Juditha triumphans devicta Holofernis barbarie, RV 644

Oratorio in due atti

Musica: Antonio Vivaldi (1678 - 1741)
Libretto: Giacomo Cassetti

Ruoli: Organico: 2 soprani, 3 contralti, coro misto, 2 flauti, 2 oboi, 2 trombe, 2 clarioni, 4 tiorbe, mandolino, organo, viola d'amore, viola inglese, timpani, archi, basso continuo
Composizione: 1716
Prima esecuzione: Venezia, Ospedale della Pietà, novembre 1716
Edizione: inedito
Sinossi

Prima Parte
Il re assiro Nabucodonosor ha inviato nella città di Betulia il proprio esercito, capeggiato da Oloferne, per costringere gli Ebrei a pagargli i tributi. La giovane e pia vedova Gitiditta esce dalla città assediata in compagnia dell'ancella Abra per recarsi nel campo nemico e implorare la grazia. Vagaus, scudiero di Oloferne, incontra le due donne e le conduce al cospetto del generale assiro il quale, folgorato dalla bellezza di Giuditta, invita la donna a un banchetto. Giuditta, intimorita, chiede aiuto ad Abra e quest'ultima la rassicura dimostrandole fedeltà e devozione.

Seconda Parte
A Betulia il sacerdote Ozias spera nel successo della missione di Giuditta e si augura che l'impresa possa compiersi prima dell'alba. Intanto, nel campo assiro, Oloferne dichiara il proprio amore a Giuditta, che confessa con falsa umiltà di non sentirsi all'altezza delle sue attenzioni. Poi, avendo compreso che Oloferne non intende concedere la grazia al popolo di Betulia, l'eroina decide di accettare di partecipare al banchetto ma, quando Oloferne si addormenta ubriaco, chiama Abra e Vagaus all'interno della tenda; lo scudiero porta via i resti del banchetto e, ignaro delle reali intenzioni di Giuditta, affida Oloferne alle cure delle due donne. Mentre Abra rimane di guardia, l'eroina rivolge dapprima una preghiera a Dio poi decapita Oloferne e lascia con l'ancella il campo nemico. Quando Vagaus scopre il cadavere di Oloferne invoca le Furie, gridando vendetta contro gli Ebrei; intanto Ozias, vedendo Giuditta che fa ritorno a Betulia, intona un canto di ringraziamento.

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Oratorio sacro, militare e politico, questo capolavoro approntato da Vivaldi nell'intonare il latino piano di Cassetti. Si è nel 1716 e Venezia celebra l'ennesimo scontro con il turco infedele: la Serenissima è ben presente nel lavoro approntato per l'Ospedale della Pietà da Vivaldi e Cassetti, come il coro conclusivo ricorda implacabile. Il Prete rosso approfitta dell'occasione e lavora sul ben tornito libretto del cavalier dottore Giacomo, che aveva iniziato a fornire testi per oratori almeno dal 1702 in Monselice, Terraferma, e quindi a Venezia, per collaborare con i due Pollarolo agli Incurabili e all'Ospedaletto. Vivaldi si confronta con un libretto interessante, particolare per chi è abituato oggi ad ascoltare precipuamente oratori italiani secenteschi: la mancanza di un Historicus, «una gran testa in picciol corpo» secondo la definizione di Arcangelo Spagna, vi è lampante e corre ad accendere inevitabilmente lo scorrere dell'azione fra le righe dei recitativi e l'umor variabile delle arie. Ne discende la maggior capienza del bagaglio dedicato a ciascun personaggio chiave, con un numero di arie che cresce inevitabilmente. In questo, che è l'unico oratorio vivaldiano oggi sopravvissuto, partecipa attivamente anche il coro, pur prendendo le forme dei soldati assiri e delle vergini di Bethulia. I numeri chiusi sono dunque distribuiti nel seguente modo: Juditha ne coglie sette, Vagaus ne intona sei, Holofernes e Abra quattro, Ozias tre, ma si tenga presente che quest'ultimo compare soltanto in avvio della seconda parte. Il coro interviene cinque volte, e il tutto è intessuto dai recitativi, che in alcuni casi toccano vette di straordinaria felicità compositiva. L'abilità di Cassetti si rivela anche nella distribuzione del materiale fra i protagonisti, equilibrata e attenta a un chiaro andamento di alternanza delle arie. Grazie a un libretto sopravvissuto e oggi alla Biblioteca del Conservatorio di Santa Cecilia a Roma, conosciamo i nomi delle figlie interpreti della prima rappresentazione dell'oratorio, fra le quali scorgiamo le celebri Apollonia e Barbara, protagonista quest'ultima di oratori scritti da Gasparini per la Pietà già nel 1701 e nel 1703.

La vicenda, in buona sostanza, è tratta assai liberamente dal Libro di Giuditta. Nel racconto biblico, Giuditta è una giovane vedova, bella nelle fattezze, che decide di salvare la sua città, Bethulia. Quest'ultima è assediata dall'esercito assiro a causa di una spedizione punitiva voluta dal re Nebuchadnezzar e sta per capitolare, privata com'è dell'acqua. Il governatore Ozias decide di resistere strenuamente. Giuditta si reca al campo nemico, in compagnia della serva Abra, per attuare il suo piano. Qui trova il generale assiro Holofernes, che si è sbarazzato del suo capitano ammonita Achior colpevole di aver voluto ricordare al generale la forte fede del popolo giudeo. Giuditta informa Holofernes di essere in attesa di un segno divino che la informi del peccato compiuto dal suo popolo: ella avviserà quindi il generale, che potrà attaccare Bethulia con successo. Holofernes si innamora però di Giuditta e il quarto giorno ordina al suo attendente Bagoas (Vagaus) di preparare un banchetto di festeggiamento. Ma Holofernes si addormenta rapito dall'alcool nella sua tenda: è solo con Giuditta, che immediatamente pone fine al suo piano decapitando il generale assiro. Ella torna quindi in città, facendo partire il contrattacco. Le forze nemiche vengono sconfitte, nonostante il disperato allarme dato da Vagaus.

