A kilenc csodaszarvas (I nove cervi fatati)

Cantata profana (da testi natalizi romeni) per tenore, baritono, doppio coro e orchestra, BB 100, SZ 94

Musica: Béla Bartók (1881 - 1945)
  1. Molto moderato
  2. Andante
  3. Moderato
Organico: tenore, baritono, doppio coro, ottavino, 3 flauti, 3 oboi, 3 clarinetti, clarinetto basso, 3 fagotti, controfagotto, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, cassa chiara, grancassa, piatti, tam-tam, arpa, archi
Composizione: 8 Settembre 1930
Prima esecuzione: Londra, 25 Maggio 1934
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1934
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

A differenza del compatriota Zoltàn Kodàly, Bartók fu principalmente autore di musica strumentale e nel catalogo della sua produzione l'opera vocale-corale occupa un'area assai limitata. In tale contesto la Cantata profana, ultimata nella composizione l'8 settembre 1930, costituisce il manifesto più emblematico e singolare della peculiare poetica bartokiana.

Ben poco si conosce, al di fuori di qualche citazione nell'Epistolario, sulle effettive ragioni che stimolarono l'ispirazione del musicista magiaro. Sembra comunque che Bartók intendesse considerare la Cantata profana come il pannello introduttivo di un variegato polittico di tre o quattro lavori. E, al riguardo, in una lettera del 1933 a Sandor Albrecht, Bartók precisò: «Vorrei far seguire a quest'opera almeno altre tre sezioni d'ampiezza analoga, collegate tutte assieme da una sorta di idealità comune, pur se ciascun episodio dovrebbe avere una fisionomia autonoma ed essere eseguito da solo». V'è tra le carte del musicista un semplice schizzo in base al quale, alla Cantata profana, che si fonda sul soggetto d'un'antica ballata rumena, potevano aggregarsi lavori corali e orchestrali basati sul folclore slovacco e ungherese nel segno della fraternità tra le genti del bacino danubiano. Progetto rimasto però inevaso allora, fu probabilmente dimenticato in seguito.

Il soggetto della Cantata profana deriva da due versioni di canti popolari rumeni del genere "colinda", cioè di canti del periodo natalizio. Il carattere di tale testo presenta un doppio motivo d'interesse, folclorico non meno che storico-culturale. In gran parte il soggetto nulla ha a che vedere con qualsiasi sorta di leggende dell'occidente cristiano ma affonda le sue origini nell'antico patrimonio slavo, al di fuori d'una specifica pratica religiosa. La vicenda colpì l'immaginazione del musicista per le implicazioni simboliche che coinvolgeva, dal desiderio di fuga nel cuore della foresta, come ritorno alle origini dell'umanità, al rifiuto della civiltà metropolitana e delle lusinghe del progresso: in parte essendovi marcate analogie con la genesi del Principe di legno. In proposito lo stesso Bartók, in un articolo pubblicato nel 1933 sulla "Schweizerische Musikzeitung", chiarì: «Invece di accennare alla storia di Betlemme, in queste leggende del periodo natalizio si parla di battaglie vittoriose contro un leone considerato invincibile e contro un temibile cervo: e tipica è la leggenda dei nove fratelli addestrati dal padre soltanto alla caccia nei boschi, e dell'improvvisa loro trasmutazione in cervi; così come c'è il "miracle-play" del matrimonio del sole con sua sorella, la luna... In breve, tutto rimanda alla cultura delle comunità pre-cristiane, al mondo pagano».

Di rincalzo Istvàn Palko, eminente etnologo balcanico, ha osservato in uno studio del 1954 che l'antica leggenda dei "Nove cervi fatati" poteva collegarsi ad una storia del folclore magiaro, quella di Hunor e Magor. E precisa: «Al cuore della leggenda che colpì l'immaginazione di Bartók vi fu il fatto dell'accanimento con il quale i nove adolescenti inseguirono un grande cervo, giungendo ad un ponte misterioso, oltrepassando il quale diventarono preda d'un incantesimo che li trasformava in cervi. Allarmato dal prolungarsi della loro assenza, il padre decise di andarne alla ricerca e s'inoltrò nella foresta seguendo le loro tracce sul terreno. Arrivato ad una sorgente, vide nove cervi che si abbeveravano all'acqua della fonte. Mentre stava per imbracciare l'arma e pregustava una caccia grossa, il padre si sentì interpellare dall'animale più grosso, nella cui voce riconobbe il figlio maggiore: "Non prenderci di mira perché avresti la peggio: con le nostre corna ti solleveremmo per aria e ti sbatteremmo contro la roccia fino ad ammazzarti. E non pregarci di tornare a casa: ormai non abbiamo più nulla in comune con te, non c'è porta che lasci passare le nostre corna, preferiamo pascolare nei verdi prati, abbeverarci alle sorgenti nei boschi. Nell'unità con la natura, la nostra esistenza diventa sinonimo ed apoteosi della libertà». Aggiunge Palko: «Evidentemente il regime nazionalistico dell'ammiraglio Horthy cominciava ad apparire agli occhi di Bartók nulla più che una prigione da cui voler evadere».

