La carriera operistica di Antonio Vivaldi (1678-1741), solo negli ultimi decenni oggetto di una esplorazione sistematica in campo discografico e nell’ambito della rappresentazione scenica, si sviluppa in un arco di circa ventisei anni, se si considera il 1713, l’anno di Ottone in villa a Vicenza, come data convenzionale di inizio e il 1739, anno della partenza del compositore dalla natia Venezia alla volta di Vienna, come quella di chiusura.
Dorilla in Tempe si colloca esattamente al centro di questo percorso, e si attesta tra le opere che riscossero maggior successo durante la vita del compositore. Superata la fase critica immediatamente successiva all’uscita del pamphlet Il teatro alla moda – che, pubblicato in forma anonima dal suo compatriota Benedetto Marcello intorno alla fine del 1720, scaturì polemiche tali da costringere il musicista ad allontanarsi dalla laguna – e immediatamente dopo aver dato alle stampe, ad Amsterdam, la sua opera n. 8, Il cimento dell’armonia e dell’inventione (1725) comprensiva delle celeberrime Quattro stagioni, Vivaldi era tornato a Venezia e aveva ripreso qui la sua prolifica e poliedrica attività lirica, portando al debutto titoli, tra opere originali e pastiche, quali L’inganno trionfante in amore (1725), Cunegonda (1726), La fede tradita e vendicata (1726) e quindi Dorilla in Tempe (1726). Proprio nella Dorilla cantò, tra l’altro, per la prima volta in un’opera vivaldiana, il contralto Anna Girò, colei che diventerà l’interprete prediletta del musicista veneziano e che probabilmente giocò un ruolo non secondario nel successo dei suoi successivi lavori.
Dorilla in Tempe debuttò il 9 novembre 1726 al Teatro Sant’Angelo per poi essere ripresa, e modificata, per altre sale e con diverse distribuzioni degli interpreti: nel 1728 al Teatro Santa Margherita di Venezia, nel 1732 allo Sporck di Praga e ancora una volta, première il 2 febbraio del 1734, di nuovo al Sant’Angelo. Questa più recente versione – l’unica nota, grazie al ritrovamento, a inizio Novecento, della partitura oggi conservata nella Raccolta Mauro Foà della Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino – è più precisamente un ‘pasticcio’ nel quale la musica del Prete Rosso si affianca ad arie di altri operisti alla moda.
Nell’opera barocca, il reimpiego e l’autocitazione erano prassi consolidate e ampiamente diffuse. E questo aspetto ancor meglio si può comprendere se si considera il caso di Vivaldi, che oltre a scrivere musica, dal 1714 (e fino al 1739) era impegnato anche in qualità di impresario del Teatro Sant’Angelo e come tale aveva quindi l’esigenza di raggiungere quel successo al botteghino capace di far quadrare i conti dell’impresa. Se insieme a questa necessità si aggiungono le consuetudini produttive dell’epoca e, in particolare, il protagonismo assoluto e spesso esagerato dei cantanti, veri e propri divi, che amavano e pretendevano di poter esaltare le proprie doti canore e sfoggiare i più arditi virtuosismi ‘cavalcando’ le melodie e gli stili più in voga del momento, ecco allora spiegati i motivi che spinsero Vivaldi a sostituire ben otto arie della ripresa della Dorilla, con prestiti da autori per lo più di scuola napoletana e quindi, per così dire, ‘rivali’: tre di Johann Adolf Hasse («Mi lusinga il dolce affetto», «Saprò ben con petto forte» e «Non ha più pace»), una firmata da Domenico Sarro («Se ostinata a me resisti»), un’altra da Leonardo Leo («Vorrei dai lacci sciogliere») e tre da Geminiano Giacomelli («Rete, lacci e strali», «Bel piacere s’aria d’un core» e «Non vo’ che un infedele»).
A proposito di autoimprestiti, val la pena invece segnalare la linea melodica del tema del celeberrimo Concerto La primavera (1725), che compare prima nella terza sezione dell’ouverture e poi nel coro introduttivo; e una figura di ciaccona del coro «Ogni cor grato si mostri» del primo atto che rievoca piuttosto chiaramente «Il destino, la sorte e il fato» della serenata commemorativa La Senna festeggiante, composta lo stesso anno del debutto di Dorilla.
Il libretto in tre atti del veneziano Antonio Maria Lucchini (1690 circa - dopo il 1730; autore per Vivaldi anche di Tieteberga del 1717 e di Farnace del 1727) è un intrigo romantico-pastorale ambientato sullo sfondo della valle di Tempe, in Tessaglia, regione dell’antica Grecia dedicata al culto di Apollo. La vicenda ricorda a grandi linee quella di Andromeda soccorsa da Perseo. Motore dell’azione è proprio il dio Apollo che, nelle vesti del pastore Nomio, si innamora di Dorilla, figlia del re Admeto, a sua volta innamorata del pastore Elmiro. Per salvare il suo regno, Admeto è costretto dagli dei a sacrificare Dorilla al serpente Pitone, un mostro marino che divora vergini innocenti; ma la fanciulla viene salvata da Nomio che la rivendica in sposa come sua ricompensa. Dorilla, invece, preferisce fuggire con il suo amato Elmiro. La coppia viene però catturata, ed Elmiro condannato a morte. Solo l’intervento di Nomio, che svela la sua vera identità, consente a Dorilla ed Elmiro di ricongiungersi e di unirsi in matrimonio nella generale esultanza.
Nel cast della prima assoluta, Angela Capuano figura come prima donna, interprete del ruolo eponimo: una debuttante, al pari dei due castrati coinvolti, il soprano Filippo Finazzi (Nomio) e il contralto Domenico Giuseppe Galletti (Filindo). Admeto è interpretato dal giovane tenore Lorenzo Moretti, Elmiro da Maddalena Pieri. Discorso a parte merita la già citata Anna Girò, seconda donna e prima interprete di Eudamia: i numeri a lei riservati ne mettono in luce le spiccate qualità vocali, e non a caso la trascinante aria «Al mio amore il tuo risponda» la Girò la riprenderà in altre opere, così come «Il povero mio core», sebbene concepita specificamente per il personaggio di Dorilla, divenne una delle arie di baule in tutta la carriera del contralto.
Maria Rosaria Corchia