Nel libretto Cassetti modifica in modo sostanziale il racconto delle Scritture, sopprimendo la figura di Achior e dando assai maggior risalto a Vagaus e Abra. Soprattutto, Cassetti stabilisce che la causa del protrarsi del soggiorno di Juditha presso il campo nemico sia dovuto esclusivamente all'innamoramento di Holofernes. In effetti il trattamento della bellezza di Juditha compare insistentemente tra le pieghe sia del libretto che dell'intonazione musicale, quasi a volerne fare un motivo principale dell'opera. Vivaldi dipinge una Juditha nobile, fiera, ma non guerriera, come si può evincere subito grazie alla splendida aria di sapore tutt'altro che marziale che conduce la donna all'accampamento nemico. Ella è protagonista di arie di struggente intensità, come il capolavoro Veni, me sequere, e al contempo di profonda solidità. Va detto, per non rischiare di perdere la preziosa informazione, che Vivaldi ha a disposizione l'intera paletta dei colori strumentali della Pietà. Le figlie erano in buon numero virtuose oltre che nel canto anche in numerosi e diversi strumenti, alcuni diffusissimi (violino) altri meno (Salmoé, Claren): tutto ciò permetteva al compositore di donare un colore del tutto particolare al suo oratorio. L'aria Veni, me sequere si avvale ad esempio dell'apporto del Salmoé, che riprende nella sua linea il verso della tortora in modo mirabile. Altra aria di stupefacente fattura è Transit aetas, che nella sua trama a filigrana formata da un mandolino e dai violini pizzicati richiama l'inevitabile scorrere del tempo e la fragilità della vita umana. Così la grande scena dell'omicidio vive su un trittico formato da Recitativo accompagnato-Aria-Recitativo accompagnato di grande intensità, fondata su una strumentazione a cinque parti assegnata alle «viole all'inglese» e chiusa dal ritorno alla famiglia degli archi da braccio. Immancabile però l'aria di tempesta, Agitata infido flatu, che rappresenta un'altra vetta dell'arte compositiva di Vivaldi. Qui i sentimenti contrastati e contrastanti di Juditha si rivelano appieno grazie a una scrittura che elabora alcuni elementi fortemente pregnanti.

Holofernes al contrario si presenta con un'aria guerresca (Nil arma, nil bella), subito, in avvio, quasi marcata però d'ironica penna da Vivaldi: l'aria è troppo marziale, con salti discendenti anche di due ottave nella parte dei violini. Poi però Holofernes si innamora e il suo tono muta totalmente: le sue arie si addolciscono vieppiù, passando dall'affettato gesto di Sede o cara, con il quale cerca di porre a proprio agio Juditha, al sereno Nox obscura, fino all'ultimo tentativo di seduzione di Noli o cara te adorantis, nel quale si avvale della concertazione di oboe e organo obbligato.

Vagaus vive come personaggio assai umano, al quale tocca il non facile compito di descrivere dapprima Juditha (Matrona inimica) a Holofernes, e poi specularmente Holofernes a Juditha (Quamvis ferro), quindi di vivere momenti lieti e sereni - la danza di O Servi volate - e la contemplazione della serenità nel sonno, in realtà ormai di morte, di Holofernes - lo splendido momento pastorale di Umbrae carae. Infine deve fare i conti con la crudezza della vita e raccontare al mondo il suo dolore e la disperazione al momento della scoperta della morte del suo generale in Armatae face: è questa un'altra aria di tempesta, carica di tensione guerresca ma anche di sconforto tutto umano.

Abra è figura di donna semplice, alla quale Vivaldi affida arie di carattere danzante: quasi rustica è Vultus tui vago splendori, unica aria dell'oratorio ad avvalersi del solo basso continuo, mentre Fulgeat sol e Si fulgida per te sono vere e proprie danze e, seppur scritte con il canonico da capo, si avvalgono di una sezione A bipartita e ritornellata. Fa eccezione l'aria di trepidante attesa Non ita reducem: ella infatti attende fuori dalla tenda di Holofernes che l'omicidio venga compiuto e il timore la fa vibrare.

Ozias riveste un ruolo particolare: compare solo all'avvio della seconda parte, con un'aria di straordinaria magnificenza, O Sydera, o stellae, che lo presenta per l'autorità che non è nelle scritture, dove egli ricopre il ruolo del governatore, ma riveste invece nel libretto di Cassetti, e cioè quello di sommo sacerdote: Ozias ha inoltre l'onere di chiudere l'oratorio. Sono sue l'aria Gaude felix Bethulia e il recitativo accompagnato Ita decreto aeterno che conduce direttamente al finale assegnato come ovvio al coro.

Già, il coro: compare cinque volte sulla scena. Ovviamente in apertura, con una spettacolare rappresentazione del campo di battaglia, e in chiusura della prima parte, con echi di speranza provenienti da Bethulia. La forma è del tutto differente: con da capo nel primo caso, strofica nel secondo, così come il piglio; guerriero si è detto in avvio, dolcissimo e dimesso in chiusura. Il coro riappare nel corso della prima parte alternato a interventi di Vagaus. Questo schema è frutto dell'invenzione di Vivaldi, poiché Cassetti non vi era giunto: in questo modo il compositore crea un legame forte fra uno dei protagonisti e la massa corale, indistinta coltre di soldati assiri. Più semplicemente Vivaldi porta il coro a commentare il presunto amore fra Juditha e Holofernes nella seconda parte, sottolineando il carattere esotico del momento inserendo in partitura due «claren». Il coro, ovviamente, conclude anche l'oratorio. Sono le vergini di Bethulia a esaltare la vittoria sugli assiri e al tempo stesso quella di Venezia sui turchi, secondo il finale ormai scopertamente allegorico. Il tutto con una semplice ed efficace forma strofica.

