preludio importante, ma semplicemente l'equivalente di 'on va commencer', 'si incomincia'. La prima scena del primo atto si svolge in un pomeriggio primaverile nel giardino della casa di campagna di Trulove (basso), padre di Anne (soprano), fidanzata di Tom Rakewell (tenore). Il Duetto iniziale di Anne e Tom, che diviene Terzetto con l'intervento, a parte, del padre di Anne, si svolge in un arcadico clima settecentesco, mite e idilliaco, riecheggiante teneri spunti mozartiani. Nel Recitativo secco che segue, Trulove offre a Tom un impiego in banca, ma Tom lo rifiuta e in un Recitativo seguito da un'Aria bellicosa rivela di nutrire altre ambizioni e di sperare nell'aiuto della fortuna: poi emette il suo primo desiderio, "vorrei molto denaro". Appare improvvisamente al cancello Nick Shadow (baritono), l'Uomo Ombra, il diavolo in incognito: la sua apparizione è contrassegnata da un arabesco del clavicembalo, un arpeggio che nel corso dell'opera ritornerà significativamente a quasi tutte le sue entrate. In un Recitativo accompagnato dall'orchestra Shadow annuncia a Tom che ha ereditato le ricchezze di uno zio sconosciuto. La sorpresa si mescola alla gioia, e nel Quartetto che segue Tom, Anne e Trulove manifestano i loro sentimenti, mentre Shadow, che Tom ha ingaggiato come servitore, lo invita a recarsi a Londra per curare i propri affari. Anne e Tom, rimasti soli, si salutano in un Duettino trasognato, che riporta i palpiti soavi del Così fan tutte mozartiano. In un nuovo Recitativo, accompagnato alternativamente dal solo clavicembalo e dall'orchestra, Tom chiede a Shadow quale sia il suo compenso. Shadow risponde elusivamente che tra un anno e un giorno egli pagherà quanto sarà giusto. Tom accetta di buon grado, suggellando il patto con una rapida cadenza "perfetta". La scena si chiude con un Arioso e un Terzettino: nell'Arioso Tom prende commiato da Anne e Trulove, promettendo di chiamarli a Londra al più presto; nel Terzettino, iniziato da Tom, i tre personaggi esprimono "ognuno per sé", come il compositore indica in partitura, i diversi stati d'animo al momento dell'addio. Poi, con un semplice arpeggio di sol maggiore sostenuto dal rullo dei timpani, Shadow, alla maniera di un banditore da fiera, annuncia al pubblico: "La carriera del libertino ha inizio".

La seconda scena si svolge a Londra nella casa di piacere di Mamma Goose (Mamma Oca, mezzosoprano). Un coro di sgualdrine e crapuloni, tra sfrontati ritmi marziali e carezzevoli seduzioni, inneggia brindando a Venere e a Marte. Shadow introduce Tom, affinché venga esaminato dalla padrona del locale prima di essere iniziato al piacere del bordello. In un Recitativo drammatico accompagnato dall'orchestra Tom risponde a tutte le loro domande, ma si arresta come confuso e sgomento di fronte a quella che riguarda l'amore vero. L'orologio a cucù suona l'una. "E' tardi!", conclude Tom. A un cenno di Shadow l'orologio torna indietro e suona la mezzanotte. Riprende il coro provocante delle prostitute e dei giovanotti. Tom replica intonando una malinconica Cavatina accompagnata dagli archi e dal clarinetto obbligato, nella quale piange il suo tradimento verso Anne, e prega il dio Amore di assisterlo, anche se sa di non avere la forza di resistere alla tentazione. Il coro delle cortigiane si fa allora sentimentale e invita Tom a dimenticare le sue pene e la sua tristezza tra le loro braccia. Ma Mamma Oca, reclamandolo per diritto di anzianità, s'impadronisce del giovanotto e s'allontana con lui, mentre il coro fa ala al loro passaggio con maliziose eppur enigmatiche, lubriche allusioni. Shadow alza il bicchiere augurando a Tom sogni dolci durante quel sonno alla cui fine l'attende la morte.

Con la terza scena ritorniamo nella casa di campagna di Trulove. E' una notte autunnale di luna piena. In un Recitativo accompagnato dagli archi e in un'Aria timbrata dal suono scuro e insinuante del fagotto concertante Anne esprime la sua desolazione per non aver ricevuto notizie da Tom. E' un momento di altissima concentrazione emotiva e di profonda umanità, che ricorda addirittura la severità incantata di certe Arie delle Passioni di Bach: il personaggio di Anne, creatura gentile e affettuosa, semplice e schietta, riceve qui la sua consacrazione di luce nelle tenebre. Ma non solo. Anne possiede anche la chiarezza della decisione; sicché, con repentino cambiamento d'umore, può slanciarsi in una brillantissima e inaudita Cabaletta, la cui sfacciata parodia di stilemi italiani, con il suo vertiginoso virtuosismo, non intacca la genialità di un'invenzione miracolosamente libera e travolgente.

La prima scena del secondo atto (a Londra, in casa di Tom) si apre con un lungo a solo (un'Aria intramezzata da un denso Recitativo) nel quale Tom dà voce alla noia e al disgusto della sua nuova vita, dissipata e oziosa, in città: si sente prigioniero, e al tempo stesso triste, svuotato. Sospira un desiderio: "vorrei essere felice". Ed ecco arrivare, preannunciato dal sinistro arabesco del clavicembalo, Shadow che reca il ritratto di Baba la Turca, una donna barbuta, mostruosa, che si esibisce come attrazione nei baracconi della fiera. Un Recitativo accompagnato prima dal solo clavicembalo, poi da secchi accordi dell'orchestra, e infine da un'insistente figurazione ritmica degli archi, sostiene il dialogo nel quale Shadow induce Tom a chiedere in sposa Baba la Turca, onde affermare con un atto gratuito e assurdo la propria incondizionata libertà. Nel Duetto finale i due compari, dopo una risata euforica, prorompono nella gioia incontenibile e insensata di mettere in atto la loro colossale e bizzarra burla. La seconda scena si svolge di fronte alla casa di Tom. Anne è giunta a Londra e si aggira sola e smarrita davanti alla dimora del fidanzato: questa sorta di ansiosa pantomima è accompagnata dal canto nudo e solitario di una tromba, evidente, anzi dichiarata reminiscenza del Don Pasquale di Donizetti. In un Arioso Anne manifesta tutto il suo affanno, che da concitato e fremente si trasforma in un più disteso e lirico melodizzare intriso di speranza. Al suono di un'allegra marcetta s'avanza un corteo nuziale: i servitori depongono a terra una portantina chiusa, scortata da Tom. Anne riconosce Tom: segue un Duetto nel quale la fanciulla dà sfogo alla sua gioia, è pronta a perdonare le miserie di cui Tom si accusa di fronte a lei e a dimenticare ogni offesa. Invano Tom cerca di persuaderla ad allontanarsi. A un tratto si ode la voce di Baba (mezzosoprano), che aprendo lo sportello della portantina e sporgendo il volto velato protesta con voce querula di essere stufa di aspettare. Il Duetto si muta in Terzetto (anzi Trio, come scrive Stravinskij): Anne apprende da Tom che Baba è sua moglie e, al colmo del dolore, si dispera e fugge. E' uno dei momenti più intensi dell'opera, delicato e al tempo stesso amaramente patetico e grottesco, gonfio di ironia tragica: come ha scritto Massimo Mila, "nessuna parola riuscirebbe mai a rendere con l'evidenza, con la realtà di questo canto, la disperazione d'una fatalità assurda che separa due esseri proprio nel momento in cui riconoscono ancora una volta d'amarsi più di ogni altra cosa al mondo". Partita Anne, ha inizio il Finale, con effetto quasi straniante nella sua solenne indifferenza: Tom aiuta con galanteria la sposa a uscire dalla portantina e si avvia con lei sullo scalone; Baba, come una grande diva, si toglie il velo e mostra la sua barba nera, fluente, alla folla, che trionfalmente l'acclama.