La prima esecuzione della Cantata profana fu alla BBC di Londra il 25 maggio 1934 con Trefor Jones e Frank Phillips come solisti di canto e la direzione di Aylmer Buesst. La prima esecuzione pubblica si svolse egualmente a Londra con l'Orchestra Sinfonica della BBC diretta da Adrian Boult. La première in Ungheria ebbe luogo il 9 novembre 1936 con l'Orchestra Filarmonica di Budapest diretta da Ernö Dohnányi, con il tenore Endre Rösler e il baritono Imre Pallo solisti di canto.

Al di fuori del soggetto, nella Cantata profana non vi sono specifici e continuativi influssi del lessico folclorico rumeno che Bartók aveva cominciato a studiare nel 1915, curando gli arrangiamenti di due album di "colinde". Secondo Ernö Lendvai, le arcate melismatiche degli interventi del tenore ricordano la "hora lunga" della tradizione popolare rumena. Vi è poi, nel linguaggio di quest'opera «un netto influsso modale, di elementi dei modi lidio e misolidio con i caratteristici intervalli di quarta aumentata e settima minore». Assai più rilevanti risultano però le influenze della musica antica che Bartók in quegli anni aveva studiato attentamente, dai mottetti rinascimentali alle cantate e messe bachiane, almeno per quanto attiene alla tecnica polifonica. Sotto tale punto di vista la maestria della sagacia compositiva bartokiana attinge nella Cantata profana l'esito costruttivo più elevato, nell'impiego di due cori misti .in un dovizioso e serrato edificio contrappuntistico a otto voci mentre l'orchestra, oltre a svolgere un ruolo prevalentemente di sostegno al canto dei solisti e del coro, raramente interviene in primo piano ad organico completo. Al di fuori di alcuni passaggi d'inequivoco risalto coloristico, l'esito globale assume un aspetto nettamente spoglio ed austero, segnato da una marcatissima scansione ritmica.

La Cantata profana si articola in tre parti che si succedono senza soluzione di continuità. Di gran lunga il più ampio e complesso, il primo movimento (Molto moderato) inizia con un episodio imitativo degli archi su un materiale motivico che, con l'ingresso in scena dei legni, s'arricchisce di insistiti cromatismi. Dal punto di vista fonico quest'opera non esibisce una spiccata unitarietà, oscillando tra un diatonismo reciso e una sorta di «rotazione cromatica» (Zielinski) nell'impiego dei semitoni. Anche nella tavolozza armonica si coglie un'ampia gamma di effetti di vario genere. Il primo intervento del coro (Lento) a canone delinea una specie di ampio cluster diatonico che progressivamente si espande nel proporre una semplice linea melodica in tessuta di stilemi magiari. La sezione successiva (Allegro molto), con la descrizione della caccia, accentua nella partecipazione dell'orchestra l'incidenza del ritmo, e imprime un energico avvio ad una fuga a quattro voci del coro, su un tema che è ambiguamente diatonico, per la comparsa di modi eolici, lidici e misolidici. Al vertice espressivo la scrittura corale assume un incedere martellante e percussivo, segnato da una scansione ritmica quasi anomala tra accordi diatonici e dissonanti, con l'orchestra che ne riprende, alterandolo un po', il materiale motivico. La terza sezione (Moderato), che illustra la trasmutazione dei giovani in cervi, ha un carattere intriso di accenti fantasmagorici e misteriosi. Brevi interventi dei fiati, il tremolo degli archi e i tempestosi glissandi delle arpe contribuiscono a render suggestivo sul piano coloristico questo episodio.

