Concerto in fa maggiore per violino, due oboi, due "trombon da caccia", fagotto, archi e basso continuo, RV 574


Musica: Antonio Vivaldi (1678 - 1741)
  1. Allegro (fa maggiore)
  2. Grave (fa maggiore)
  3. Allegro (fa maggiore)
Organico: violino, 2 oboi, 2 tromboni da caccia, fagotto, archi, basso continuo (organo o clavicembalo)
Composizione: 1717
Edizione: Ricordi, Milano, 1950
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

La musica è stata nei secoli sempre (o quasi) colorata da differenti timbri strumentali: dal Medioevo, passando per il Rinascimento fino a tutto il primo Barocco, le compagini riunite per suonare da sole oppure per colorire la musica vocale erano sempre eterogenee e formate dall'accostamento più fantasioso di timbri diversi. Bisognerà attendere la seconda metà del Seicento con Lully (anzi: Lulli) per avere il primo esempio di orchestra nel senso moderno del termine: un gruppo di strumenti della stessa famiglia - gli archi - con molti strumenti uguali che suonano la stessa linea melodica, a formare il primo esempio di "fila". A questo gruppo di archi si univano anche i fiati, in varia misura secondo le occasioni, ma la grande novità lulliana consistette proprio nell'ammassare diversi strumenti uguali su ogni singola linea della partitura. Fino ad allora, giù fino al primo Rinascimento, gruppi più o meno grandi di strumenti diversi suonavano linee diverse, ma in ciascuna formazione, per quanto eterogenea o fantasiosa potesse essere, ogni linea della partitura era eseguita da un solo strumento, magari a raddoppio di una voce, ma non a raddoppio di altri strumenti.

Bisogna risalire al Medioevo per trovare gruppi di differenti strumenti che eseguono una stessa linea, ma quasi sempre si trattava dell'unica linea melodica, dato che la musica strumentale era strettamente monodica, tranne rari casi. Si ha notizia di gruppi anche eccezionalmente grandi di strumentisti riuniti in occasioni speciali, come avvenne nel 1306 a Londra, quando più di 160 menestrelli furono chiamati ad allietare la cerimonia di cavalierato del futuro re d'Inghilterra Edoardo II: ma è chiaro che questo gruppo spropositato di strumenti d'ogni tipo, eseguisse molto probabilmente una sola linea melodica, magari sostenuta da note fisse di bordone.

Quale che sia stato il tipo di raggruppamento strumentale preferito nelle diverse epoche della storia, risalta come costante il gusto della varietà timbrica, ossia il desiderio di colorire la musica col suono di strumenti differenti. Questo gusto coloristico ebbe una patria d'elezione in Venezia, dove fin dal Rinascimento si coltivò la pratica del «sonar con ogni sorte d'istromenti». Fra le molte istituzioni musicali veneziane dotate di compagini vocali e strumentali, spicca la Basilica di San Marco, che raggiunse i vertici dell'arte musicale sotto la guida di maestri come Willaert, De Rore, Zarlino, Croce, Monteverdi, Cavalli e molti altri. Assieme alle voci, nella basilica di San Marco si praticavano gli strumenti più diversi: cornetti, tromboni, viole da gamba, violini, tiorbe, poi, col passare degli anni, anche trombe, oboi, corni e flauti. E nelle scuole grandi o negli ospedali della città lagunare erano ugualmente presenti cappelle musicali, voci e strumenti d'ogni tipo.

È in questo ambiente ricco di pratiche polistrumentistiche che dobbiamo collocare il giovane Vivaldi e la sua formazione musicale. Anzitutto suo padre Giovanni Battista: parrucchiere e violinista di alto livello - era tipico di molti musicisti veneziani associare l'arte musicale a quella barbitonsoria - musico dell'orchestra di San Marco e «maestro d'istromenti» all'Ospedale dei Mendicanti. Essere «maestro d'istromenti» significava dover impartire alle orfanelle di quell'istituto le nozioni basilari di tutti i principali strumenti praticati all'epoca, dall'organo al violino, dall'oboe alla viola da gamba. Giovanni Battista Vivaldi veniva da Brescia ed era in contatto professionale con una fitta rete di strumentisti e compositori operanti a Venezia: Spada, Fuga, Legrenzi, Bernabei, Ruggieri, Partenio, Sartorio, Volpe. È in quest'ambiente ricco e variegato che il giovane Antonio crebbe e imparò: tanto la composizione quanto il violino e diversi altri strumenti.