La terza scena ha luogo nella stessa stanza del primo quadro, ora piena di oggetti strani e improbabili. I due sposi siedono a tavola per colazione. Baba attacca un'Aria monotona e cantilenante sopra un "perpetuum mobile" degli archi e dei clarinetti, distrattamente seguita dal marito annoiato; allora, per attirare la sua attenzione, intona una sguaiata Canzoncina sentimentale, mentre l'orchestra tace del tutto. Tom la interrompe brutalmente e scoppia una rissa, con l'isteria di Baba tradotta ora in furiose esclamazioni ora in disumani gorgheggi. Per farla definitivamente tacere, Tom le caccia sul viso la sua parrucca, poi sfoga la sua indifferenza in un breve Recitativo, infine si addormenta arcanamente ipnotizzato da una lunga nota tenuta del corno con sordina e della viola sul ponticello. Nella Pantomima che segue entra di soppiatto nella stanza Nick Shadow recando con sé una strana, fantastica macchina: prende un panino dalla tavola, apre uno sportello sul davanti della macchina, vi caccia dentro il panino e richiude lo sportello. Poi raccoglie da terra un coccio di vaso, lo getta in un imbuto della macchina, gira una ruota e il panino cade fuori da un canale. Apre lo sportello, tira fuori il pezzo di porcellana, v'introduce il panino e ripete la manovra: tutto ciò deve accadere in modo che il pubblico si accorga che tutto il meccanismo è un assurdo imbroglio. Soddisfatto, Shadow canterella una triviale melodia. Quando dall'orchestra sale la nota figura arpeggiata del clavicembalo che rivela la presenza diabolica, Tom si sveglia pronunciando il suo terzo desiderio: "vorrei che fosse vero". Poi, in un Arioso, racconta d'aver sognato una macchina capace di liberare l'umanità dal bisogno, trasformando i cocci o le pietre in pane. Shadow gli fa vedere la macchina e lo invita a provarla: detto fatto. Tom, estasiato, cade in ginocchio. Attacca a questo punto il vivace Duetto finale, nel quale Tom si abbandona all'entusiasmo e incita all'azione, dimenticando Baba e i suoi lamenti, più che mai sicuro della protezione di Shadow.

Nella sua riconfermata varietà - una prima scena comicamente grottesca, una seconda intensamente drammatica, una terza in modo toccante patetica - il terzo atto costituisce il culmine sia drammatico sia musicale dell'opera: un culmine però progressivamente segnato da un raffreddante anticlimax. Esso inizia in un pomeriggio di primavera nella stessa stanza in casa di Tom, dove una folla di Rispettabili Cittadini è convenuta per assistere chiassosamente alla vendita all'asta dei suoi ultimi beni dopo la bancarotta. Baba è seduta ancora con la parrucca in testa allo stesso posto che occupava alla fine del secondo atto. Giunge Anne, in cerca di Tom. Il suo impaccio, la sua esitazione sono subito travolti dall'eccitazione per l'inizio dell'asta, condotta dal banditore Sellem (tenore caratterista) con caricaturale frenesia: da notare lo straordinario effetto d'un "vibrato" di tromba che scandisce ossessivamente su una sola nota ribattuta e via via ascendente di grado il caotico avvicendarsi delle offerte. Roman Vlad vede in questa scena "gesti musicali da vertiginosa 'toccata' ; per Massimo Mila essa si configura invece come "una specie di gigantesco rondò". Quando il banditore si avvicina a Baba credendola un oggetto dell'asta, Baba si risveglia, si libera della parrucca e riattacca la sua Aria là dove l'aveva lasciata nel secondo atto. La folla ora non ha occhi che per lei, la regina della fiera. Si odono fuori scena le voci di Tom e Shadow che cantano una canzonetta volgarmente allusiva. Baba e Anne le riconoscono, incontrandosi. Nel Duetto che segue Baba esorta Anne a rintracciare Tom per toglierlo dalle grinfie del suo diabolico servitore. Di nuovo risuona dall'esterno la voce di Tom e Shadow, ancora più sguaiata, ancora più inquietante. Anne si appresta a partire. Durante la Stretta finale, elaborata in uno spettacolare reticolo di contrappunti e canoni, l'uscita trionfale di Baba è appena increspata dall'ultima ripresa della canzonetta dei due compari, fuori scena, dileguante in lontananza.

E siamo alla lugubre scena del cimitero, la seconda dell'ultimo atto. E' una notte buia, senza stelle. Arrivano Rakewell e Shadow, soffermandosi davanti a una fossa appena scavata. Sono trascorsi l'anno e il giorno durante i quali Shadow si era impegnato a servire Tom. Ora esige il suo compenso. Non vuole denaro, ma l'anima del suo padrone. Quanto al corpo, la fossa è pronta e Tom potrà uccidersi con l'arma che vorrà allo scoccare della mezzanotte. Tom è terrorizzato, cupo, rassegnato. Ma Shadow, attaccando improvvisamente un Recitativo, dichiara di voler offrire a Tom un'ultima possibilità: egli potrà giocare la sua anima in una partita a carte. Il destino giocato in una partita a carte: "simbolo" - commenta Massimo Mila - "della vita dell'uomo, il quale non è altro che un trastullo, secondo il deterministico pessimismo stravinskiano, nelle mani di forze superiori, di cui egli non può penetrare le leggi misteriose". Geniale è l'intuizione di accompagnare il lungo Duetto della fatale partita con il suono oltremondano, metallico e duro, livido e glaciale, del clavicembalo solo: sono lenti arpeggi bitonali, che ogni tanto si condensano in accordi arpeggiati, gravi e spaziosi come in una danza macabra, ossessionanti e implacabili come in un "ostinato perpetuo". Ancora Mila: "C'è una logica elusiva e inafferrabile nelle evoluzioni di quegli arpeggi che non hanno fretta; la bitonalità produce l'effetto di una scissione dolorosa, d'un vuoto che non si riesca a colmare, d'una ferita che non rimargina". Tom, soccorso dal pensiero di Anne, la cui voce da ultimo risuona fuori scena con la forza dell'amore, vince le tre "mani" e allo scoccare della mezzanotte ha salva l'anima; ma il diavolo, scornato e beffato, per vendicarsi della sconfitta lo priva della ragione. Sulla scena si è fatta oscurità completa. Quando spunta l'alba, Tom siede sorridente e stranito sul verde tumulo della sua tomba, si cosparge il capo d'erbetta e con voce infantile canterella una filastrocca, dicendosi coronato di rose come Adone, in attesa della sua bella Venere: con orrore ci accorgiamo che la sua cantilena altro non è che una parodia della canzonetta sguaiata e volgare che poco prima aveva allegramente condiviso con il diavolo.

