Concerto in la minore per ottavino, archi e basso continuo, RV 445


Musica: Antonio Vivaldi (1678 - 1741)
  1. Allegro (la minore)
  2. Largo (la minore)
  3. ... (la minore)
Organico: ottavino solista, archi, basso continuo
Composizione: data sconosciuta
Edizione: Ricordi, Milano, 1953
Guida all'ascolto (nota 1)

A confermare l'Ingiustìzia dell'oblio nel quale era precipitata l'opera di Vivaldi, e a fornire autorevole supporto alla sua trionfale renaissance novecentesca, si suole sottolineare che il grande di Eisenach, Johann Sebastian Bach, tenne in altissima considerazione l'arte del Veneziano, trasferendo sull'organo alcuni suoi concerti grossi, e sostituendo con tre clavicembali i tre violini solisti in altre pagine di Vivaldi. Tuttavia, la parentela fra i due artisti, se è individuabile in qualche tratto stilistico, e nell'impianto formale dì certe composizioni, non deve essere spinta troppo oltre: e sono opere quali il concerto per ottavino in la minore a offrire elementi per una considerazione del genere. Si sa che Vivaldi predilesse, da virtuoso di violino quale era, gli strumenti ad arco, per i quali ha lasciato un corpus di concerti e sonate impressionante per vastità e varietà; tuttavia, il gusto e la sensibilità per il timbro strumentale, tipico della scuola veneziana fino dai Gabrieli, è cosi radicato in lui, che numerose sono le sue opere che hanno per protagonista uno strumento a fiato e spesso di altissima qualità: si pensi solo al «Cardellino» per flauto e alla sconvolgente «Notte» per fagotto.

Perfino il flauto piccolo, strumento di raro impiego anche nell'orchestra romantica, e addirittura ignoto a quella settecentesca, attirò l'interesse del Prete Rosso; a stare alle indicazioni dei cataloghi, gli dedicò tre concerti: due in do maggiore (la tonalità largamente da lui preferita) e questo in la minore (anche se la destinazione era indifferentemente per flauto od ottavino).

Per tornare a Bach, è già la scelta dello strumento a qualificare l'opera dell'italiano: la natura dell'ottavino, svettante col suo timbro acutissimo su tutta l'orchestra, anche la più densa e sonora (chi non ricorda le «volate» discendenti dell'ottavino — di effetto però agghiacciante — nel Dies Irae del «Requiem» verdiano?) si presta, con il suo carattere eminentemente virtuosistico e brillante, a ogni sorta di decorazione, invita la fantasia del creatore a tentare le vie dell'arabesco sonoro, e ad abbandonarsi ad ogni sorta di difficoltà esecutive, in una progressione esaltante. Atteggiamento, questo, quanto mai lontano dalla logica, composta severità espressiva alla quale si informa l'arte bachiana, sempre vigilata da una lucida visione d'insieme e, quasi, tesa a finalità metafisiche.

Vivaldi, per parte sua, si abbandona all'invenzione del momento, ed anche se disegna melodie di raccolta espressività, come nel «Larghetto» centrale, il suo estro si espande in trilli, scalette, terzine, quartine ascedenti e discendenti che impegnano a fondo il virtuosismo dell'esecutore. L'opera è articolata nei classici tre movimenti Allegro - Larghetto - Allegro, con gli estremi caratterizzati da ritmi veloci e brillanti; ma anche nel tempo centrale Vivaldi non può fare a meno di valorizzare le qualità dello strumento, e lo lancia in un fitto, anche se delicato intrico di decorazioni. Da notare, qui come in altri concerti, la predilezione di Vivaldi per i temi estremamente concisi, quasi sempre ricavati dall'accordo fondamentale: l'Allegro si apre con un frammento di sei crome mi - la - mi - do - mi - la, e il tema del Larghetto (ancora in la minore) si basa sulle note la - mi - la: esempio di quanta maggiore importanza sia attribuita — piuttosto che ai temi in sé — agli sviluppi e alle variazioni del materiale sonoro.

Cesare Orselli


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 2 novembre 1973


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Ultimo aggiornamento 29 gennaio 2019