È ovvio che lo smembramento testé effettuato per raccontare i caratteri dei personaggi non tiene conto di almeno due elementi fondamentali: la dinamica delle interrelazioni fra i protagonisti nell'incontro-scontro delle relative arie e il dialogo che vengono a creare tramite i recitativi. Questi ultimi vivono sempre nel corso dell'oratorio di una mancanza assoluta di coincidenza armonica di tonica con le arie che li precedono o li seguono. Questa caratteristica, tipica d'altronde nella musica vocale di Vivaldi, crea uno stato di tensione o rilassamento - a seconda dei casi - fra il recitativo e il numero chiuso che segue. Soltanto questo procedimento rende evidente l'importanza della concatenazione dei recitativi con le arie. Assai più complessi si mostrano gli aspetti legati alla scrittura armonica, più che melodica, del recitativo vivaldiano nella Juditha Triumphans. Come sempre, il compositore veneziano mostra una sensibilità armonica di elevatissima profondità: basti ascoltare il recitativo di Vagaus Jam non procul ab axe, nel corso del quale l'attendente assiro scopre il corpo del suo generale. Due cadenze marcano con chiarezza la tripartizione della pagina; il movimento cromatico del basso sottolinea la scoperta del sangue e della morte; l'improvvisa modulazione a fa minore, il tono funebre per eccellenza sottolinea il senso della perdita, mentre la cadenza finale in mi bemolle maggiore consente un passaggio meno brusco alla tempestosa aria seguente Armatae face, in do minore.

Juditha Triumphans è opera sacra, militare e politica, ma soprattutto è capolavoro musicale e drammatico del Prete rosso. Essa è ricca anche di due arie sostitutive, utilizzate nella presente registrazione, che cancellarono per volere della signora Barbara altre arie a lei non atte, una delle quali mostrava in partitura quattro tiorbe obbligate, altro regalo della splendida fucina strumentale e vocale dell'Ospedale della Pietà in quegli anni.

Franco Pavan

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Un oratorio per le "putte di coro"

A Venezia esistevano quattro "ospedali" ai quali era affidato il delicatissimo compito sociale di allevare ed educare gli orfani e i cosiddetti "esposti", cioè i bambini abbandonati: l'Ospedale della Pietà era uno di questi, esclusivamenle femminile, retto da regole rigidissime e da grande serietà d'intenti. Le bambine accolte alla Pietà venivano cresciute in una condizione monacale all'insegna della povertà, della disciplina e del lavoro, ma non mancava loro una attenta e ricca formazione culturale ed educativa. Lo sbocco poteva essere un "buon" matrimonio (a tal fine l'Ospedale costituiva un fondo comune per la dote delle ragazze), un inserimento in convento, oppure restare alla Pietà come "maestre". All'interno delle attività didattiche la musica ricopriva un ruolo di assoluto rilievo; da semplice conoscenza e pratica volta all'accompagnamento delle funzioni liturgiche, il "choro delle putte" si avviò sempre più ad essere un vero e proprio complesso vocale e strumentale di straordinaria bravura.

Le piccole ospiti venivano suddivise in classi di studio a seconda dell'estensione della voce, degli strumenti praticati e delle capacità. Fino a tutto il Seicento la figura del "maestro di coro" era l'unica a dover adempiere all'insegnamento sia del canto che degli strumenti (che probabilmente si limitavano al cembalo e all'organo). Fu Francesco Gasparini nel 1703 (era stato eletto maestro di coro alla Pietà nel 1701) a proporre l'assunzione di "maestri di strumenti": il 1° settembre di quell'anno quindi venne chiamato, quale insegnante di violino e viola all'inglese, Antonio Vivaldi. Negli anni successivi fecero la loro venuta anche i maestri di oboe, di violoncello e di viola. Non troviamo l'insegnamento di molti strumenti che compaiono poi invece nelle esecuzioni: probabilmente alcuni venivano insegnati dalle maestre interne (quasi sicuramente ad esempio la tiorba, la cui pratica era assai diffusa nella Venezia del tempo), e per altri, il cui utilizzo era temporaneo o sporadico, si ricorreva all'aiuto di musicisti esterni disponibili all'occorrenza.

Grazie a numerosi studi archivistici sui documenti rimastici (al proposito si veda ad esempio il saggio di Giancarlo Rostirolla, L'Organìzzazione musicale nell'Ospedale veneziano della Pietà al tempo di Vivaldi, in Nuova Rivista Musicale Italiana, 1979, n.1), possiamo individuare anche i nomi delle "putte di coro": il nome era quello di battesimo e il cognome era... lo strumento che suonavano o il loro ruolo vocale. Ed ecco che troviamo quindi Anastasia dal Sopran, Antonia dal Tenor, Barbara Cantora (forse la stessa Barbara che cantò nella Juditha), Prudenza dal Contralto e ancora Andriana dalla Thiorba, Angelica dal Violin, Catterina dal Violon, Geltruda dalla Violeta, Pelegrina dall'Oboé e Roseta Organista.

Nel 1716 a Vivaldi viene dato un incarico più importante, quello di "maestro di concerti" con il compito di scrivere lavori appositamente per le musiciste della Pietà. E proprio nel 1716 Venezia, dopo anni di guerra contro i Turchi, conquista finalmente una vittoria che le consente un periodo di relativa pace.

Anche se la commissione dell'opera per questa occasione non è esplicitamente documentata, appare evidente la volontà allegorica della scelta: la storia dell'eroina Giuditta che sconfigge l'infedele Oloferne appare assolutamente ideale per quel momento storico e, d'altra parte, tale intento è espressamente dichiarato nel libretto del Cassetti.

La Juditha triumphans devicta Holofemis barbarie, denominato "Sacrum Militare Oratorium'. viene quindi eseguito nel novembre 1716 alla Pietà. Sul libretto originale (conservato alla Biblioteca del Conservatorio di S.Cecilia di Roma), troviamo delle annotazioni manoscritte con l'indicazione dei nomi delle prime interpreti: Caterina (Giuditta), Silvia (Abra), Apollonia (Oloferne), Barbara (Vagaus), Giulia (Ozias). Tutte le tessiture, tranne quella di Abra, sono medio-basse (mezzosoprano, contralto) e questa scelta dona all'intero impianto vocale una uniformità espressiva di grande efficacia.

Si tratta di una pagina di grandi proporzioni per 5 voci, coro ed orchestra. L'Oratorio è suddiviso in 2 parti e la struttura formale è quella tipicamente settecentesca di alternanza fra recitativi e arie; i recitativi sono quasi tutti secchi ma all'accompagnato vengono affidati i due momenti "simbolo" dell'intera opera, quello della decapitazione e quello dell'autocelebrazione finale.