Nell'ultima scena Tom è nel manicomio di Londra. In un Arioso pregno di attesa e di calma spettrale vagheggia l'arrivo imminente di Venere. Invano i matti cercano di persuaderlo che l'attesa è vana: come lemuri gli danzano e cantano intorno con gesti di scherno un lugubre Minuetto. Ma giunge Anne, introdotta dal guardiano, che mette in fuga i matti. Tom l'accoglie, credendola Venere, con un Recitativo quasi Arioso di dolce, mortale spossatezza, lancinante e doloroso, chiedendo alla Sublime Dea di accoglierlo nel suo grembo e di cullarlo. E come nel finale del Peer Gynt di Ibsen, Anne canta una Ninna-nanna d'infinita, semplice e tenera bellezza, fino a che Tom non si addormenta; poi, raggiunta dal vecchio Trulove, parte, giurando fedeltà eterna al loro amore. Quando Tom si risveglia, rendendosi conto che Anne non è più lì, si dispera e impreca, accusando i matti della sua scomparsa. Poi invoca Orfeo perché intoni il "canto del cigno" sulla morte del giovane Adone. Il coro dei matti raccoglie l'invito al compianto, e con una lamentazione funebre di cinerea fissità, nella tonalità di la minore, prende congedo dallo sfortunato amante, mentre il sipario lentamente si chiude. Ma prima che giunga a chiudersi del tutto, Nick Shadow lo ferma con un gesto e invita gli attori alla ribalta. In teatro si accende la luce. Ora gli uomini sono senza parrucche e Baba la Turca senza barba. Un festoso tema orchestrale in la maggiore, lietamente circolare, incornicia l'Epilogo, nel quale ogni personaggio a turno dà la sua versione della vicenda e tutti insieme cantano la morale della favola: "Per chi nell'ozio se ne sta / il diavolo ha / da far, per lei, signor, per lei, bella signora, / per lei e lei!". Poi s'inchinano rispettosamente al pubblico ed escono.

Non è questo dell'Epilogo il solo imprestito mozartiano che Stravinskij e i suoi librettisti si concedono. Anzi, come si è già accennato, il ritorno a forme e atteggiamenti del passato raggiunge in quest'opera un'evidenza forse maggiore che in qualsiasi altra opera precedente per ciò che riguarda tanto gli estrinseci aspetti formali quanto gli intrinseci elementi del linguaggio sonoro (melodia, ritmo, armonia, strumentazione ecc.). Eppure The Rake's Progress ci appare più che mai oggi, cinquantatré anni dopo la sua prima apparizione, un'opera ineludibilmente, direi fatalmente, forse disperatamente novecentesca. Stravinskij gioca con delle regole, ma poi le fa saltare. In altri termini, il gioco stravinskiano, se davvero di gioco si tratta, è, come ben rappresenta la partita a carte nel luogo simbolico della morte, il cimitero, un gioco da giocarsi in un cerchio magico, se non addirittura in faccia alla morte: sotto questo aspetto niente vi è di più serio che la finzione sub specie ludi. Non solo. In un certo senso The Rake's Progress è anche un'opera autobiografica, e il libertino altri non è che Stravinskij stesso, compositore allo specchio della storia e dell'uomo. Con una differenza, però: Tom, incarnazione dell'uomo senza qualità moderno, vive la contraddizione interna di chi soccombe senza sapere perché e senza raccogliere altro frutto che insoddisfazione e rimorso: la sua debolezza è una sorta di spleen della volontà. Stravinskij, al contrario, reagisce con la forza della volontà alla coscienza della vanitas vanitatum e assume di volta in volta, come il grande burattinaio della favola, anche gli attributi del diavolo e quelli della candida fanciulla mossa dall'amore. E la salvezza è data proprio da questo trasformismo, che reintegra eroicamente la tragica dissociazione dell'individuo in una categoria di superiore distacco, in una visione panoramica, l'unica che possa consentire il recupero della totalità. Quando Stravinskij affermava che "l'arte richiede soprattutto la coscienza dell'artista, pena la perdita di se stessi", non faceva altro che riaffermare un principio che avrebbe esteso a ogni fase della sua "carriera" di compositore "libertino". E se la storia ci ha insegnato che in arte il libertinaggio può essere anche indice di alta moralità, il Novecento vi ha aggiunto la consapevolezza che ogni epoca costituisce un'unità storica. Non vi è pessimismo, dunque, ma semmai una vena di scetticismo nelle parole che Stravinskij aggiunge a questa consapevolezza: "Non apparirà mai se non come una cosa o l'altra ai suoi più parziali contemporanei, naturalmente, ma la somiglianza è graduale, e col tempo l'una cosa e l'altra divengono gli elementi compositivi della stessa cosa".

Sergio Sablich

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

1. In principio fu l'OPERA. Presentando The Rake's Progress, Stravinskij, amante riamato di tutte le forme musicali, si affrettò a dichiarare di aver voluto scrivere una vera opera, fatta di Arie e Recitativi secondo la tradizione classica, e non un dramma, dal quale anzi intendeva porsi in totale antitesi. Per meglio e con più forza esplicitare questo concetto nel colloquio avuto con Emilia Zanetti alla vigilia della prima veneziana era giunto a rigettare perfino il Boris Godunov di Musorgskij. Alla domanda su cosa l'avesse attratto "nel modello dell'opera italiana-mozartiana, con la sua struttura a pezzi chiusi" aveva infatti risposto:

L'opera mi ha sempre interessato fin dall'inizio, mentre non gradisco, né tanto meno credo al dramma musicale. Per esempio Musorgskij è innegabilmente un grande artista ma, mentre ammiro Glinka e le sue opere, il Boris Godunov non mi dice niente.

Se tale era la sorte di un capolavoro del repertorio russo, figuriamoci quella riservata al Pélleas et Melisande! Richiesto del suo interesse in merito, Stravinskij ribadiva:

[Mi interessa] Meno ancora. Il dramma musicale non può creare tradizioni. Esso è l'assenza totale della forma. E, per me, l'arte acanonica non ha alcun interesse. On doit toujours se donner des limites. Ciò che è anche la condizione per essere realmente liberi: non si ottiene la libertà se non si accettano le costrizioni, se non si lavora entro certi limiti ben definiti, tra un principio e una fine. Il vago, l'indeterminato è sospetto. Guardiamo ad esempio a Verdi stesso. Nell'Otello e nel Falstaff prendendo la via del dramma musicale egli ha smarrito se stesso; di contro che mirabile opera la Traviata, e, soprattutto, Il trovatore. Ebbene in entrambe la bellezza si appoggia ad una solida architettura musicale.

