Roberto Devereux o anche Il Conte di Essex, A 52, In 61

Melodramma serio in tre atti

Musica: Gaetano Donizetti (1797 - 1848)
Libretto: Salvatore Cammarano da Elisabeth d'Angleterre di Jacques-François Ancelot

Ruoli: Organico: ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 2 cornette, 3 tromboni, timpani, triangolo, grancassa, archi
Composizione: 1837
Prima rappresentazione: Napoli, Teatro San Carlo, 28 ottobre 1837
Edizione: Ricordi, Milano, s. a.
Argomento

Atto primo

Sala terrena nel palazzo di Westminster. Le dame osservano la duchessa Sara, sola in un angolo a piangere mentre legge un libro. Cercano di stogliere l’amica dai suoi pensieri, ma la fanciulla, mentendo, afferma di essere commossa dalla storia che sta leggendo. La verità è che sta pensando all’amato Roberto Devereux. Entra la regina Elisabetta, che si rivolge in modo amichevole a Sara, e acconsente ad ascoltare il marito di lei, il duca di Nottingham, e la sua difesa in favore di Devereux accusato di tradimento dal parlamento inglese. Elisabetta teme che questi, un tempo suo amante, la tradisca, come regina ma soprattutto come donna. Sara, turbata, la rassicura. Entrano Lord Cecil, Gualtiero e altri Lord, che riferiscono il responso del parlamento: Devereux è condannato per tradimento. Elisabetta prende tempo per confermare o meno la condanna, e in quel momento arriva Roberto, che vuole difendersi davanti alla regina delle accuse subite. Rimasti soli, Elisabetta gli ricorda i bei giorni vissuti da innamorati e indaga il cuore di Roberto a proposito dei suoi sentimenti. La regina sospetta che ami un’altra. Il conte nega, ma in Elisabetta rimane il dubbio. Roberto è rimasto solo. Entra in scena Nottingham che abbraccia l’amico, ma questi, dolorosamente, allontana il duca in gesto di rassegnazione e lo invita a trovare consolazione nelle braccia della consorte. Nottingham allora gli racconta dell’inconsolabile mestizia della moglie, una mestizia della quale non conosce la causa. Giungono i Lord: Roberto deve presentarsi davanti al tribunale per la sentenza. Nottingham è deciso a difendere l’onore di Roberto.

Appartamenti della duchessa nel palazzo di Nottingham. Sara attende Roberto, ed egli giunge accusandola di averlo tradito. Lei racconta di come, una volta partito per la guerra, e morto anche suo padre, fu data in sposa al duca. Lo spinge quindi a volgere il suo cuore alla regina. Roberto però ama solamente lei, e le dà l’anello donatogli da Elisabetta. I due si scambiano allora intense parole d’amore, fin quando Sara dà l’addio al conte donandogli una sciarpa quale pegno di uno sfortunato amore.

Atto secondo

Magnifica galleria nella reggia. I Lord e le dame attendono il responso del parlamento. Elisabetta entra e apprende da Cecil la decisione: morte. Entra Gualtiero che ritorna dalla casa di Devereux e porge il suo resoconto: il conte non ha trascorso la notte a casa, vi ha fatto ritorno solo al sorgere del nuovo giorno; nell’atto di essere arrestato, ha cercato di nascondere una sciarpa. Per Elisabetta, è proprio la sciarpa, la prova definitiva del tradimento di Roberto. Entra Nottingham a chiedere la grazia per l’amico. La regina la nega, informando il duca dei fatti per lei accertati. Dapprima Nottingham rimane turbato, ma quando Elisabetta, di fronte a Roberto che nel frattempo è stato condotto dalle guardie nella sala reale, mostra agli astanti la sciarpa, capisce che egli è l’amante di sua moglie, e la rabbia si fa strada dentro di lui. Elisabetta chiede il nome della donna proprietaria dell’oggetto, in cambio della salvezza. Ma Roberto si rifiuta di rivelarlo e viene condannato a morte.

Atto terzo

Sala terrena nel palazzo di Nottingham. Mentre Sara attende il ritorno del consorte, un familiare del duca le reca una lettera. È da parte di Roberto: le comunica di essere stato condannato a morte, e che può essere salvato solo se porterà l’anello alla regina. Sara fa per partire ma viene raggiunta dal marito, che la accusa di infedeltà, legge la lettera e ordina alle guardie di tenerla chiusa in casa, affinché raggiunga il palazzo solo a condanna eseguita.

Orrido carcere nella torre di Londra. Roberto attende il suo destino: si domanda se Sara porterà in tempo l’anello alla regina per salvarlo dalla condanna a morte. Le sue speranze si infrangono: sopraggiungono le guardie per condurlo al patibolo.

