Quattro Pezzi, op. 7

per violino e pianoforte

Musica: Anton Webern (1883 - 1945)
  1. Sehr langsam
  2. Rasch
  3. Sehr langsam
  4. Bewegt
Organico: violino, pianoforte
Composizione: Preglhof, 1910
Prima esecuzione: Vienna, 24 aprile 1911
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1922
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

«La seconda metà del secolo sciuperà, sopravvalutandolo, ciò che di buono del mio lavoro la prima metà ha lasciato intatto, sottovalutandolo». Col famigerato "senno di poi" questa celebre e un po' profetica boutade riferita a se stesso da Arnold Schönberg nel 1909 risulta tanto più vera nel caso di Anton Webern. Se già fin dalla fine degli anni Dieci, infatti, Schönberg è stato considerato - nel bene e nel male - dagli addetti ai lavori e dal pubblico di tutto il mondo come uno dei due grandi modernisti della musica del Novecento, insieme e in contrapposizione a Igor Stravinskij («sotto le armi una volta mi chiesero se fossi proprio io questo compositore di nome Arnold Schönberg. Qualcuno doveva fare questa parte - risposi - nessuno voleva e così mi sono offerto io»), completamente diversi sono state la storia e la fortuna critica di Anton Webern: allievo di Schönberg dal 1904 al 1908, Webern fu ben presto considerato come il più "integralista" di quel gruppo di allievi, quasi un eccentrico esasperatore degli aspetti più tecnicistici della lezione del grande maestro, e visse sostanzialmente ai margini della vita musicale europea mentre le sue musiche avevano solo sporadiche esecuzioni.

Ma poco tempo dopo la sua tragica uccisione, avvenuta nel settembre del 1945 per mano di un soldato americano in seguito a uno stupido incidente, la situazione si capovolse completamente e già intorno al 1950 Webern veniva salutato dalla nuova avanguardia che si andava formando presso i Ferienkurse für Neue Musik di Darmstadt come l'autentico faro della nuova musica, tanto che da allora si iniziò a parlare di «post-weberniani». Se Theodor Adorno nella sua Filosofia della musica moderna, pubblicata nel 1949, metteva ancora l'accento sull'aspetto più astrattamente meccanicistico del suo comporre («Webern applica la tecnica dodecafonica e non compone più: ciò che resta della sua maestria è il silenzio»), René Leibowitz negli stessi anni considerava le ultime opere di Webern come «il punto più avanzato al quale il linguaggio musicale sia giunto fino al momento presente». E perfino qualcuno di assai più lontano da lui come Igor Stravinskij ne parlò come di un «grande compositore», un «giusto della musica», addirittura un «eroe» che benché «condannato a un totale insuccesso in un sordo mondo d'ignoranza e d'indifferenza, continuò inesorabilmente a tagliare i suoi diamanti, i lucenti diamanti di cui egli aveva una conoscenza così perfetta».

Nell'ambito del programma del concerto di questa sera i Vier Stucke für Geige und Klavier (Quattro pezzi per violino e pianoforte) op. 7 di Anton Webern costituiscono una piccola eccezione in quanto sono l'unico brano a non appartenere al genere della Sonata. Un genere, del resto, completamente assente nel concentratissimo catalogo delle opere del compositore austriaco: appena 31 numeri d'opera portati a termine nell'arco di circa 35 anni che, se eseguiti uno di fila all'altro, non supererebbero le quattro ore e mezzo complessive di durata. Quanto tre Sinfonie di Mahler, per intenderci.

Quasi paradigmatici di una maniera di comporre divenuta ben presto sistema, i Quattro pezzi op. 7, scritti nel 1910 e pubblicati solo nel 1922, sono brevissimi, autentiche folgorazioni: appena 9 battute il primo, 24 il secondo, 14 il terzo e 15 il quarto per una durata totale che non raggiunge i cinque minuti. Scritti in un linguaggio pienamente atonale, senza alcuna alterazione in chiave, alternano movimenti lenti a movimenti più mossi (Sehr langsam - Rasch - Sehr langsam - Bewegt, e cioè Molto lento - Rapido - Molto lento - Mosso) con frequentissimi cambi di tempo e si muovono prevalentemente nelle atmosfere del pianissimo e del più che pianissimo (nelle ultime battute del terzo brano, già in ppp, Webern scrive «kaum hörbar», «appena udibile») con rare puntate nel forte e nel fortissimo. In essi ogni nota, ogni pausa, ogni timbro, ogni effetto prescritto da Webern (suoni armonici, note da suonare con la sordina, "col legno", pizzicati) assume pregnanza assoluta, proprio come fosse uno dei «lucenti diamanti» di cui parlava Stravinskij.

Carlo Cavalletti

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Ben più dei venti due anni effettivamente trascorsi sembrano separare l'ultima sonata brahmsiana dai Quattro pezzi op. 7 di Webern, composti nel 1910. Dalle eloquenti, vaste perorazioni melodiche del musicista di Amburgo (ma viennese di elezione) la stessa capitale asburgica passa ad ascoltare l'"inudibile" linguaggio weberniano: «appena udibile» sarà infatti l'indicazione scritta al termine del terzo pezzo. Nato a Vienna nel 1883, allievo e poi amico di Schönberg, Webern perseguirà praticamente in tutta la sua carriera l'estetica dell'aforisma, dell'essenziale. A proposito di questi Quattro pezzi (e di altre composizioni del periodo) Pierre Boulez ha parlato di «forma concentrata a un grado talmente alto da non poter sopportare un lungo sviluppo nel tempo, data la ricchezza dei mezzi impiegati e della poetica che li governa». Costruiti sull'alternanza di movimenti lenti e vivaci (Sehr langsam - Rasch - Sehr langsam - Bewegt), i primi rasentano la staticità, per non dire l'assenza, contrapposta alle micro-esplosioni di energia dei brani veloci. Al tempo stesso vi è una estremizzata ricerca di soluzioni espressive: dodici indicazioni esecutive si susseguono nelle appena ventiquattro battute del secondo brano (nove, quattordici e quindici battute contano peraltro gli altri movimenti, per un totale di circa cinque minuti di musica). «Romanzi in un sospiro» avrebbe definito Schönberg tre anni dopo le Sei bagatelle per quartetto d'archi dell'allievo e l'espressione di adatta perfettamente anche al rarefatto lirismo dell'op. 7.

Renato Bossa


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium Parco della Musica, 8 marzo 2013
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 2 febbraio 2001


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Ultimo aggiornamento 20 febbraio 2015