Va da sé che in questi colloqui "a caldo" Stravinskij forza alquanto (sembra inutile sottolineare che, a modo suo, Falstaff può essere considerato un ritorno convinto al numero chiuso). Ciò che interessava era tener lontana qualsiasi ombra o sospetto di compiacenza nei confronti del "dramma musicale" in nome dell'opera assoluta e assolutamente intesa.

A questo atto di fede nel genere si può associare quello sulla sua attualità e Stravinskij ricostruisce a ritroso il suo iter, abbastanza anomalo, verso quest'opera e verso l'opera in assoluto, parzialmente rinnegando anche alcuni propri lavori e considerando Mavra (un micromelodramma) la premessa stilisticamente più vicina:

L'usignolo mi sembra assai più lontano di molte opere inglesi di tre secoli fa, o dell'opera mozartiana italiana, che è stata tanto trascurata e malintesa dagli autori di melodramma. Mavra suggerisce un confronto con questa mia attuale opera, in quanto quest'ultima risponde al mio concetto di opera [...].

Questa dunque la strada verso il prodotto finito, così come l'autore volle rievocarla. Fondamentale, a questo punto, il discorso che riguarda il rapporto tra musica e testo, musica e lingua, musica e prosodia:

Da molti anni avevo coltivato l'idea di compone un'opera inglese. Con ciò intendo dire una musica che traesse origine dalla prosodia inglese, elaborata a modo mio; come avevo fatto con le prosodie: russa (L'usignolo, Mavra, Le nozze); francese (Persefone) e latina (Oedipus rex, Sinfonia di Salmi).

Il problema della lingua era stato posto anche nel colloquio con Emilia Zanetti. Di fronte alle prevedibili obiezioni sulla possibilità dell'inglese di funzionare in un'opera quale intendeva l'autore, Stravinskij si era affrettato a mettere le mani avanti:

Dopo aver scritto su testi russi, francesi e latini era venuta la volta di interessarmi alla prosodia inglese. E conoscendo la lingua è facile rendersi conto della quantità di problemi che mi son trovato a risolvere. Nondimeno perché mai l'inglese dovrebbe essere una lingua antimusicale? Ogni cosa vale per quel che le si chiede di essere. Se avessi voluto una lingua sonora, piana e dolce, mi sarei rivolto naturalmente all'italiano. L'inglese ha altre riserve musicali. Ma considerarlo antimusicale è continuare un pregiudizio smentito prima che da me da due secoli di musica cantata inglese - il XVI e il XVII - e da un artista come Purcell.

Questi dunque gli antefatti (veri o ricreati a posteriori), che collocano i problemi di genere, stile, lingua e struttura. Nemico del dramma musicale, uscito nauseato dai rituali di Bayreuth, Stravinskij non soffriva, almeno in apparenza, del male degli impotenti, il dubbio. The Rake's Progress volle dunque essere, già in partenza, un manifesto poetico inteso a smantellare tutta una parte della storia del teatro musicale. Il rifiuto del dramma era infatti il rifiuto di concedere alla musica possibilità espressive che non fossero quelle, astratte ed assolute, dell'antica galleria degli affetti. Per far ciò occorreva ricorrere non solo ad un soggetto adatto, ma anche a versi e strofe dotate di strutture a loro volta solidissime. E infine che fare del vecchio Recitativo che, nell'opera italiana, aveva sempre funto da ponte tra un numero chiuso e l'altro assicurando al dramma, o, se vogliamo rifuggire da questa sospetta parola, alla vicenda, di andare avanti e di passare da un numero all'altro? Era un compito arduo e solo felici circostanze e una serie di sceltissime collaborazioni potè determinarne il felice esito.

2. La folgorazione avvenne nel 1947 all'Art Institute di Chicago nel corso di una visita casuale. Nel Museo era esposto il celebre gruppo di quadri di Hogarth intitolato The Rake's Progress, normalmente custodito nel Soane Museum di Londra. Iniziata verso il 1732 la serie degli otto dipinti intendeva replicare il successo della precedente The Harlot's Progress, sei incisioni replicate innumerevoli volte che avevano dato al pittore la fama che, ispirata al moralismo illuministìco, illustrava gli inizi, il declino e la fine ("per una malattia propria alla sua professione" come notava Jean André Rouquet, autore delle Lettres de Monsieur*** à un de ses amis à Paris pour lui expliquer les Estampes de Monsieur Hogarth pubblicate nel 1749 per illustrare le serie delle incisioni di Hogarth) di una prostituta. Il vizio "in progress" doveva affascinare molti altri nel periodo, in pittura e soprattutto in letteratura, ivi compresi campioni dell'illuminismo nero come il marchese de Sade. Dalla prostituta Hogarth passò al libertino, allargando e raffinando l'impianto. Reso cauto dagli abusi che si erano verificati con le incisioni non autorizzate del precedente ciclo, Hogarth attese il 1735 e la promulgazione della legge sui diritti d'autore degli incisori per trarre dagli otto dipinti ad olio altrettante lastre. Posto a Chicago davanti agli otto quadri Stravinskij non ebbe dubbi: "[essi] mi suggerirono immediatamente una serie di scene d'opera".

L'evento non è peregrino come può sembrare. Non credo che Stravinskij fosse a conoscenza del fatto che uno dei modelli e dei capolavori della storia del teatro musicale, Il matrimonio segreto di Cimarosa, era tratto da un testo teatrale a sua volta ispirato a una terza serie di quadri e incisioni di Hogarth (The Marriage à la mode). Se lo avesse saputo, la notizia avrebbe certo solleticato la sua ambizione di essere nella tradizione degli autori delle "vere" opere.

Non è difficile tracciare il parallelismo tra i cicli di William Hogarth e i libretti d'opera tradizionali. Ambedue isolavano in singoli numeri momenti essenziali o, per così dire, essenzialmente vistosi, di una trama narrativa. Il tutto in vista di un finale da cui potesse scaturire una morale: per lo più quella della triste fine dei colpevoli, passati attraverso una serie di disavventure e di progressivo decadimento, oppure quella del premio riservato ai buoni che avevano superato ogni sorta di tristi vicende.