Le arie sono tutte col da capo e ricalcano lo stile operistico: la struttura tripartita vede una ampia sezione A, la sezione centrale B molto ridotta e la ripresa di A necessariamente soggetta a variazioni e diminuzioni improvvisate.

Dal punto di vista compositivo generale l'opera si evolve in un crescendo incalzante di tensione emotiva.

L'Oratorio si apre con il possente coro dei soldati dell'esercito assiro di Oloferne che assedia la città di Betulia, tutto costruito sull'imitazione degli squilli di trombe. Il coro, nella Juditha, rappresenta di volta in volta i soldati e le vergini: sicuramente il coro della Pietà era esclusivamente lemminile, ma per Vivaldi esso è rappresentativo del contesto storico nel quale agiscono i personaggi, a maggior ragione in questo caso dove manca - fatto abbastanza inusuale - la figura del Testo.

L'aria di esordio di Oloferne ("Nil arma, nil bella", sol magg. 3/4) ha un carattere trionfante e pomposo; tutte le sue pagine saranno contraddistinte da una tessitura grave e da una certa immobilità espressiva, che non concede volutamente nulla all'analisi introspettiva. Subito dopo Vagaus, il suo scudiero, gli annuncia che una "matrona inimica", la giovane vedova Giuditta, è uscita dalla città assediata in compagnia dell'ancella Abra con l'intenzione di recarsi dal capo dei nemici per implorare la grazia. Vivaldi deve avere avuto sicuramente una predilezione per questo personaggio, o forse più per la sua interprete, la non meglio identificabile sig.ra Barbara, per la quale scrive appositamente diverse versioni delle arie. Certo è che tutti gli interventi di Vagaus sono di notevole intensità ed efficacia drammatica.

Oloferne accetta l'incontro e rimane istantaneamente colpito dallo straordinario lascino della protagonista. Giuditta irrompe sulla scena con l'aria "Quocum Patriae" tutta giocata sulle parole chiave "libertatis dulcissima spes" rese mirabilmente da Vivaldi con una scrittura rarefatta dei violini, che restituisce il senso del sospiro, dell'anelito. La tessitura vocale di Giuditta appare subito in tutta la sua complessità: nelle pagine scritte per lei il compositore veneziano sembra voler esplorare le molteplici potenzialità espressive del canto, dagli ampi slanci melodici al lirismo più intimo, dalla potenza drammatica al virtuosismo più arduo.

Giuditta, intimorita, invoca la presenza dell'ancella Abra accanto a sé; quest'ultima la rassicura prontamente dimostrandole fedeltà e devozione ("Vultus tui vago splendori"). Abra ha la tessitura più acuta della compagine vocale: i suoi sono interventi virtuosistici leggeri e raffinati che ci restituiscono una immagine di ingenua innocenza giovanile (sicuramente più consona alle interpreti della Pietà che non alla tradizione iconografica che vede spesso Abra rappresentata come vecchia nutrice).

La seconda aria di Giuditta introduce l'aspetto forse più particolare e affascinante di questa partitura, l'utilizzo di strumenti concertanti inusuali. Che Vivaldi amasse diversi impasti sonori è testimoniato anche in molte altre sue opere (soprattutto nei Concerti), ma certamente le maggiori dimensioni dell'Oratorio gli permettono di "sperimentare" molteplici soluzioni "coloristiche".

"Quanto magis generosa" è un'aria di seduzione e la intrigante voce di Giuditta viene sottolineata da uno degli strumenti preferiti dal "prete rosso", la viola d'amore (viola a 7 corde doppie di cui le sette inferiori risuonanti per "simpatia"; Vivaldi scriverà ben sei Concerti per questo strumento) con il suo tipico suono aspro e penetrante. La manovra seduttiva comincia a fare effetto (Oloferne risponde con un deciso "Sede o cara") ma nel dubbio di ciò che sta compiendo, Giuditta si sente smarrita e confusa. "Agitata infido flatu" è la tipica aria di "tempesta" (tonalità sol minore): il velocissimo andamento altalenante degli archi in sottofondo e sopra la linea vocale puntata (ottavo puntato e sedicesimo) restituiscono in maniera mirabile tutta l'ansia della protagonista; non mancano le soluzioni "affettive" delle parole (come la discesa cromatica su "plorando").

Vagaus fa allontanare le guardie e organizza per la cena e la notte del suo signore. Anche quest'aria, "O servi volate", è concertata in modo originale: 4 tiorbe all'unisono o per terze e 2 cembali; una apoteosi di pizzichi che nell'intenzione del compositore forse volevano rendere l'idea dei passi veloci dei servi nel fervore dei preparativi. Anche per quest'aria troviamo una seconda versione per la signora Barbara (scritta però per gli archi).

Giuditta si rivolge ancora alla fidata ancella con affetto ("Veni me sequere fida"); è un momento di tenerezza prima della drammatica decisione, e viene sottolineato questa volta dal dolcissimo suono del salmoè. Anche questo strumento (denominazione italianizzata dello chalumeau, sorta di flauto dritto dotato di ancia antesignano del moderno clarinetto), sarà utilizzato dal veneziano in altre pagine (come il bellissimo "Concerto funebre, per violino oboe, salmo", 3 viole all'inglese, archi e basso continuo in si bemolle maggiore RV 579).

La prima parte dell'oratorio si chiude sulle voci lontane delle vergini di Betulia che trepidano sul loro destino.

La seconda parte si apre sulle riflessioni del sacerdote Ozias che prega per il successo della missione ("O Sydera, o stelle"). Ad Ozias sono affidate solo 2 arie, che nella loio gravità non mancano però di un certo interesse. Intanto nel campo assiro Oloferne dichiara apertamente il suo amore a Giuditta ("Nox obscura tenebrosa"), la quale, per portare a termine il suo piano, accetta di partecipare al banchetto e finge di essere lusingata dai complimenti. Indugia però su un'aria "morale", "Transit aetas", in cui riflette sulla caducità del corpo e della bellezza e sull'immortalità dell'anima. L'utilizzo del mandolino solista e dei violini pizzicati infonde alla pagina una atmosfera estremamente rarefatta, in una assonanza simbolica fra la precarietà della condizione umana e la vacuità dell'elemento sonoro.