Che Vivaldi fosse un polistrumentista lo si può arguire da due evidenze. La prima è il suo curriculum e i documenti della sua biografia: violinista eccezionale, fu chiamato a insegnare il violino al Conservatorio della Pietà nel 1703; l'anno successivo gli fu aumentato lo stipendio affinché istruisse le «putte» anche nella «viola all'inglese», ossia la viola da gamba; i documenti ci raccontano di alcune sue acclamate esibizioni alla viola d'amore e della sua conduzione delle opere dal clavicembalo. Ma è dall'analisi delle sue composizioni che si traggono maggiori informazioni. Egli compose musica solistica per tutte le specie di strumenti praticati al suo tempo: violino, viola d'amore, violoncello, viola da gamba, flauto dritto, flauto traversiere, oboe, clarinetto, chalumeau, fagotto, tromba, corno, cembalo, organo, tiorba, liuto, mandolino, salterio.

Dall'analisi di tutta questa miriade di composizioni si ricava che egli conosceva a fondo i meccanismi tecnici di gran parte di questi strumenti, al punto da presupporne una pratica basilare: così almeno del violoncello, del flauto, dell'oboe, del fagotto, del clavicembalo, dell'organo. In sostanza, la moltitudine delle composizioni per strumenti diversi dal violino presuppone una conoscenza così profonda della loro tecnica da non poter essere acquisibile soltanto per via teorica.

D'altra parte, Antonio Vivaldi era figlio di un polistrumentista e dunque, oltre al violino, loro strumento principale, aveva avuto sin da giovane dimestichezza con molti altri strumenti che il padre insegnava alle ragazze dei Mendicanti. Sappiamo, ad esempio, di una partita di sette viole da gamba «vechie e rotte» appartenenti all'Ospedale dei Mendicanti - dove Giovanni Battista aveva insegnato fino al 1693 - da cui nel 1705 vennero selezionati quattro esemplari acquistati dall'Ospedale della Pietà, dove Antonio aveva assunto l'incarico di maestro di quello strumento dal 1704. E sappiamo che Antonio potè fregiarsi dell'incarico di «Maestro dei Concerti» presso la Pietà, incarico che presupponeva non soltanto l'obbligo di fornire concerti e altra musica strumentale alle figlie, bensì quello di istruirle tecnicamente a saperle eseguire. Ed è evidente a posteriori che, dalla grande mèsse di composizioni per ogni sorta di strumento che Vivaldi fornì alla Pietà dal 1703 fino al 1740, si evince ch'egli doveva essere in grado non soltanto di comporre musica tecnicamente congrua ai vari strumenti, ma altresì d'insegnare a eseguirla.

L'apertura della Pietà alla pratica polistrumentale fu conseguenza di un impulso impresso da Francesco Gasparini - «Maestro di Coro» e quindi massima e unica autorità musicale dell'istituzione fino al 1702 - che chiese e ottenne d'ampliare l'offerta didattica della Pietà anche al violino e agli strumenti a fiato. Sulla scia di questo impulso Vivaldi fu chiamato a insegnare il violino nel 1703; poco dopo, la Pietà assunse un maestro di oboe, Onofrio Penati. Questi due soli strumenti - violino e oboe - contrastano con la grande varietà di strumenti su cui le «figlie» della Pietà si esercitavano: come disse più tardi il presidente De Brosses, estasiato dalle esecuzioni della Pietà, esse «suonano il violino, l'organo, l'oboe, il violoncello, il fagotto; insomma non c'è strumento che le spaventi». E, in effetti, i concerti «con molti stromenti» che Vivaldi scriveva per loro contemplavano i flauti dritti, lo chalumeau, gli oboi, l'organo, il cembalo, il violino, il violoncello, le viole da gamba: da chi imparavano le «figlie» asuonare tutti questi strumenti, se per tutti i primi quattro decenni del Settecento gli insegnanti di strumento alla Pietà furono soltanto Vivaldi come maestro di violino, Penati, poi Erdmann e poi Sieber, quali maestri di oboe e Vandini - per un brevissimo periodo - come maestro di violoncello? La risposta sta nella pratica polistrumentale in cui ciascun musicista del Settecento veniva formato: gli oboisti sapevano suonare il flauto e il fagotto, i trombettisti erano anche cornisti, i violinisti sapevano suonare quasi tutti gli strumenti della famiglia del violino e spesso anche altri strumenti a corda quali il liuto o il mandolino. Ciascuno di essi riceveva inoltre rudimenti di cembalo e organo. Era evidente che per istruire le «figlie» della Pietà in tutti gli strumenti praticati all'epoca bastassero pochi maestri.