Gabinetto della regina. Elisabetta è in attesa dell’arrivo di Sara, mandata a chiamare perché giunga a porgerle il conforto di un’amica. Pensa all’amato Roberto, e ormai, placatosi il furore, si augura solo che si salvi, anche se dovesse vivere nelle braccia dell’ignota amante. Giunge Cecil che la informa: Roberto sta per essere giustiziato. Elisabetta chiede notizie dell’anello che avrebbe potuto donargli la grazia, ma Cecil risponde che Roberto non lo ha consegnato. Gualtiero introduce quindi Sara, pallida e sfinita. È lei a porgere finalmente la gemma a Elisabetta. Ma è in quel momento, con quel gesto, che la regina si rende conto dell’identità dell’amante di Roberto: è Sara. La duchessa supplica la regina di salvare la vita a Roberto, ma è inutile: un suono funebre fa tremare i presenti, e Nottingham, al colmo della gioia, entra gridando che Roberto è morto. Elisabetta, sconvolta e in preda all’ira più funesta, accusa Sara di essere la responsabile della morte di Devereux, ma il duca confessa di esserne lui il vero artefice. La regina fa imprigionare i due coniugi e, ossessionata dalle visioni del fantasma dell’amato, abdica in favore di Giacomo I.

Roberto Devereux in breve (nota 1)

Com’è noto, le vicende personali della biografia di Gaetano Donizetti (1797-1848) non sono state tra le più felici. E forse gli eventi più tragici risalgono proprio all’anno che vide nascere Roberto Devereux, una delle opere più importanti e di maggiore successo del suo vastissimo catalogo.

Era il 1837. Il bergamasco era già ampiamente affermato, risiedeva a Napoli da dieci anni con ruoli e ingaggi di primo piano – presentava regolarmente opere al Teatro Nuovo e ai Teatri Reali, oltre a insegnare nel prestigiosissimo Conservatorio – e contestualmente componeva per Milano e per gli altri teatri di punta della penisola titoli di grande successo, che lo stavano imponendo sempre più prepotentemente alla ribalta internazionale. Stringendo sull’inizio di quel 1837, le fortune professionali del compositore subirono una ulteriore impennata: Donizetti fu scelto per fare le veci del direttore del prestigioso Conservatorio napoletano alla scomparsa di Nicola Antonio Zingarelli, inoltre aveva in agenda due importanti commissioni cui attendere: per Venezia, dove, sulla scia del successo di Pia de’ Tolomei dato al Teatro Apollo, aveva ricevuto l’incarico di comporre un’opera nuova che avrebbe dovuto inaugurare, il 26 dicembre 1837, il Teatro La Fenice, dopo l’incendio che lo aveva colpito l’anno precedente; e per il Teatro San Carlo di Napoli, che gli aveva commissionato un lavoro inedito da mettere in scena per la fine di agosto di quello stesso anno.

Prospettive luminose, che furono però presto rovesciate. Proprio il lavoro sulla nuova opera per la Stagione d’autunno del San Carlo fu compiuto in un frangente estremamente luttuoso: nel mese di luglio, il colera imperversava a Napoli provocando centinaia di morti, il lavoro per il Teatro subiva ritardi e inconvenienti, non mancavano i problemi con la censura, la previsione della direzione del Conservatorio sfumò, ma soprattutto l’amata moglie del musicista, Virginia Vasselli, morì, poche settimane dopo aver partorito un bambino vissuto solo poche ore. Appena una settimana dopo la morte della moglie, Donizetti scriveva al cognato: «Oh! Toto mio, Toto mio, Toto mio, fa che il mio dolore trovi un’eco nel tuo, perché ho bisogno di chi mi comprenda. Io sarò infelice eternamente. Non scacciarmi, pensa che siamo soli sulla terra».

Si trovava in queste disperate condizioni emotive, Donizetti, mentre lavorava al Roberto Devereux. Al suo fianco, il librettista Salvadore Cammarano (1801-1852), in quegli anni suo poeta teatrale d’elezione: tra Lucia di Lammermoor (1835) e Poliuto (1838), i libretti di tutte le sue opere serie ne portano la firma. La scelta del soggetto cadde ancora una volta su un argomento inglese: con Devereux si chiude infatti la fortunata trilogia di opere del musicista ispirate alle regine Tudor, dopo Anna Bolena (1830) e Maria Stuarda (1835). Al centro dell’opera, la relazione amorosa della regina Elisabetta con il suo favorito, il conte d’Essex, un tema ampiamente frequentato nel teatro di parola e già ripreso anche in quello lirico: la stessa fonte, la tragedia Élisabeth d’Angleterre di Jacques Ancelot (1794-1854), che aveva debuttato a Parigi il 4 dicembre 1829, era stata usata dalla coppia Felice Romani/ Saverio Mercadante e messa in scena alla Scala – col titolo Il conte d’Essex – nel 1833.