Oloferne insiste nel corteggiamento: intona "Noli o cara" che rappresenta in un certo senso il contraltare della prima aria di seduzione di Giuditta; in questo caso il languore dell'invocazione è associato ai colori dell'oboe e dell'organo.

Il condottiero si fa prendere la mano dai ripetuti brindisi e finisce coll'addormentarsi ubriaco. Un breve interludio del coro prevede la presenza di 2 claren solisti, anch'essi strumenti ad ancia dal timbro più chiaro ed echeggiante.

Giuditta capisce che è arrivato il momento: chiama Abra e Vagaus all'interno della tenda. Lo scudiero porta via gli avanzi del banchetto e affida Oloferne alle cure delle due donne, ignaro delle loro reali intenzioni ("Umbrae carae"). Il calar della notte con il suo carico di silenzio e di pace è affidato alle evocazioni pastorali di 2 flauti dritti.

Mentre Abra rimane di guardia dinanzi alla tenda in una trepidante attesa ("Non ita reducem"), l'eroina porta a termine la sua missione. Queste pagine sono sicuramente fra le migliori in assoluto del compositore. Giuditta rivolge dapprima una preghiera al Signore, "Summe Astrorum Creator'', un recitativo accompagnato con un consort di viole da gamba ("Concerto de' viole all'inglese"); segue la drammatica aria "In somno profundo" concertata sempre con il consort di viole più tutti gli altri archi. Anche qui la tensione è impressa da un incalzante ritmo puntato, dalla inquietante tonalità di re minore e da una scrittura vocale fatta di ampi intervalli e ardite soluzioni armoniche. Il momento preciso della decapitazione è nuovamente affidato al recitativo accompagnato: sulle parole "Deus in nomine tuo scindo cervicem" gli archi si scatenano in una rapida successione di note ribattute in discesa d'ottava. Seguono gelide note lunghe sulle quali la voce di Giuditta proclama la sua vittoria. Chiama Abra che, dopo aver riposto la testa del nemico in un sacco, si allontana inneggiando al trionfo dell'eroina ("Si fulgida per te").

Quando Vagaus rientra nella tenda e scopre l'accaduto si dispera e grida vendetta contro il popolo ebraico. "Armatae face et anguibus" è un'altra aria "di furia" di intensità straordinaria, dove voce e strumenti si rincorrono in una pressione virtuosistica di sconvolgente risultalo emotivo.

Nel frattempo Ozias scorge da lontano la figura di Giuditta di ritorno in città ed intona un canto di ringraziamento e di gioia in suo onore. Gli fa eco il coro delle vergini esultanti che svela il significato allegorico ("Debellato sic barbaro Trace / Triumphatrix sit Maris Regina / Et placata sic ira divina / Adria vivat, et regnet in pace").

L'incantevole e grandioso sfondo scenografico della Venezia settecentesca si riflette nel mirabile affresco sonoro della Juditha, in quell'affascinante barocco che "stupisce et meraviglia".

Il mito di Giuditta

Le vicende di Giuditta e Oloferne sono narrate nel testo biblico intitolato appunto Libro di Giuditta e fin dal Medioevo il mito dell'eroina ispirò tutti i settori artistici, dalla poesia alla pittura, dalla scultura alla musica. In campo letterario e poetico troviamo importanti produzioni a partire dal XVI secolo: si vedano ad esempio le tragedie di Joachim Greff (1536), Sixt Birk (1539), Samuel Hebel (1566) e il dramma sacro di Hans Sachs Judith. Tragedia des jungsten Gerichtes, rappresentato nel 1551. Nel secolo successivo la vicenda ispirò Federico della Valle (Judit, 1627), il tedesco Martin Opitz (1635), e lo spagnolo Felipe Godinez (Judit y Olofernes). Un nuovo interesse verso i personaggi di Giuditta e Oloferne riprese nell'800 con i drammi di Heinrich Keller (1808), di Paolo Giacomelli (1857) e soprattutto con la tragedia in 5 atti in prosa Judith di Friedrich Hebbel (Berlino 1840) che diede vita ad una ampia produzione librettistica. Nel Novecento va segnalata la tragedia Judith di Jean Giraudoux (193D e una Giuditta di Carlo Terron (1949) ambientata nel tragico contesto della seconda guerra mondiale.

La produzione musicale ispirata al mito di Giuditta è immensa: dal '600 al '900 si possono contare oltre un centinaio di titoli di cui citiamo solo alcuni fra i più significativi dei vari periodi.

L'epopea dell'eroina ebrea trova la sua maggior fortuna nel periodo barocco con i lavori di: Marco da Gagliano (La istoria di Judit, 1626), Giacomo Carissimi (Giuditta, 1656), Maurizio Cazzati (La Giuditta, 1668), Alessandro Melani (L'Oloferne, 1675), Antonio Sartorio (L'Oloferne, 1681 ), Giovanni Paolo Colonna (Giudith, 1684 e Bettuglia liberata, 1690), Marc'Antonio Ziani (La Giuditta, 1686), Francesco Gasparini (Judith de Holoferne triumphans, 1689), Alessandro Melani (Giuditta, 1693), Antonio Lotti (La Giuditta, 1701), Carlo Agostino Badia (La Giuditta, 1704), Benedetto Marcello (La Giuditta, 1709), Baldassare Galuppi (Judith, 1746), Giovanni Battista Costanzi (Giuditta, 1753), Gaetano Latilla (Judith triumphans, 1757 sullo stesso libretto di Cassetti utilizzato da Vivaldi), Domenico Cimarosa (Giuditta, 1782), Giuseppe Nicolini (Judith, 1785). Da ricordare anche la Judith sive Bethulia liberata di Marc-Antoine Cbarpentier (1680). Meritano un cenno a parte i due lavori di Alessandro Scarlatti ispirati a questo personaggio: l'oratorio Giuditta su testo di Benedetto Pamphili del 1695 e la Giuditta detta di Cambridge dove Scarlatti, pur ispirandosi al medesimo argomento biblico, tralascia il racconto dell'impresa bellica ed analizza invece ì moti intenori dell'eroina che confida alla sua nutrice, in un colloquio intimo e delicato, le sue ansie e i suoi timori.