L'atmosfera timbrico-melodica non muta con l'avvio del secondo movimento (Andante), ove, dopo l'introduzione cromatica degli archi con sordina, il coro intona un canone che è costruito sull'inciso tematico della precedente fuga. All'episodio del drammatico incontro del padre con i nove cervi fatati, in tempo Molto vivo, i due cori ripetono in modo iterativo una breve frase che viene sottolineata dai bruschi accenti dell'orchestra. Al dialogo tra il padre e il maggiore dei figli prendono parte i solisti di canto, esibendosi anche in un duetto. Assai interessante è la parte, ricca di cromatismi, del tenore che enuncia una frase molto ricca di abbellimenti e melismi.

Il terzo movimento (Moderato) è il tempo di gran lunga più breve dell'opera e ripresenta quel carattere epico che aveva contraddistinto l'avvio della Cantata profana, riallacciandosi all'argomento originario della ballata e al diatonismo del materiale motivico. L'atmosfera generale della musica sembra schiarirsi e rasserenarsi: alla conclusione dell'episodio principale si ascolta di nuovo la voce; del tenore, che, in una tonalità screziata da modalismi lidici, intona, tra lunghe arcate melismatiche, le ultime parole del testo reiteratamente ripetute dal coro: «bevono solo alla sorgente, a quella chiara fonte». E l'intero lavoro si conclude con un triplice accordo in re maggiore (perdendosi) in dissolvenza.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Destinata ad aprire un ciclo, non realizzato, di tre o forse quattro cantate ispirate a tradizioni popolari dell'area etnica danubiana, la Cantata profana, compiuta l'8 settembre 1930, fu eseguita per la prima volta a Londra il 25 maggio 1934 dai complessi della BBC, diretti da Aylmer Buesst.

La rivisitazione di taluni processi costruttivi elaborati dal pensiero musicale barocco costituisce uno dei caratteri di maggior rilievo (sebbene non sempre di piena evidenza all'ascolto) del neoclassicismo bartókiano degli anni Trenta, del tutto estraneo comunque a voghe o manierismi, che mai peraltro riuscirono ad intaccare la produzione del compositore ungherese. In realtà, le coinvolgenti profilature, il tono alto, i tratti efficacemente chiaroscurali dell'espressività barocca vengono da Bartók rimodellati al servizio di una pagina che, dalla scelta del titolo prima ancora che del testo, si rivela carica di implicazioni simboliche: quasi una visionaria liturgia, destinata a adombrare un itinerario di personali meditazioni sul destino dell'uomo, preso nel conflitto fra libertà della natura e costrizione del vivere civile.

«Nella Cantata profana - scriveva Bartók nel 1931 - di rumeno c'è solo il testo; il materiale tematico è di mia propria invenzione, e non è neppure rimodellato su musiche popolari rumene, anzi, talune parti non sono nemmeno in tono popolare». Il testo, che riunisce due versioni di una colinda (canto popolare connesso alle cerimonie pagane per la celebrazione del solstizio d'inverno), racconta dei nove figli di un cacciatore, educati dal padre alla sola caccia e trasformati per un misterioso incantesimo, durante una battuta, in altrettanti cervi. Ritrovati dal padre, che dopo aver tentato di farne preda, li riconosce e li supplica di tornare a casa, i nove cervi respingono l'invito, consci ormai della loro nuova condizione, che li esclude definitivamente dal consorzio umano. Sotto il profilo tematico, struttura portante della Cantata è la cosiddetta "scala acustica", determinata dalla successioni naturale dei suoni armonici, secondo il modulo intervallare: T,T,T,S,T,S,T, ove T vale tono e S semitono.

Il lavoro è diviso in tre parti, di lunghezza diseguale. Nella prima, la più estesa, si possono individuare tre sezioni: un'evocativa introduzione Molto moderato; un violento Allegro molto, per la tumultuosa scena di caccia; un arcano Moderato, per il sortilegio che trasforma i giovani in cervi. Di concezione unitaria è la seconda parte, sebbene apparentemente frantumata da ben diciotto successive prescrizioni metronomiche. Ne è oggetto il drammatico dialogo tra il figlio maggiore (tenore) e il padre (baritono), spezzato da interventi corali di taglio bachiano. Nel compatto finale, prima Moderato, poi Molto tranquillo, il doppio coro riepiloga il senso dell'intera vicenda, mentre un estremo intervento del tenore sembra sancire una nuova condizione di libertà, conseguita mediante la rinuncia ad ogni compromesso sociale.