Nell'impianto melodrammatico di Hogarth contano i momenti essenziali, i caratteri, il colore e i chiaroscuri. Le scene intime e quelle di insieme sono parimenti attente ai minimi particolari dell'impianto. Quanto al trionfo della virtù e alla progressiva edificazione, essa ritengo interessasse pochissimo Hogarth. Piuttosto veniva dedotta come lezione della contemplazione dei mali del malvagio. Ed era su questi mali che il pennello, e più ancora il bulino acre di Hogarth, si esercitavano con compiacimento, allineandosi con prodotti letterari analoghi (per limitarsi a un solo esempio, basterà citare Moll Flanders di Daniel Defoe, del 1722, che precede di circa un decennio The Harlot's Progress). La morale illuministica si nutriva dell'utopia del bene, ma soprattutto di una sfiducia radicata nella virtù umana e se un filosofo affermava che il mondo progrediva grazie alle mele di Satana, queste a loro volta costituiscono un motore essenziale per qualsivoglia vicenda teatrale e operistica. Del resto, per chi avesse tempo e voglia di leggerli, le deduzioni morali o moralistiche erano affidate ai testi già ricordati di Rouquet. Questi forniva il coté riflessivo al gusto estetico e poteva iniziare la sua Lettre Deuxième con queste parole: "Credete voi che sia possibile correggere gli uomini? Per quel che mi riguarda non ne conosco alcun esempio [...] nonostante ciò è lodevole lavorare in tal senso e cercare di ispirare allontanamento e disprezzo per tutto ciò che è male. La follia degli uomini è d'altra parte l'incontestabile patrimonio della satira [...]". Così, prima che Richardson con la sua Pamela offrisse ai lettori il versante piacevole delle lacrime e della virtù e prima che il marchese de Sade scoprisse che la medesima virtù è oggetto di raffinato compiacimento e può provocare "prodigiosa eccitazione" nei viziosi, gli inglesi rabbrividivano voluttuosamente di fronte ai tableaux di Hogarth e alle tristi (fino a un certo punto) vicende della prostituta e del libertino. Queste ultime concluse, all'ottavo quadro, con un vivace manicomio: esito ultimo che il moralismo assegnava di preferenza, nelle sue narrazioni, ai malvagi, veri o presunti, in omaggio, probabilmente, al concetto che il male deriva dalla follia degli uomini.

3. Le otto scene della Carriera, ricche di particolari e affollate di personaggi, secondo il costume dell'autore, sono state lette anche con vistose varianti interpretative. La prima mostra il giovane eroe che, dopo aver ricevuto un'eredità, inizia lo sperpero affidandosi a un sarto, del tutto insensibile alle lacrime di una ragazza che tiene in mano un anello, pegno di una promessa che non sarà mantenuta. La seconda scena fa vedere il libertino al suo risveglio, circondato da clienti e persone che offrono servizi vari, dal maestro di ballo a un personaggio che, secondo Rouquet, è "un bravo pronto ad ogni sorta di favori" (raccordabile quindi alla figura di Nick nell'opera di Stravinskij). Segue il libertino ubriaco nella Taverna della Rosa. Nella quarta scena i creditori assalgono il libertino, mentre la ragazza tradita offre i propri averi per riscattarne la libertà. Dimentico di tanta dedizione il libertino sposa una donna vecchia, laida e ricca (V) ed esulta (VI) all'invenzione della macchina dell'oro capace di trasformare qualunque oggetto nel prezioso metallo. Ormai in prigione (VII), il protagonista è maltrattato dalla moglie, che ha trascinato nella propria rovina. Su un tavolo giace il responso negativo di un direttore di teatro al quale egli ha inviato una commedia scritta come ultima risorsa. Alla perdita dei beni e della libertà segue, nell'ultimo quadro, la perdita della ragione. Nel manicomio il protagonista ha accanto la ragazza che ha disprezzato, ma non sembra neppure in grado di riconoscerla.

4. Gli spunti che tale ciclo poteva offrire a Stravinskij erano molteplici. Fondamentalmente la contrapposizione tra la figura femminile virtuosa e tutta dedita al bene dell'uomo amato e alla sua redenzione, e quella del libertino. L'intera vicenda, con la punizione del colpevole (il dapontiano "fin di chi fa male") poteva subito riportarsi a innumerevoli modelli e a quello di Don Giovanni in particolare. Dell'empio punito il libertino di Hogarth è una visione meno eroica e filtrata attraverso la morale borghese. È interessante notare come, tanto Stravinskij quanto Auden, abbiano insistito sul fatto che stavano scrivendo un'opera morale e il compositore ribadì che la "qualità teatrale [di Hogarth] si manifesta in quel gusto della narrazione per serie di immagini con una moralità che ho voluto rispettare". E, per meglio intendersi, non si trattava qui di una morale astratta in cui gli autori credevano, ma di una morale che doveva costituire il filo conduttore della vicenda, la quale è appunto "in progress", è in vista di una soluzione drammaturgica che non può non sottintendere la volontà di dare un senso al tutto (laddove andrà detto che l'adozione, in molte opere contemporanee, di scene staccate risponde alla volontà di sottrarre un senso al teatro e al melodramma in particolare, o per lo meno di sottrargli un senso esplicito e predeterminato). Lo stesso Stravinskij ha adottato la traduzione italiana "carriera" per "progress" perché "carriera conserva l'ironia di Hogarth più di progresso: carriera difatti è, anche se quale genere di carriera!".

A questa linea generale si può aggiungere la suggestione che le scene della prigione, quelle della sala da gioco con la macchina dell'oro, della taverna e dello sposalizio potevano esercitare, essendo raccordabili ad altrettanti numeri chiusi tradizionali dell'opera (anche se il matrimonio con una donna ricca e brutta era insolito). Non tutto naturalmente fu accolto nel libretto e da certe suggestioni Stravinskij trasse ispirazione per soluzioni completamente diverse. Padrino dell'opera fu, come ha dichiarato lo stesso compositore, Aldous Huxley, al quale Stravinskij chiese consiglio dopo la visita all'Art Institute di Chicago, per la scelta di un librettista: "Quando descrissi a Huxley il tipo d'opera in versi che volevo scrivere egli mi assicurò che Auden era il poeta adatto con cui collaborare. Di conseguenza nell'ottobre del 1947 scrissi ad Auden dicendogli la mia idea". I due lavoravano insieme in California nel novembre successivo. Qui fu realizzato, con il contributo determinante del compositore, il primo abbozzo della trama e delle singole scene, comprensivo delle indicazioni dei numeri musicali corrispondenti. Per il completamento del lavoro e la stesura Auden scelse poi come collaboratore Chester Kallman". "Nel marzo 1948 [essi] mi presentarono quello che io ritengo essere uno dei libretti più belli che siano stati mai scritti" notò Stravinskij, aggiungendo: "La composizione della musica mi tenne occupato per tre anni". L'incontro felice con Hogarth si era concretizzato con quello, altrettanto fortunato, con Auden. Qui, come sempre, l'infallibile non aveva sbagliato nemmeno una mossa.