Era inevitabile che anche il più grande poeta "per musica" italiano, Pietro Metastasio, si cimentasse con questo affascinante soggetto. Nella sua Betulia liberata la storia di Giuditta viene però parzialmente "riletta": innanzitutto il personaggio di Oloferne non appare mai in scena poiché è la stessa vedova, al ritorno in città, a raccontare l'episodio della decollazione (in questo modo il poeta rispetta i tre canoni aristotelici di tempo, luogo e azione); dall'altra egli introduce nel racconto, attraverso altre due figure, il tema della certezza o dubbio della fede (l'ebrea Amital che pur credente dubita dell'aiuto del suo Dio e l'"infedele" Achior che invece, alla vista della testa di Oloferne, si convertirà). Nella seconda metà del Settecento sarà quasi esclusivamente questo il testo poetico di riferimento per i compositori, fra cui Wolfgang Amadeus Mozart; a partire da Georg Reutter nel 1734 seguiranno poi le opere di Lorenzo Torve, Pietro Alessandro Guglielmi, Niccolò Jommelli, Pasquale Cataro, Vincenzo Legrenzio Ciampi, Ignaz Jakob Holzbauer, Johann Gottlieb Naumann, Pasquale Anfossi, Nicola Sala, Giuseppe Morosini, Pietro Pompeo Sales, Antonio Brunetti, Gaetano Pugnani. Interessanti anche due versioni tedesche del testo metastasiano: quella di Joseph Schuster (libretto con testo italiano-tedesco, Dresda, 1796) e quella di Natale Nicola Mussini (con il titolo Das beifreiteBethulien, Berlino, 1806).

La veste musicale della storia di Giuditta prosegtie anche nell'Ottocento con Il trionfo di Giuditta di Giuseppe Gazzaniga (su testo di Simeone Antonio Sografi, 1803), Giuditta di Pietro Raimondi (libretto di Andrea Leone Tortola, 1827), Judith di Giacomo Meyerbeer (libretto di Eugène Scribe, 1854), Giuditta di Achille Peri (libretto di Marco Marcelliano Marcello, Milano, Teatro alla Scala, 1860).

Nel 1840 esce un altro capolavoro letterario, la Judith di Friedrich Hebbel; sarà questo testo ad ispirare i lavori dell'ultimo secolo: Judif' di Aleksandr Nikolaevic Serov (1863), Giuditta di Carlo Jachino (1914), Judith di Max Ettinger (1921), Judith di Carl Natanael Berg (1936), Holofernes di Emil Nikolaus von Reznicek (1923).

Del 1923 è anche la Judith di Arthur Honegger su libretto di René Morax. Nel 1981 la Fondazione del Gewandhaus di Lipsia, in occasione della celebrazione dei propri 200 anni, commissiona un lavoro al compositore Siegfried Matthus il quale, ispirandosi anch'esso al testo poetico di Hebbel, scrive Holofernes, Porträt per baritono e orchestra. Nell'opera di Matthus però gli elementi caratteristici della storia biblica diventano dei pretesti per affrontare temi di più drammatica attualità: la miseria delle ambizioni e l'infelicità della condizione umana, la violenza sessuale, la paura della morte.

A conclusione non si possono non citare alcuni capolavori artistici ispirati al mito di Giuditta: dal bellissimo bronzo di Donatello alle straordinarie immagini visive di Botticelli (Dittico Le storie di Giuditta), Orazio e Artemisia Gentileschi, Lavinia Fontana, Giovanni Baglione, Rubens, Carlo Dolci, Mattia Preti, Giovanni Battista Piazzetta, Seghers, Giovanni Antonio Pellegrini. Sopra tutti, per incredibile efficacia drammatica, la celeberrima Giuditta di Caravaggio.

La Raccolta Foà della Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino

La partitura manoscritta autografa della Juditha Triumphans è conservata alla Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino in quello straordinario fondo musicale vivaldiano che è la Raccolta Foà (a questo proposito si veda il prezioso lavoro di catalogazione di Isabella Fragalà Data e Annarita Colturato, con il saggio introduttivo di Alberto Basso).

La storia dei manoscritti vivaldiani è assai avventurosa e se è sicuramente cospicuo il materiale fortunosamente giunto fino a noi è altrettanto consistente quello andato perduto. Fra quest'ultimo ad esempio vi sono gli altri 3 Oratori del compositore (Papa V del 1713, Il Mosè del 1714, e l'Adorazione dei Magi del 1722).

Nella primavera del 1740 Vivaldi decide di abbandonare Venezia e di recarsi definitivamente a Vienna. Prima della partenza sceglie (probabilmente anche per procurarsi i soldi per il viaggio e la permanenza) di mettere in vendita le proprie musiche: le propone in prima istanza all'Ospedale della Pietà, che, dopo alcuni tentennamenti, delibera l'acquisto solo delle musiche "nuove" (d'altra parte fino a che Vivaldi era in carica aveva l'obbligo di "lasciar copia delle partidure, quali saranno fatte copiare dalla Maestra di Choro, dagli originali"). Le altre le lascerà in parte nella casa veneziana e in parte le porterà con sé a Vienna, dove saranno acquistate, il 28 giugno 1741 (un mese prima della sua morte), da Antonio Vinciguerra conte di Collalto (musiche che con molta probabilità costituiscono ora il fondo del Moravské Muzeum di Brno).