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

«La musica contadina altro non è che il prodotto di un'opera di elaborazione compiuta da un istinto che agisce inconsapevolmente negli individui, non influenzati dalla cultura cittadina» (Bartók). Natura-cultura. Il binomio che molte scuole nazionali (Russia, Spagna, Cecoslovacchia, Inghilterra, Italia) verso la fine dell''800 e i primi del '900 avevano livellato nella comune identità antropologica, torna con Bartók a essere irriducibile. Il problema infatti del recupero del «melos» autoctono, non si pone per il musicista ungherese nei termini di un esclusivismo nazionalistico — tant'è vero che con lo stesso entusiasmo compi le sue ricerche nel campo della musica del proprio paese, come in Turchia, Slovacchia, Romania, suscitando in quest'ultimo caso un vespaio di polemiche patriottarde — bensì in quello più scientifico e oggettivo della differenziazione fra popolare e colto, fra semplicità arcaica e stratificazioni folcloristiche. A quale dei due generi si indirizzassero poi le proprie istintive simpatie, è il compositore stesso a confessarlo, mettendo a nudo un lato del carattere che, al di là della eterogeneità del suo linguaggio compositivo, si darà sempre per riconoscibile: ovvero il rifiuto di ogni compiacimento edonistico, la ruvida e asciutta schiettezza umana, la coerenza nelle scelte (etiche e poetiche): «alla musica popolaresca manca insomma la vergine freschezza della primitività, manca quella che oggi si suole chiamare «oggettività» e che io preferirei semplicemente dire 'assenza di sentimentalismo'».

Armato di fonografo — strumento senza il quale era impensabile qualsiasi fedeltà di trascrizione — da solo o in compagnia dell'amico Kodaly era solito addentrarsi fra le montagne della Transilvania e le pianure dell'Ungheria per scoprire, incontaminata, la voce della tradizione. Ma se nella scientificità di una ricerca etnomusicologica il percorso evolutivo della storia può essere mentalmente arrestato, la logica del reale non consente vagheggiamenti regressivi, utopiche isole di piacere. Di qui quella continua lotta, condotta fino agli ultimi anni della sua vita contro le istituzioni, il potere, la brutalità, in un istintivo e doloroso rifiuto della sopraffazione. Significativa rimane a questo proposito la lettera indirizzata al consigliere ministeriale di Horthy che aveva avuto l'ordine di procedere, con una pretestuosa inchiesta giudiziaria, contro Kodaly: «Poiché anch'io ho partecipato al lavoro di quella istituzione [durante la Repubblica dei Consigli comunisti Bartók faceva parte con Kodaly e Dohnànyi del direttorio musicale], devo protestare contro il concetto secondo il quale Kodaly sia l'unico responsabile, sia per la pura partecipazione, sia per qualsiasi attività contestata». In questa stessa luce di intransigenza rientra la decisione di abbandonare l'Ungheria, ormai nell'orbita nazista, e il testamento scritto poco prima della partenza (4 ottobre 1940): «Fino a che le piazze di Budapest sono intitolate al nome delle persone alle quali lo sono attualmente [cioè Hitler e Mussolini] ... nessuna piazza o strada o edificio pubblico porti il mio nome».

Il significato di protesta sociale suonò inequivocabile anche in questa «Cantata profana» finita di comporre nel 1930 ed eseguita per la prima volta a Budapest il 9 novembre 1936. Lo colse in particolare il critico musicale Aladàr Tóth che vi lesse l'indignazione civile contro il regime di Horthy, salito al potere dopo la sconfitta della rivoluzione (alla quale Bartók, fra l'altro, aveva aderito): «Questa musica titanica è la 'canzone dei lupi' nell'epoca della servilità. ... con il suo umanesimo cocentemente doloroso annuncia un messaggio: la solitudine della libertà perenne».

Il testo raccolto dal musicista stesso appartiene a una «colinda» [canto di natale risalente ad antiche cerimonie pagane] rumena, nella quale si esalta l'amore per la natura e la libertà, in opposizione ai falsi miti della società (in questo caso simboleggiata dalla famiglia) e della violenza (la caccia).