5. Non a caso Stravinskij ha pubblicato il testo della prima sceneggiatura della Carriera di un libertino. Essa non differisce molto dall'impianto definitivo. Può anzi illuminare sulle intenzioni che hanno determinato certe scelte, o passaggi e momenti che poi la stesura definitiva, per la necessaria essenzialità del libretto per musica, ha in parte sottinteso. È comunque un documento eccezionale che testimonia dell'ambizione degli autori che vollero non soltanto scrivere un'opera nel senso pieno del termine, ma fare un vero e proprio percorso a ritroso nell'intera storia del melodramma e si potrebbe persino dire del teatro. Pur conservando la linea narrativa e alcune proposte di Hogarth, queste furono inserite in un piano di ben più ampio respiro. Come notò lo stesso Auden, a Hogarth furono aggiunti

tre miti comuni: 1) la storia di Mefistofele - cioè il protagonista Tom Rakewell si prende un servo chiamato Ombra; 2) una partita di carte con il diavolo in cui il diavolo perde per soverchia fiducia in se stesso; 3) il mito dei tre desideri - nell'Opera il primo desiderio di Rakewell è di essere ricco, il secondo di essere felice e il terzo di essere buono. Questi tre desideri sono in relazione con le tre tentazioni e rispettivamente cioè con il desiderio del piacere, il desiderio dell'assoluta libertà spirituale in qualche atto gratuito, e il desiderio di diventare il salvatore del mondo.

In definitiva il testo doveva risultare una fusione del mito faustiano, della storia di Don Giovanni e di varie altre leggende connesse, come quella dell'uomo che conduce la sua partita con la morte e con il diavolo. Diviso tra l'amore puro di Anna e l'accettazione di una vita semplice da un lato, il desiderio di sperimentare dall'altro, Tom - Ulisse rovesciato che segue la conoscenza attraverso il male e l'abnorme - non può accettare la sfida. Il libertino cerca la libertà e per riaffermarla (e non per uscire dalle ristrettezze economiche, come in Hogarth) sposa non già una donna ricca e brutta, ma Babà la turca, un essere mostruoso. Con questo atto di volontà Tom dovrà affrancarsi non solo dalla tirannide della morale e della coscienza, ma anche da quella della concupiscenza. I suoi tre desideri esplicitano uno dei passi più enigmatici del vangelo, quello in cui Cristo nel deserto viene tentato da Satana a sperimentare la sua potenza di Figlio di Dio, violando i confini dell'umano.

6. È evidente, da questo modo di elaborare gli spunti offerti da Hogarth, che nella trattazione dei miti della conoscenza e dell'arbitrio, della sperimentazione umana e della morte come scotto pagato per la vita, gli autori andarono molto oltre. Nel finale è esplicitamente ricordato che Dio è buono, ma, pur soffrendo come Padre, non può opporsi alla giustizia e cioè alla morte e alla punizione. È una visione cristiana e addirittura cattolica che presuppone il libero arbitrio, nonché l'esistenza del male. E non sorprenderà che, rispondendo a una obiezione sul concetto di libertà (questa volta in sede estetica) Stravinskij abbia risposto in tutta tranquillità di essere vicinissimo al cattolicesimo, aggiungendo: "Io sono portato a questo dalla mia educazione spirituale come dalla mia natura. La religione ortodossa che professo è abbastanza vicina al cattolicesimo. E non sarebbe da meravigliarsi se un giorno divenissi cattolico". Sarebbe errato considerare queste affermazioni come semplici boutade (come invece si è fatto). In realtà Stravinskij era un credente; credeva nella missione dell'artista e, nei limiti di essa, nel bene e nel male, e nello scrivere la Carriera credeva di scrivere appunto un'opera "morale", e che tra i compiti dell'artista vi fosse quello di esplicitare i sensi nascosti delle vicende umane mediante la loro esposizione mitica sul palcoscenico. In tal senso l'affermazione del musicista di aver dedicato l'intera vita all'Opera va presa in senso letterale, al di là della quantificazione dei lavori e delle alchimie dei cataloghi e dei dati biografici. E solo questa fede incrollabile fa sì che il libretto non diventi una mera sperimentazione sul teatro precedente o una copia sovrabbondante di quanto già il melodramma e il dramma avevano fatto in innumerevoli versioni. Compito dell'uomo del Novecento non è quello di negare, ma quello di coniugare con formule vecchie e rinnovate, eterne e risperimentate, la verità o le verità. Dunque nessun rifiuto del passato, ma la sua accettazione. L'opera è accettata come genere, il libretto è accettato nella sua concezione classica (Auden biasimò lo stesso libretto del Cavaliere della rosa di Hofmannsthal, a suo avviso troppo letterario, prefendogli quello ben più essenziale della Sonnambula di Bellini) e le sue strutture sono riprese non già da un passato vicino, bensì da quello remoto dell'opera italiana del Settecento e del primo Ottocento. Il che, tradotto in termini di estetica, significò neoclassicismo. E al culmine del cosiddetto neoclassicismo stravinskijano si colloca comunemente e giustamente La carriera di un libertino.

7. Ma sui termini occorre intendersi. Il neoclassicismo stravinskijano non era dimostrazione di bravura, raffinato gusto per la ripetizione aggiornata, abile esercizio di mano, ma ancora una volta, o di conseguenza, atto di fiducia nelle forme o nella Forma. Già la prima stesura della sceneggiatura reca, come si è detto, la suddivisione della partitura in numeri chiusi, quelli appunto dell'antica opera italiana: Recitativo, Aria, Cabaletta, Duetto, Arioso, Terzetto, ecc. E la partitura definitiva esplicita le medesime indicazioni con meticolosità puntigliosa (sono indicati anche i Recitativi tra le varie riprese delle Arie e le riprese stesse, e in un caso la Cabaletta è addirittura intitolata a parte, come se fosse distinta dall'Aria a cui in realtà appartiene). I Recitativi sono poi accompagnati o secchi e cioè "con pianoforte". Così nella prima sceneggiatura. Nella versione definitiva il pianoforte rimase come soluzione alternativa ad libitum per il cembalo, preferito e adottato dall'autore nelle esecuzioni da lui stesso dirette. L'orchestra è molto sobria e comprende, oltre agli archi e ai legni, due soli corni, due trombe e i timpani. Un semplice confronto con l'orchestra di fiati e percussioni di Mavra, opera di soli trenta minuti, è illuminante. Parimenti il discorso musicale e le soluzioni timbriche sono di assoluta trasparenza, al pari delle parti vocali, sempre cantabili. Che la musica dovesse derivare dalla prosodia della lingua inglese non fu ancora una volta un semplice proponimento di Stravinskij, ma una realtà effettivamente realizzata. Il testo è sempre comprensibile, come lo era nelle opere di Mozart, di Rossini, di Verdi e degli altri italiani (e la comprensibilità del testo non è la percezione diretta delle singole parole, che è perseguita semmai nel dramma musicale e non nell'opera). Anche il gioco non è mai gratuito. E se Tom nella Scena Terza dell'Atto Secondo blocca la cadenza finale dell'Aria di Babà la Turca mettendole una parrucca sul viso, là medesima cadenza sarà ripresa e completata quando nell'atto seguente la parrucca verrà tolta nel corso dell'asta. Non è una trovata comica (o solo questo): la ripresa indica il riemergere della funzione estraniante del personaggio. Ma il gesto musicale può anche avere altri sottintesi: per esempio quello che La carriera di un libertino riprendeva i moduli belcantistici dopo una lunga interruzione. Analogamente alcuni arcaismi inseriti da Auden nel libretto e, per analogia, rispettati nel linguaggio musicale con soluzioni parallele rispondono alla volontà di storicizzare l'opera e di dialogare con il passato o di coniugarlo.