I manoscritti vivaldiani rimasti a Venezia vengono comprati dal senatore Jacopo Soranzo, forse direttamente dal compositore prima della sua partenza o più probabilmente dagli eredi subito dopo la sua morte. Dal catalogo della biblioteca del notabile veneziano (rintracciato da Fabio Fano), emerge la descrizione del contenuto dei manoscritti e soprattutto si evince che già dall'estate del 1745 Soranzo possedeva già tutti i 27 tomi della raccolta vivaldiana. Alla morte del senatore, nel 1761, il suo immenso patrimonio librario viene suddiviso fra due nobili famiglie che poco dopo piazzarono il materiale sul mercato antiquario; fra gli acquirenti il noto collezionista e raffinato uomo di cultura abate Matteo Luigi Canonici e il grande mercante di libri padovano Carlo Scapin. Fra gli anni '60 e '80 del Settecento è presente a Venezia, in qualità di ambasciatore imperiale della corte viennese presso la Repubblica, il conte genovese Giacomo Durazzo, che oltre ad essere uomo politico di grandissima levatura, era appassionatissimo e gran sostenitore della musica e del teatro. Basti pensare che dopo essersi ritirato a vita privata manteneva in vita a Venezia un proprio personale teatrino, e nel 1771, in quella città, ricevette i Mozart durante il loro primo viaggio italiano.

Non c'è da stupirsi quindi che il Durazzo frequentasse antiquari e collezionisti importanti quali il Canonici o lo Scapin: e probabilmente fu proprio da quest'ultimo che, fra libri, stampe e disegni comprò anche i manoscritti vivaldiani.

Alla morte di Giacomo Durazzo il patrimonio passò a vari eredi fino a quel Marcello Durazzo che verso la fine dell'Ottocento decise di donare il fondo librario al vicino Collegio Salesiano "San Carlo" di Borgo San Martino, vicino a Casale Monferrato (dove il Durazzo aveva trasferito la propria residenza). Rimane tutto confinato nelle cantine e nei solai fino al 1926 quando il rettore del Collegio, Don Federico Emanuel, per realizzare dei lavori di ristrutturazione, stabilisce di mettere in vendita i contenuti di quegli ingombranti "scatoloni". Per le cose musicali fortunatamente il rettore si rivolge all'allora direttore della Biblioteca Nazionale di Torino, Luigi Torri che, avvalendosi della consulenza del musicologo Alberto Gentili, scopre l'incredibile raccolta.

Vengono applicate le norme di legge sul vincolo ma per assicurare il fondo alla Biblioteca occorreva una somma consistente di cui Torri non disponeva. Gentili mobilita le sue conoscenze e trova nella persona dell'agente di cambio Roberto Foà il possibile acquirente; l'unica condizione che Foà pone e l'intitolazione del fondo alla memoria del figlio Mauro morto pochi mesi prima.

L'atto di acquisto dei volumi del Collegio porta la data del 15 febbraio 1927; il dono viene poi "accettato" dallo Stato in data 23 maggio.

Laura Pietrantoni

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Juditha Triumphans è l'unico dei quattro oratori sacri che sappiamo scritti da Antonio Vivaldi di cui ci sia giunta la partitura, circostanza che rende questo lavoro estremamente prezioso per i posteri. Si tratta inoltre del testo che per primo rivelò al pubblico moderno il volto tuttora meno noto dell'arte di Vivaldi, quello di autore non solo strumentale, ma vocale. Eppure, durante la sua esistenza, il "prete rosso" era noto, più che per l'immagine di sacerdote, insegnante, e autore di concerti strumentali, per una attività assai poco compatibile con l'abito talare, quella di spregiudicato impresario teatrale (perdipiù convivente, a suo dire castamente, con una nota primadonna). Lo stesso Vivaldi ebbe a dichiarare di essere autore di novantaquattro opere, ma ai posteri è giunta notizia solo di una cinquantina di titoli, e appena una ventina di partiture ci sono arrivate. Di queste un numero estremamente limitato è stato eseguito ai nostri giorni, e non è escluso che uno studio approfondito del teatro vivaldiano possa portare a nuove importanti conclusioni sulla figura dell'autore.

D'altronde la figura di Vivaldi è stata oggetto di numerose scoperte e riscoperte nel corso di oltre un secolo. Il primo interesse verso la sua musica in tempi moderni ebbe origine alla fine del XIX secolo sulla scorta delle trascrizioni operate da Bach; all'epoca erano noti, di Vivaldi, solamente quei lavori strumentali che erano stati pubblicati durante la vita dell'autore. Doveva seguire, negli anni Venti del Novecento, il fortuito rinvenimento dei ventisette volumi contenenti l'immensa raccolta di partiture autografe del compositore: non solo gli innumerevoli concerti, ma anche e soprattutto una vastissima produzione vocale, sia profana che sacra. In particolare melodrammi, cantate da camera, mottetti, salmi, inni, movimenti di messa ecc. Eppure, è proprio la produzione strumentale che ha imposto il nome dell'autore a livello di massa, negli anni Sessanta, probabilmente anche per la scoperta di un "sound", un suono barocco, alternativo a quello dell'orchestra consegnataci dalla tradizione romantica.

All'intero della produzione vocale, assai più dei lavori teatrali, sono quelli sacri che sono stati riproposti ai nostri giorni. E probabile che la maggior parte di queste opere sia stata composta intorno al 1715. Già dal 1703 infatti Vivaldi prestava servizio presso l'Ospedale della Pietà, uno dei quattro orfanotrofi femminili di Venezia nei quali si insegnava e praticava la musica; ed il compito dell'autore era appunto quello di insegnare, e comporre la musica per le esecuzioni strumentali. Nel 1713, in seguito all'assenza del maestro del coro Francesco Gasparini, a Vivaldi fu chiesto di procurare la musica anche per le esecuzioni vocali; il 2 agosto 1715 gli fu attribuito un emolumento speciale come compenso per "una messa intiera, un vespero, un oratorio, più di trenta mottetti, et altre fatiche".