Fin dai primi anni del suo mandato alla Pietà Vivaldi impostò il suo lavoro didattico-compositivo sul polistrumentismo: un documento del 1704 ci descrive una «Sinfonia d'instromenti ordinata per ogn'angolo della Chiesa» - ossia un concerto con diversi gruppi contrapposti di strumenti - che «per novità d'idea resero estatiche le meraviglie e fecero supponere che tali componimenti venghino più dal Cielo che dagl'uomini». Vivaldi stupiva, fin dai suoi esordì, per la straordinaria fantasia compositiva e per la variegata miscelazione dei timbri e dei colori strumentali: tutto ciò costituiva per quei tempi una «novità d'idea» capace d'incantare i suoi contemporanei. Risale al 1708 un concerto - purtroppo uno dei rarissimi superstiti del primo periodo compositivo - che dispiega, divisi in due gruppi contrapposti, quattro flauti dritti, violino principale, organo concertante e archi. È il Concerto RV585, il più antico concerto «per molti stromenti» che conosciamo di Vivaldi. In questo brano, visionario, sperimentale ma perfettamente congegnato dal punto di vista formale, Vivaldi svela un talento che l'accompagnerà lungo il corso di tutta la sua carriera di compositore: saper cucire su misura la musica addosso ai suoi esecutori. Egli scrive infatti una parte di violino impervia destinata a sé stesso, una parte di organo mediamente difficile affidata a una ragazza già destra nella pratica, e quattro parti di flauto elementari per quattro «putte» avviate da pochissimo tempo al flauto sotto la guida del neo assunto maestro di oboe Onofrio Penati. Questa sensibilità dell'offrire a ciascun esecutore il suo specifico tecnico costituirà una risorsa utilissima nel mestiere del compositore, specie nel difficile e conflittuale mondo del teatro.

Il mondo musicale particolarissimo e irripetibile del Conservatorio della Pietà era retto da regole monastiche: le fanciulle, che andavano dalla più tenera età fino alla vecchiaia, venivano allevate in un regime di clausura e istruite nella musica: si chiamavano «figlie di choro», ossia musiciste tanto di strumento quanto di voce; fra di esse le più brave formavano la cerchia delle «figlie privilegiate», da cui venivano selezionate le «maestre di choro», ossia coloro che potevano a loro volta istruire le novizie. Era chiaro che, fra molte decine di fanciulle, presto si evidenziassero le più dotate: «Anna Maria del violin», «Giulia organista», «Susanna dell'oboè» e molte altre che potevano rivaleggiare, quanto a bravura musicale, coi migliori professionisti dell'epoca. Queste fanciulle, divenute a loro volta maestre, perpetuavano gli insegnamenti ricevuti dai maestri fino a ritenere superflua la loro presenza: Vivaldi veniva infatti licenziato correntemente, ogni volta cioè che le «maestre di coro» avevano recepito abbastanza da poter procedere autonomamente.

Per l'Ospedale della Pietà Vivaldi compose musica per le più diverse combinazioni di strumenti. Un esempio eclatante è il Concerto RV555, vero campionario delle possibilità formidabili della Pietà: 3 violini solisti, 2 violini «in tromba marina» (ossia con un particolare assetto che simulava il suono della tromba marina), 2 flauti dritti, 2 oboi, 2 viole da gamba («viole all'inglese»), 2 «Salmoè» (chalumeaux), 2 violoncelli, 2 clavicembali, archi e basso continuo. Affreschi sonori come questo erano possibili soltanto alla Pietà: nessun'altra istituzione musicale veneziana - ma potremmo dire italiana - poteva disporre della compresenza di così tanti strumenti differenti, modernissimi come gli chalumeaux e desueti come le «viole all'inglese». E Vivaldi era l'unico a saperli sfruttare tutti compiutamente in affreschi sonori mai concepiti fino ad allora.

Ma non fu solo la Pietà di Venezia a calamitare la fantasia vivaldiana per le diverse combinazioni strumentali. Due altre importanti istituzioni musicali offrirono a Vivaldi la possibilità d'esercitare il suo talento coloristico: la cappella del principe Filippo d'Assia-Darmstadt a Mantova e l'orchestra di Dresda. Nel 1718, dopo un fortunato quinquennio di successi teatrali veneziani, Vivaldi lasciò per la prima volta la sua città: era stato nominato maestro di cappella del governatore imperiale di Mantova, che aveva un gran gusto per la musicae e si era circondato di valenti strumentisti. Lì Vivaldi lavorò per il teatro Arciducale mettendo in scena quattro opere, ma produsse anche un gran numero di musiche strumentali sollecitate da un variegato organico di strumenti a fiato: flauti dritti e traversieri, flautini, oboi, fagotti, corni e trombe arricchivano la cappella del principe e stimolavano nuove miscele nella fantasia del compositore. Il Concerto per viola d'amore, 2 oboi, 2 corni, fagotto e basso, RV 97, costituisce una pagina di raro splendore: Vivaldi stesso suonava la viola d'amore, accompagnato dai musicisti arciducali, in una combinazione dal timbro inedito. Il gusto per le miscele strumentali fantasiose si riflette anche nella pratica teatrale di quegli anni mantovani: nel Tito Manlio, RV738, Vivaldi inserisce la viola d'amore, l'oboe, il flautino, i corni e le trombe come strumenti solisti, e sperimenta altresì il timbro velato degli oboi e fagotti «con sordini», ossia con una spugna inserita nella campana, per descrivere meglio l'atmosfera tragica e sospesa della morte di Manlio.