8. Libretto e partitura rispettano la divisione ternaria. Tre gli atti e tre le scene in cui ciascuno è suddiviso. Dopo una breve fanfara di sapore monteverdiano che introduce brevemente e asetticamente l'opera, il primo quadro si apre con un Duetto dai toni idilliaci. Tom e Anne esaltano la natura e la comunione dell'uomo con essa nella vita semplice. Il Duetto diventa Terzetto quando Trulove esce dalla casa e si ferma a contemplare commosso i due giovani. Nel Recitativo che segue Trulove offre a Tom un posto, non accettato, di contabile. L'eleganza tenera dell'inizio cede nell'Aria in cui Tom esprime la propria ambizione. Una breve invocazione recitata (Stravinskij prescrive parlando) al denaro di Tom, "I wish I had money" è seguita da un capriccioso ghiribizzo del cembalo che introduce Nick Shadow, l'Uomo-Ombra, il Diavolo. Come nella tradizione classica il Recitativo secco cede a quello accompagnato dall'intera orchestra quando Nick, dopo che Tom ha fatto intervenire anche Anne e Trulove, annuncia solennemente l'eredità. Il Quartetto che segue consente a Stravinskij di sfidare gli operisti italiani nell'arte di esprimere musicalmente sentimenti contrastanti. Nel Duettino di congedo tra Tom e Anne e nell'Arioso e Terzettino conclusivi del primo quadro riappare l'atmosfera idilliaca dell'inizio. Ma esso si chiude per contrasto sul Recitativo imperioso di Tom: "The Progress of a Rake begins!". Teatralmente e musicalmente questo quadro rappresenta dunque un vero e proprio prologo che avrà un pendant nell'ultima scena, l'epilogo. Un altro elemento fondamentale è già evidente sin dal Preludio. I numeri chiusi sono di estrema brevità e concisione, modelli citati si direbbe e, piuttosto che rielaborati, ripresi quasi aforisticamente secondo una prassi, qui tuttavia usata in modo personalissimo, che è propria di altre scuole novecentesche. Anomalo anche il ricorrente richiamo al passato delle melodie e di alcuni "affetti" espressi dalla musica. Già nel Prologo si possono cogliere echi e ammiccamenti ad altri compositori che in qualche caso si spingono fin quasi alla soglia di ostentate citazioni. Cajkovskij e Mozart sembrano i modelli più vicini. In questo duplice modo di riportarsi alle forme e ai contenuti musicali dell'opera tradizionale, consiste in realtà il vero neo-classicismo di Stravinskij. Ciò che impedisce di fare del Rake's Progress un sia pur elegante lavoro di restaurazione è proprio la sintesi folgorante. Le forme vengono assunte in microorganismi concentrati come se l'autore volesse non già compiacersi di esse, ma ricercarne la vera e più autentica origine.

Dopo questo inizio la scena si sposta nel bordello. Gli interventi del coro (prostitute e crapuloni) in cui il compositore dà una delle migliori prove di talento ritmico e sarcastico, incastonano una Cavatina in cui Tom rimpiange l'amore vero lontano. La tenera melodia è sottolineata da un accompagnamento di accentuata espressività. Questo clima tornerà, creando un'ideale unione tra i due amanti lontani, nel terzo quadro. Qui è Anne, rimasa sola nella casa, che esprime la sua desolazione di donna abbandonata. La scena consta di un recitativo, dell'Aria vera e propria, di una nuova sezione di Recitativo e di una Cabaletta (qui appunto evidenziata nel tìtolo) conclusiva. È il pezzo più fedele ai canoni italiani. La stessa Cabaletta è di quelle di "determinazione". La donna esprime la sua volontà incrollabile di restar fedele al proprio amore e di non abbandonare Tom. L'invocazione alla notte che apre l'Aria, "I go to him. Love cannot falter, cannot desert", ha innumerevoli precedenti. Molto stretta l'analogia della situazione di Anne con quella di Micaela nella Carmen e del suo "Je dis que rien ne m'épouvante". È possibile che Auden abbia avuto in mente questa scena, dato che alcuni suoi versi riecheggiano direttamente quelli dell'opera francese. Musicalmente la ripresa della Cabaletta è variata secondo i canoni del belcanto, ma non secondo lo stile belcantistico il cui principio basilare era la diminuzione (e cioè la frammentazione delle note in più note di valore minore). Stravinskij di fatto ignora (nel senso che trascura) questo principio e adotta di volta in volta variazioni dettate dal desiderio di esplicitare nuove trovate armoniche o di attribuire sensi o funzioni espressive diversi alla melodia. Effetti che nella tradizione vocale certo potevano pur sempre essere presenti, ma come conseguenza della prassi primaria posta al servizio, della bravura dell'interprete che doveva dimostrare la sua capacità di essere sempre più veloce con un numero sempre più fitto di note. Anche in questo particolare, tutt'altro che trascurabile, si evidenzia il senso peculiare del cosiddetto neoclassicismo stravinskijano.

Il Secondo Atto si apre nella casa di Tom a Londra. In un'Aria preceduta da un raffinato Preludio, Tom esterna il suo tedio. Un ampio Recitativo accompagnato, una sezione molto simile a quelle che gli autori italiani chiamavano "scena", divide la prima parte dalla reprise. Qui Stravinskij anima il discorso musicale seguendo dettagliatamente i contenuti del testo e creando un concitato contrasto con l'atmosfera sognante dell'Aria vera e propria il cui tema triste e sinuoso è enunciato dal fagotto. L'atmosfera rarefatta, certi particolari dell'orchestrazione e soprattutto la linea vocale ricordano i protagonisti dell'Onegin e della Dama di picche. Ma Nick ha una soluzione pronta per Tom: sposare Babà la Turca. È l'atto gratuito, corrispondente alla seconda tentazione, che deve affermare la libertà assoluta. I toni mefistofelici dell'Aria di Nick ricordano non solo Gounod, ma anche certe canzoni di Musorgskij. La risata che conclude l'elogio diabolico della libertà avvia un Duetto conclusivo di questo quadro dai toni sinistramente esaltati. Nella Seconda Scena vediamo Anne ormai davanti alla casa di Tom. Il suo Recitative and Arioso è preceduto da un assolo di tromba il cui modello è quello del Preludio del Secondo Atto del Don Pasquale di Donizetti. La donna torna a esprimere la sua volontà di vincere ogni timore. Ma nel successivo Duetto, dopo che ha assistito all'arrivo di Tom e della portantina in cui è celata la Turca, viene esortata dall'antico fidanzato ad abbandonare la città corrotta dove non vi è posto per la virtù. Nel Recitativo che di fatto interrompe il Duetto Anne apprende dalla voce della Turca che questa è ormai la sposa di Tom. Nel Trio Anne, al pari di Tom, esprime tra sé il proprio dolore. Poi fugge mentre in un breve finale la Turca chiama a sé lo sposo. Nel Terzo Quadro vi è subito l'Aria grottesca della Turca la cui prima sezione, ben lungi dall'essere un'Aria amorosa, intende esprimere il cicaleccio della mostruosa donna, una vera e propria Aria di nonsense. Quando la Turca finalmente rivolge parole affettuose al marito e viene bruscamente respinta, si passa ad una seconda parte (la partitura usa ancora il termine "Aria", ma di fatto si tratta di una Cabaletta) che è una vera e propria parodia delle antiche concitatissime Arie di furore. La cadenza, come si è accennato, è interrotta da Tom che applica la parrucca sulla faccia della Turca. È la pagina di più scoperta comicità nell'opera. Nella successiva pantomime, che comprende un Recitativo e Arioso di Tom e un Duetto tra Tom e Nick, quest'ultimo presenta la macchina fantastica e Tom racconta di averne sognata una capace di liberare il mondo dal bisogno. È la terza tentazione: "Il désire devenir Dieu", come indica Auden in una lettera a Stravinskij del 28 gennaio 1948. In questa sezione, come in tutto il Secondo Atto, viene portato al massimo il continuo contrasto tra momenti scopertamente lirici, (come quelli in cui Tom "contempla" il futuro benessere dell'umanità), con quelli di esaltata concitazione. La successione è rapida, così come i contrasti sono fortissimi.