La musica di pura invenzione dell'autore presuppone una profonda assimilazione del patrimonio folclorico: «non basta — dichiara Bartók negli «Scritti sulla musica popolare» — immettere nella musica colta dei tempi o l'imitazione dei temi contadini, perché in tal modo si finirebbe col fare un banale travestimento del materiale popolare, ma bisogna trasferire in essa l'atmosfera della musica creata dai contadini».

Esattamente l'opposto dunque di quanto avviene per esempio nella musica neoclassica che decontestualizza le citazioni — anche popolari — con effetto parodico o neutrale, opponendosi ad atmosfere unitarie.

Della solidità del discorso formale si fa garante la struttura stessa dell'opera concepita con tutti gli ingredienti di una cantata classica (coro, recitativo, arie) e in questo caso specifico, con anelli di congiunzione ripetitivi destinati ad apparire nei tre movimenti: un'antica scala modale (integralmente esposta all'inizio in forma di canone e poi condensata in brevi incisi dal coro, dai solisti e dall'orchestra), e un canto popolare ungherese che agirà con grande libertà ritmica e metrica.

Ciò che colpisce innanzitutto l'ascoltatore è la ricchezza, violenta e asciutta, dei timbri e delle concezioni armoniche: vale a questo punto la pena di ricordare che Bartók procede qui come del resto in molti altri lavori, incurante affatto del problema dell'accompagnamento o dell'armonizzazione di un canto dato. Questa strada gli è preclusa — né sembra d'altronde granché interessarlo — dalla scelta stessa del materiale melodico (scale pentatoniche, gregoriane) prospettato e combinato secondo punti di vista tonali diversi ed eterogenei. Risultato: quella nuova libertà armonica che passa sotto il nome di politonalità e che vede cosi Bartók incidentalmente e involontariamente accomunato con altri esponenti dell'avanguardia novecentesca (Stravinsky, Milhaud, Hindemith, Casella ecc.).

All'interno di un sottile gioco di rispondenze strutturali e timbriche, il «tempo» di quest'opera, inteso come categoria variabile, continuamente cangiante, acquista un valore simbolicamente allusivo. Le varianti di un mito trasmesso oralmente si offrono nella inquieta mutevolezza del ritmo, nell'intreccio polifonico del coro, cui spetta per lo più un testo leggermente differenziato, nel libero declamato dei due solisti, nelle arie dal carattere quasi-improvvisativo: l'incantesimo dei nove fratelli trasformati in cervi segue una curva dinamica, espressiva ed emotiva, che non conosce staticità, vivendo e partecipando Bartók in prima persona, senza censure, alla storia del suo popolo. Basterebbe del resto istituire un parallelo con un altro lavoro sinfonico-corale coevo, la «Sinfonia di Salmi» (1930) di Stravinsky, per coglierne le differenze.

Questa cantata, della durata di 17' circa, nelle intenzioni dell'autore avrebbe dovuto far parte di un trittico, come risulta da una lettera all'amico compositore Sandor Albrecht del novembre-dicembre 1932 (progetto poi non realizzato), nella quale si trova annotato: «Molto difficile per il coro e i solisti, non per l'orchestra». Tanto difficile che il primo interprete, il tenore ungherese Endre Ròsler, convinse il musicista ad apportare alcune modifiche alla sua parte.

L'orchestra concepita naturalisticamente — né deve destare meraviglia — come cornice ambientale alla vicenda (si confronti il preludio gravido di tensione nel primo movimento e, di contro, la schiarita, ricca di palpitante religiosità negli ultimi accordi del finale, comprende 3 flauti, 3 oboi, 3 clarinetti, 3 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, tuba bassa, timpani, batteria (tamburo piccolo, grancassa, piatti, tamtam), arpa e quintetto d'archi.

Formalmente divisa in tre movimenti (ma le cesure sono quasi inavvertibili), questa cantata costituisce uno degli esempi più perfetti e ineguagliati di economia e di equilibrio narrativo.