L'orchestradi Dresda era la compagine strumentale più ricca e mirabile di tutta l'Europa musicale del primo Settecento: formata dai migliori strumentisti presenti sul mercato e curata personalmente dal principe elettore di Sassonia, di cui costituiva il gioiello di rappresentanza, calamitava gli appetiti dei musicisti di tutte le nazioni. Nel 1716 il principe elettore di Sassonia scese a Venezia assieme ad alcuni membri eminenti della sua orchestra (vi figuravano il violinista Pisendel, l'organista Petzold e l'oboista Richter) per far campagna acquisti: reclutare i migliori cantanti e virtuosi italiani del momento e acquistare una gran messe di musica alla moda da portare poi a Dresda per rinnovare il repertorio dell'orchestra. In questo giro di contatti, che prevedeva anche un congruo periodo di aggiornamento professionale dei musici sassoni presso i maestri veneziani, Vivaldi divenne il maestro di Pisendel e, tramite lui, il principale fornitore di musiche del nuovo corso musicale dresdense. Il giovane allievo sassone divenne un assiduo frequentatore di Vivaldi e, da quel momento, consacrò la sua vita musicale alla divulgazione del verbo del suo maestro: acquistò da lui decine di concerti e sonate, si mise d'impegno a copiarne altrettante: la collezione musicale di Dresda annovera infatti centinaia di manoscritti vivaldiani, tanto in autografo che in copia.

L'orchestra di Dresda, come molte altre compagini tedesche, aveva una caratteristica: il massiccio impiego di strumenti a fiato. Non vi era praticamente brano per soli archi che non venisse rinforzato dall'aggiunta di flauti, oboi e fagotti. Questa sorte toccò a molte composizioni di Vivaldi nate per soli archi, che nella pratica sassone vennero coloriti con l'aggiunta spuria di strumenti a fiato. Se quest'abitudine contribuì a rileggere la musica vivaldiana sotto una lente deformante, pure essa costituì per Vivaldi uno stimolo a creare nuove composizioni che prevedevano i fiati come protagonisti concertanti. Negli anni successivi al soggiorno veneziano di Pisendel, il rapporto fra Vivaldi e l'orchestra di Dresda si mantenne stretto e costante tramite l'ordinazione e l'invio per posta di nuove composizioni. Nacquero pagine robuste e di grande impatto sonoro come il «Concerto per l'Orchestra di Dresda» o il «Concerto per Sua Altezza Reale di Sassonia»: protagonisti il violino principale di Pisendel e l'oboe di Richter, con gli altri fiati concertanti sullo sfondo. Fu in queste occasioni che Vivaldi impiegò anche il «Grande Bassone Solo», ossia il controfagotto, strumento rarissimo all'epoca ma presente nel vasto arsenale strumentale di Dresda.

Fuori dalla Pietà, da Mantova e da Dresda, altre occasioni contingenti dettero a Vivaldi il modo di comporre per «molti stromenti». Una di queste fu il soggiorno romano del 1723: la cappella musicale del cardinal Ottoboni, improntata al gusto francese, disponeva di validi strumentisti a fiato. Ben sapendolo, Vivaldi pensò di portarsi da Venezia una gran mèsse di musica già composta, volgendo alla polistrumentalità anche pagine concepite per organici di soli archi. Il concerto «Il Proteo, o sia il Mondo al Rovescio» per violino, violoncello e archi diventò, nella furiosa rielaborazione in vista del viaggio a Roma, un concerto in cui su ciascuna delle due linee solistiche del violino e violoncello si ammassavano 2 flauti traversieri, 2 oboi e un clavicembalo obbligato, a creare una miscela timbrica assolutamente nuova e sorprendente. Sempre a Roma, nel 1724, la fantasia timbrica di Vivaldi venne stimolata dalla presenza di un suonatore di salterio, strumento ormai desueto ch'egli volle inserire in funzione solistica nella sua opera Il Giustino.