All'inizio del Terzo Atto siamo ancora nella stanza di Tom dove la folla assisterà all'asta dei suoi averi. Lo straniamento domina l'Aria del banditore e il ritmo rende l'affannosa corsa della vendita e dell'acquisto. Quando verrà messa all'asta anche Babà e il banditore toglierà la parrucca dalla sua faccia, questa terminerà, riprendendo dalla cadenza interrotta, la sua Aria di furore. Ma nel Duetto che segue, dopo che si sono udite le voci di Tom e Nick che cantano una canzone, sarà la stessa Babà a esortare Anne, a salvare Tom dalla follia con il suo amore. I molteplici piani teatrali e musicali dell'opera vengono qui, per così dire, raddoppiati. La folla sorpresa assiste al Duetto come a una scena d'opera, ora partecipando ai sentimenti dei due, ora divertendosi. La ripresa della canzonetta dietro le quinte provoca lo stretto-finale che chiude il movimentato quadro musicalmente fìtto di echi e di richiami. Con grandissima maestria Stravinskij sfrutta l'inserimento di quegli inserti (di Sellem e della folla, oltre che di Tom e Nick da dietro le quinte) che venivano chiamati nel linguaggio dell'opera italiana "pertichini".

Tutta la seguente scena delle carte, un Duetto di varie sezioni preceduto da un cupo Preludio, è ricca di giochi politonali. Più che l'Aria della divinazione della Carmen qui sono evocabili le tre carte fatali di Gherman nella Dama di picche. Nel corso della scena la presenza delle zone di Recitativo con il cembalo acquistano una valenza particolare. Verso la fine domina sempre più il ritmo ostinato e meccanico. Ma la vittoria che, grazie all'amore di Anne, Tom ottiene sul demonio è pagata con la follia. Mentre Nick sprofonda, Tom si ritrova seduto sull'erba. Spunta l'alba di un giorno di primavera. Su un inciso ripetuto nel ritmo pastorale dei 3 /8 Tom annuncia: "Adonis is my name".

9. L'epilogo nel manicomio - che musicalmente, dopo un brevissimo Preludio, vede in rapida successione arioso, dialogue, chorus-minuet, recitative, (ripresa dell') arioso, duet, recitative (quasi arioso), lullaby, duettino, finale con il mourning-chorus seguiti dall'epilogo - si riallaccia all'inizio dell'opera. Per il Prologo, nella prima stesura gli autori avevano indicato: "Pastorale come in Teocrito, amore, giovinezza, paesaggio campestre, etc. (Accennare forse ad Adone?)". Questo accenno è stato tolto all'inizio dell'opera, ma rimase l'atmosfera di idillio destinata a tornare nella straniata conclusione. Sebbene su questo punto sia Stravinskij sia Auden siano stati estremamente parchi di spiegazioni, non vi è dubbio che la funzione dell'ultima scena, come quella della prima, è di incorniciare l'intera vicenda come se fosse la citazione di un melodramma al pari di quelli della Camerata Fiorentina e di Monteverdi (autore che Stravinskij amava, e nessuno dei suoi grandi amori è assente nella Carriera). D'altra parte nella scena del manicomio l'amore oblivioso tra il falso Adone e Anne, che viene convinta a secondarlo entrando nel ruolo di Venere, si chiude con la invocazione del morente a Orfeo, perché intoni il compianto accompagnato da Ninfe e Pastori. Dunque una citazione diretta di Monteverdi e del mito di Orfeo che presiedette alla nascita dell'opera. Ma la favola resta interrotta. Nick fa un cenno e tutti personaggi vengono alla ribalta per intonare nel teatro illuminato la "morale conclusiva". La quale non ricorda solo che la fine del libertino è ben grama, questo ancora fa parte del gioco. Ricorda anche, per bocca della Turca, che gli uomini sono folli e che le loro imprese sono commedia. Ulteriore sottolineatura della valenza teatrale in un lavoro di metalinguaggio: teatro è la vita degli uomini, teatro le vicende che la rispecchiano, a loro volta inserite nella citazione di un melodramma. Questo insistere sul gioco degli specchi esplicita l'intera operazione stravinskijana. La regola del teatro richiederebbe infatti che i personaggi, nella conclusione, assumessero le loro vesti reali. Ma qui non vi è agnizione e i protagonisti indossano abiti mitologici ed entrano in ruoli estraniati. È come se ci si accingesse a recitare una nuova opera e solo la sospensione provocata dal gesto dell'Uomo-Ombra ne blocca il fruire. Dietro, vita e teatro restano pur sempre "in progress". Il credente Stravinskij non ha, né può avere fiducia nel transeunte: sa che la vita è mera parvenza e che le vicende umane, incontrollabili, rispettano regole a loro volta non determinabili dal singolo. "Qualcuno insinua che io non sia realmente esistente", dice in chiusura lo stesso Shadow. Così al musicista non resta che affidarsi al valore astratto della Forma, trattandola (da nemico quale era del contenutismo in musica e in arte) con mano di supremo artigiano, senza accoglierne il coinvolgimento, così come avevano pur fatto (consapevolmente o inconsapevolmente) i grandi maestri preromantici. Questo non è dunque, come pur si è creduto, cinismo e compiacimento del giocatore. È la conclusione di chi sa che il teatro e la vita sono in definitiva la stessa cosa e che l'Assoluto è altrove, o meglio al di sopra.

Bruno Cagli


(1) Testo tratto dal programma di sala del Teatro alla Scala,
Milano, Teatro alla Scala, 24 aprile 2009
(2) Testo tratto dal programma di sala della Fondazione Teatro Lirico "Giuseppe Verdi" di Trieste,
Trieste, Teatro Giuseppe Verdi, 15 dicembre 2004
(3) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia;
Roma, Auditorium Parco della Musica, 18 febbraio 2006


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Ultimo aggiornamento 31 gennaio 2020