Nella prima sezione che ha per protagonista il doppio coro (trattato polifonicamente e alternante recitativi a lunghi incisi melodici) l'iter del racconto si concentra su alcuni episodi perfettamente caratterizzati — tematicamente e timbricamente — fra i quali si potrebbe citare, in senso esemplificativo, oltre all'introduzione strumentale, l'«Allegro molto» tellurico e vitale, costruito sopra un disegno ostinato degli archi e punteggiato dalle squillanti entrate degli ottoni. Il secondo movimento trova invece nella dialettica dell'elemento vocale il suo princìpio unificatore: in particolare il drammatico dialogo fra padre e figlio (ora melismaticamente fiorito, ora asciutto e scarno) che anziché lasciarsi assorbire dal coro, riceve da questi un impatto timbrico ancora più violento. Catartico e risolutivo infine il terzo movimento: una sorta di riepilogo che anche nei riguardi del testo sintetizza la ballata, disperdendo le tracce più scopertamente materiche e dissonanti, in un clima di assorta serenità.

Fiamma Nicolodi

Testo

C'era un vecchio babbo
che aveva nove figli
belli come il sole
da lui stesso generati,
a nessun mestiere educati:
al raccolto, al seminare,
i cavalli a guidare;
ma per monti e valli
a cacciare il cervo,
eh, oh! nell'oscuro bosco
la preda a stanare, eh, oh!
i nove fratelli nel bosco
vanno a cacciare
i nove bei ragazzi partono
nell'oscuro bosco vanno
la preda a stanare.
Cacciaron tanto a lungo
nel bosco insieme,
sino a sera tutti insieme
e giunsero ad un ponte
i cacciatori insieme
e là videro insieme
l'orme d'un cervo magico
e per seguire l'orme
smarrirono la strada
e nell'oscuro bosco i fratelli
furono trasformati in cervi.
Diventati cervi i fratelli
vagan per il tetro bosco.
Ma non sopportò l'attesa il padre,
imbracciò lo schioppo
e andò alla ricerca dei suoi nove figli:
e trovò nel bosco il ponte,
là sul ponte trovò l'orme,
seguì l'orme di quel magico cervo;
giunse ad una fresca fonte
ove i nove cervi stavan tutti insieme.
Imbracciò lo schioppo,
si piegò su un ginocchio
e sul più bello della mandria la mira prese.
Ah! Ma dei cervi il più grande,
il figlio prediletto,
in tal modo gli rispose:
"Caro babbo nostro, ah!
non mirar sui figli
che t'infilzeremo con le corna aguzze
e di prato in prato palleggiarti dovremo,
e di monte in monte,
di bosco in bosco,
di rupe in rupe,
sovra taglienti, aguzze rocce
che faran di te strazio,
un cencio ti ridurranno,
sanguinoso cencio,
caro babbo nostro!".
Ascoltò tremando il padre lor parole,
aprì le braccia ed implorò i suoi figlioli:
"Figli del mio cuore,
figli del mio sangue,
con me venite,
ritornate dalla vostra cara mamma!".
"Noi con te venir, .
seguirti a casa!".
"Dalla vostra mamma con me venite,
che si strugge in pianto nell'attesa;
le lampade ardon, è pronta la mensa
i calici son colmi di vino d'oro!".
Ma il maggior dei nove, il figliolo diletto
tentennando il capo gli rispose questo:
"Caro amato babbo, caro babbo nostro,
torna dalla madre nostra
torna presto dalla nostra cara mamma,
noi non torniam, noi non possiam tornar, no, no!
Dalla porta più non passan
le ornate nostre teste
e il nostro corpo snello
ha bisogno del fogliame verde".
"Or dite, perché non ritornate?".
"Non la cenere del focolar,
il muschio occorre al nostro pie'
ed al calice non più, beviamo
ma a quella fonte sol".
C'era un vecchio babbo,
che aveva nove bei figliuoli,
svelti e belli, nove figli
belli come il sol.
A nessun mestiere educati eran,
ma solo a cacciare;
cacciarono tanto
finché diventarono cervi
nel gran bosco tutti insiem.
Le loro teste per la porta
non possono passare,
ma solo nelle valli;
il loro corpo ha bisogno del fogliame sol,
e non la cenere ma il muschio molle
sol occorre al loro piede;
e non bevono più nel calice
ma solo alla sorgente
a quella chiara fonte.

(Versione a cura di Domenico de' Paoli e Bonaventura Somma)


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 2 Giugno 1996
(2) Testo tratto dal Repertorio di musica sinfonica a cura di Piero Santi, Giunti Gruppo Editoriale, Firenze, 2001
(3) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 3 marzo 1978


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Ultimo aggiornamento 23 gennaio 2019