Il Concerto RV574 «Per S.A.S.I.S.P.G.M.D.G.S.M.B» appartiene al felice periodo mantovano del 1718-1719: la sua dedica enigmatica e pletoricamente umoristica è stata sciolta da Carlo Vitali: "per Sua Altezza Serenissima Il Signor Principe Maria Giuseppe De Gonzaga Signor Mio Benignissimo", ossia uno dei patroni che sostenne Vivaldi nel suo soggiorno mantovano, assieme al vescovo mons. Bagni, a cui dedicò la cantata O mie porpore più belle, RV 685. Il Concerto RV574 è parte di un gruppo di composizioni per un organico assai grande teso a raggruppare le migliori forze della cappella musicale del Principe d'Assia-Darmstadt: violino principale - suonato all'epoca dallo stesso Vivaldi - violoncello solo, 2 oboi, 2 corni (qui chiamati «Trombon da Caccia»), fagotto, archi e continuo. I vari strumenti solisti chiamati in causa non sono tuttavia paritetici: una ferrea gerarchia pone il violino principale al vertice, seguito dall'oboe e poi dai due corni e dal fagotto. In pratica, Vivaldi riservava per il suo violino i passi più spettacolari e impervi, lasciando agli altri il ruolo di comprimari. Interessante è, nel Grave centrale, l'uso pionieristico che Vivaldi fa dei corni in funzione di Harmoniemusik, ruolo fino ad allora ignoto a quegli strumenti.

Federico Maria Sardelli

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Per più di un aspetto il Concerto RV 574 appare gemello del Concerto RV 569: stessa intonazione festosa e mondana, stessa tonalità, identico organico (i misteriosi «tromboni da caccia» qui indicati da Vivaldi al posto dei corni dovevano infatti essere molto simili a tali strumenti), vistose analogie costruttive. Il concerto reca una dedica cifrata: «per S.A.S.I.S.P.G.M.D.G.S.M.B.». Non è escluso che si tratti di uno scherzo a un amico giocato sulla passione settecentesca per le abbreviazioni. Il «Tutti» iniziale dell'Allegro d'apertura è una gioiosa fanfara che si conclude su una fermata. Spetta ai ritmi puntati degli oboi, alle note tenute e ai richiami dei corni, agli arpeggi del violino condurre il primo episodio, che sfocia in un secondo «Tutti» con interventi e interpolazioni dei solisti al completo. Il secondo episodio è avviato dai corni col fagotto (guida melodica al corno I) e proseguito dalle caratteristiche progressioni del violino. Attraverso il ritornello, contraddistinto da trilli del corno I, si giunge al terzo episodio, affidato a oboi e fagotto. Il quarto «Tutti» si chiude con la citazione della testa della fanfara, mentre le rapide figurazioni del violino, alla fine sostenute da richiami dei corni, danno vita al quarto episodio. Ha quindi luogo una specie di ripresa: la comparsa del ritornello abbreviato porta al quinto episodio, iniziato da corni e fagotto come nel secondo e concluso con i motivi di fanfara del primo «Tutti». Quale ritornello di chiusura riappare il «Tutti». Il ritornello del Grave, costituito da una semplice scansione accordale legata dal suono tenuto dei corni, vive sull'effetto d'eco dato dai contrasti di «forte» e di «piano». Dei due «Soli», il primo offre un dialogo fra violino e oboe I (poi accompagnati dal fagotto), il secondo una ornamentata melodia dello stesso oboe I.

Il finale, senza indicazione di tempo, si apre con un motto introduttivo: il richiamo di caccia di corni e fagotto, cui risponde un breve «Tutti». Nel primo episodio, alle evoluzioni in arpeggio del violino si aggiungono poi corni e oboi. Il «Tutti» successivo è il ritornello: prepara il secondo episodio assegnato alle aeree terzine dell'oboe I, quindi riappare abbreviato prima del terzo episodio che vede all'opera gli oboi e nuovi arpeggi del violino. Ancora una fulminea inserzione del ritornello e si disegna il quarto episodio, con la sortita di un violoncello solo, violino, corni e fagotto. Preceduto da un ulteriore ritornello, il quinto e ultimo «Solo» avviene su pedale dei bassi: arpeggi e trilli di corni e oboi portano al «Tutti» finale.

Cesare Fertonani


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium Parco della Musica, 9 maggio 2014
(2) Testo tratto dal libretto inserito nel CD allegato al n. 49 della rivista Amadeus


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Ultimo aggiornamento 22 maggio 2017