Juditha triumphans nacque l'anno successivo, nel 1716, appunto per essere eseguita dalle orfanelle dell'Ospedale della Pietà (sono probabili peraltro anche delle riprese successive, visto che l'autografo presenta delle arie alternative per il personaggio di Vagaus, probabilmente legate alla presenza di una diversa interprete di canto). L'argomento si basa sull'episodio biblico di Giuditta e Oloferne, che narra come, sconfitti gli ebrei dagli assiri, l'ebrea Giuditta si rechi nell'accampamento nemico e, suscitata la passione del condottiero Oloferne, riesca a troncarne il capo, salvando così la città di Betulia. Tale soggetto, fra i prediletti di tutta la produzione oratoriale dell'età barocca, fu prescelto non casualmente ma in quanto permetteva concreti riferimenti alla situazione politica contingente in cui si trovava la Repubblica Veneta, impegnata in una guerra contro i turchi il cui esito non sarebbe stato felice. Infatti, nel libretto della Juditha - scritto in tardo latino dal cavalier Giacomo Cassetti - il sacerdote Ozias paragona la liberata Betulia a Venezia, in una sorta di profezia ("Ita decreto aeterno/Veneti Maris Urbis/Inviolatam discerno"); perché il parallelo risultasse ancora più esplicito, l'edizione a stampa del libretto prevedeva, in appendice, un "Carmen allegoricum" (non musicato) nel quale Juditha è indicata come "Adria" (Venezia), l'ancella Abra come la Fede, Betulia come la Chiesa, Ozia come pontefice e Holofernes come il re dei turchi.

E piuttosto singolare che la partitura scritta da Vivaldi su questo libretto sia stata argomento di discussione riguardo a un problema critico palesemente infondato: se essa rientri a pieno diritto nel genere dell'oratorio o se non sconfini piuttosto nel genere del melodramma a soggetto sacro. Gli elementi che hanno fatto propendere alcuni studiosi verso questa seconda soluzione sono soprattutto l'assenza dello Historicus (narratore) e un'azione che si sviluppa speditamente e senza diversivi, con sicuri effetti drammatici, secondo la contrapposizione di personaggi dal profilo ben definito. In realtà basterebbero l'uso della lingua latina e la presenza cospicua del coro a sgombrare il campo dagli equivoci e a indicare la precisa matrice oratoriale della Juditha. Gli stessi elementi musicali più immediatamente identificabili come melodrammatici erano in effetti già costantemente presenti nel genere oratoriale da oltre mezzo secolo; va dunque ritenuto implicito nel momento storico vissuto dal genere che la partitura della Juditha, come un melodramma, viva in un'atmosfera belcantistica e si articoli in una successione di arie col "da capo" collegate da recitativi secchi. Tutti i ruoli, peraltro, sono destinati a voci femminili (Juditha, Holofernes, Ozias: contralti; Vagans e Abra: soprani), e questo in quanto l'Ospedale della Pietà era un orfanotrofio femminile. Le arie - alcune piuttosto impegnative tecnicamente, a dimostrare l'ottimo livello delle soliste della "Pietà" - sono distribuite numericamente secondo l'importanza dei personaggi (sei per Juditha, cinque per Holofernes, cinque per Vagans, quattro per Abra, due per Ozias), e ricoprono ventidue dei trenta numeri complessivi della partitura; la loro funzione è scolpire i ritratti dei personaggi secondo il loro significato allegorico. Logico dunque che lo scudiero Vagans si avvalga di pagine rapide e brillanti, che mostrano la sua gioiosa sollecitudine nel servire Holofernes; che l'ancella Abra si mostri tetragona nel suo compito di infondere costantemente fiducia a Juditha, e che il gran sacerdote ebreo Ozia usi accenti scultorei. Più complesso il discorso per i due protagonisti, il cui rilievo psicologico sembra spingersi ben oltre l'allegoria: Juditha passa dall'iniziale atteggiamento timoroso ed umile a quello eroico della fine; Holofernes converte i bruschi modi del guerriero in quelli remissivi dell'innamorato. In realtà non bisogna cadere nell'equivoco di vedere questi mutamenti nell'ottica dello psicologismo romantico; i due personaggi, diametralmente opposti, subiscono un percorso incrociato, che segue il declino della baldanza del guerriero e la affermazione del coraggio dell'eroina attraverso la fede; dunque anch'essi rientrano a pieno titolo nel contenuto allegorico.

I rimanenti otto numeri della partitura comprendono tre recitativi accompagnati (per momenti di particolare drammaticità, come l'uccisione dì Holofernes e il paragone fra Betulia e Venezia) e cinque cori (a quattro voci, con andamento omoritmico e struttura prevalentemente bipartita con ritornelli) intonati da guerrieri assiri e vergini ebree (i tenori e i bassi erano forse gli insegnanti dell'Ospedale della Pietà).

Non si spiegherebbe tuttavia il fascino della partitura della Juditha senza ricordare la straordinaria varietà e audacia della strumentazione, che tende ad impiegare particolari strumenti in funzione concertante, determinando impasti sonori inediti anche in relazione alle voci. Ad esempio: l'aria di Juditha "Quanto magis generosa" (n.7) è accompagnata dalla viola d'amore e da due violini "con piombi" (ossia con sordine pesanti); l'aria di Vagans "O servi volate" (n.11) da quattro tiorbe e cembalo; l'aria di Juditha "Transit aetas, volant anni" (n.17) da mandolino e violini pizzicati; l'aria di Holofernes "Noli o cara te adorantis" (n.18) da oboe e organo. (Per tacere dei problemi posti dall'uso di strumenti dei quali non conosciamo l'esatta natura: il Salmoé era antenato dell'oboe o del clarinetto? il Claren del clarinetto o della tromba?). Questo aspetto di sperimentazione coloristica conferma, insieme alla sicurezza del disegno drammatico e alla straordinaria ricchezza inventiva delle arie, come la Juditha Triumphans occupi a giusta ragione una posizione privilegiata nella produzione di Vivaldi e, più in generale, nell'ambito dell'oratorio barocco. Qui vediamo davvero la mano personalissima del compositore, che coniuga fantasia e sapienza artigianale: la cantabilità suadente, l'invenzione melodica sempre originale, la struttura ritmica dello strumentale si animano e si coloriscono grazie agli accostamenti timbrici, che scelgono soluzioni di volta in volta rinnovate, sempre ideali nella definizione dell'"affetto" affidato al personaggio di turno. Per questo la lunga e variatissima successione di arie che innerva la partitura incanta e affascina l'ascoltatore moderno.

Arrigo Quattrocchi


(1) Testo tratto dal libretto inserito nel CD allegato al n. 133 della rivista Amadeus
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 10 novembre 2000
(3) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 11 ottobre 2001


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Ultimo aggiornamento 27 marzo 2015