La trama dell’opera di Donizetti, che ricalca piuttosto fedelmente la fonte letteraria seppur con un evidente inasprimento della tinta ‘fosca’, è un intrigo passionale alla corte d’Inghilterra del sedicesimo secolo. In parte si può dire ispirato a fatti realmente accaduti, pur con marcate licenze poetiche; su tutte, l’abdicazione finale della regina, nella realtà mai avvenuta. La vicenda è la seguente: Devereux, conte di Essex, è accusato di tradimento dai suoi nemici. La regina Elisabetta, che ne è stata l’amante e lo ama ancora, non intende sottoscrivere la condanna. Ma cambia idea quando si insinua in lei il sospetto di un’altra donna nella vita del suo favorito: Sara Nottingham, un amore del passato di lui, andata in sposa al signore di Nottingham quando Roberto la abbondonò per andare sotto le armi. Una volta appurato il tradimento – che però non c’è stato – con una sciarpa come prova, Elisabetta, seppur in balia di sentimenti contrastanti, fa rinchiudere l’amante nella torre di Londra. Potrebbe arrivare la grazia, con l’anello della regina che Devereux ha consegnato a Sara perché lo recapitasse a Elisabetta, ma la gelosia del marito della giovane donna impedisce all’oggetto risolutore di finire in tempo nelle mani della corona. La sentenza viene eseguita, i coniugi Nottingham imprigionati, mentre Elisabetta impazzisce ossessionata dalla visione del fantasma di Roberto.

Cammarano confezionò un dramma a tinte forti, dalla spiccata violenza emotiva e caratterizzato da un ritmo scenico incalzante che a un certo punto ‘smaschera’ il tema chiave dell’opera: lo scorrere implacabile del tempo, che fugge, inesorabile, trascinando rovinosamente la vicenda verso una tragica conclusione. Donizetti cavalcò questa tendenza alla rapidità, alla concisione drammatica. Fin dalla Sinfonia iniziale, praticamente una manciata di battute orchestrali – solo per la ripresa al Théâtre Italien di Parigi del 1838 aggiunse una ouverture più tradizionale – ma anche nel corso dei tre atti, dove spesso sono fulminei i preamboli ai numeri musicali, o dove in qualche caso mancano del tutto i tempi di attacco. Proprio per questa sua audacità nel ‘piegare’ la struttura musicale, o i suoi dettagli, al fine drammaturgico, Devereux è considerata un punto di svolta nell’evoluzione creativa di Donizetti. Svolta che si percepisce anche nella figura di Elisabetta: una regina molto più scavata, a livello psicologico, rispetto alle altre Tudor donizettiane, un personaggio tragico profondo, a tutto tondo, cui non può che corrispondere una vocalità virtuosistica e impervia.

Roberto Devereux debuttò al Teatro San Carlo di Napoli il 28 ottobre 1837, con un cast che comprendeva per i ruoli principali Giuseppina Ronzi De Begnis (Elisabetta), il soprano che per Donizetti aveva già interpretato i ruoli di Fausta, Sancia di Castiglia, Maria Stuarda e Gemma; l’esordiente Almerinda Granchi (Sara) resa orfana dal recente colera; Giovanni Basadonna (Roberto) e Paul Barroilhet (Nottingham). Il successo fu pieno e completo, tanto che il pubblico volle applaudire, in modo poco convenzionale, anche il librettista. Lo racconta lo stesso Donizetti a Ricordi in una lettera del 31 ottobre: «Ho dato l’altro ieri l’opera mia a S. Carlo; non sta ora a me il dirvi come andò, sono più modesto di una p... perciò arrossirei. – Ma andò molto e molto bene – si chiamò anche il poeta». In quel frangente, quel successo lo si poté sfruttare poco: malattie e precedenti impegni di alcuni esecutori limitarono di molto il numero delle repliche. Resta però il fatto che l’opera fu tra i lavori più eseguiti di Donizetti nel corso del secolo, tanto da essere ancora rappresentata nel 1882.

Maria Rosaria Corchia


(1) Testo tratto dal programma di sala della Fondazione Teatro La Fenice,
Venezia, Teatro La Fenice, 15 settembre 2020


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Ultimo aggiornamento 22 marzo 2024