Il principe Nikolaus Esterhàzy, celebre mecenate di Franz Joseph Haydn e committente delle sue ultime composizioni sacre, era solito far eseguire, ogni anno nella cappella del castello di Eisenstadt, una messa quale dono per l'onomastico della consorte. Per l'occasione celebrativa del 1807 Esterhàzy commissionò la composizione a Beethoven, che tra la primavera e l'estate completò la Messa in do maggiore op. 86. Eseguita per la prima volta il 13 settembre 1807 sotto la direzione dello stesso Beethoven, l'opera non ebbe il gradimento del Principe e degli altri invitati, i quali la ritennero troppo innovativa e poco conforme allo stile dell'epoca, lontana dalle loro aspettative.
Rispetto alle precedenti creazioni nello stesso genere lasciateci da Haydn e da Hummel, la prima Messa di Beethoven presenta in effetti caratteri di marcata novità linguistica. Sebbene le dimensioni temporali la rendano liturgicamente eseguibile (contrariamente alla più nota Missa Solemnis op. 123 che, considerata la sua complessità e la sua durata, pur essendo musica sacra è di fatto difficilmente proponibile nella sua veste liturgica), la Messa presenta fin dall'inizio un carattere espressivo insolito.
La dolcezza dell'incipit del Kyrie possiede un calore così umano, un tratto così comprensivo che la sua morbida arcata ascendente e discendente ci avvolge subito in un abbraccio sonoro. Non c'è dunque il piglio solenne e fastoso che di solito le Messe precedenti adottavano come atmosfera d'esordio. L'entrata dei solisti accentua il clima implorante creando un fruttuoso contrasto tra la massa corale, simbolo dell'umanità tutta e i soli, immagine del singolo. Si nota sin da subito che l'orchestra non crea uno sfondo alle voci ma è un vero e proprio protagonista: tra l'umanità e il singolo la musica sembra qui porsi come interlocutore con il divino: ne deriva un rapporto tra voci e orchestra totalmente nuovo. L'intervento degli strumenti crea infatti un piano altro che eleva al quadrato la resa dell'insieme, ma non è mai preponderante: l'orchestra mantiene costantemente quel carattere intimistico, talvolta implorante; che è il tono fondamentale di tutta la composizione.
La festosità arriva col Gloria: il trionfo iniziale è subito venato da sfumature di dubbio, fugato da accenni di un andamento imitativo ma confermato poi da un chiaroscuro generale di potente impatto espressivo. Il Gratias agimus tibi entra con fare rilassato, intonato dal tenore cui segue il coro su affascinanti increspature dell'orchestra. Già da queste poche parole si comprende come Beethoven avesse inteso creare un'opera unica nel suo genere, mobilissima e nuova, ricca di variegati atteggiamenti espressivi e rifuggente il già detto. Questo è sicuramente uno dei motivi della difficoltà con cui l'uditorio dell'epoca seguì la composizione.
Nuova è anche l'orchestrazione del Qui tollis peccata, momento per il quale Beethoven inventa un andamento ansimante, simbolo della preoccupazione, di toccante fattura. Altra novità dell'opera è nel trattamento delle voci, la cui matrice non è reperibile nello stile lirico e teatrale, ma in quello cameristico, o meglio liederistico. La scrittura polifonica adottata da Beethoven è infatti un affascinante ibrido tra stile del Lied da camera e polifonia classica. Questa la ragione di un intimismo così diffuso, di una immediatezza espressiva così funzionale. Ed ecco la ragione per cui funzionano momenti vicini e pur così differenti come il vivace Quoniam tu solus sanctus che sfocia nel coinvolgente fugato del Cum sancto spiritu. Per aggiungere mobilità all'insieme Beethoven fa uso di un altro elemento straniante per l'epoca: una serie di sorprese armoniche di notevole efficacia.
Luogo privilegiato di questa sperimentazione è il Credo nel quale (come nel Gloria) Beethoven continua a privilegiare per le voci la scrittura polifonica, affiancandola però a strutture indubbiamente sinfoniche (non si dimentichi che la Messa in do maggiore è quasi contemporanea alla Sinfonia n. 6 "Pastorale"), dando modo all'orchestrazione di manifestare una maggiore libertà tematica e armonica. L'efficacia iniziale del Credo, verbo che ascende dal piano alla squillante conferma corale, è dovuta anche all'espediente sinfonico del "crescendo" che, legato qui a una parola chiave della fede cristiana, funziona come amplificatore di senso. Particolarmente nel Credo la Messa si dimostra sempre più una "Messa-Sinfonia", soprattutto lì dove Beethoven riesce a mantenere intatta per tutto il brano, grazie alla sua esperienza di orchestratore, quella struggente dolcezza che il Kyrie aveva posto a suggello della composizione. Non mancano poi "immagini sonore", un espediente creativo che appartiene da sempre alla creazione d'ambito sacro: i ribattuti degli archi durante il Crucifxus vogliono forse mimare l'entrata del chiodo nel momento in cui viene evocata dal testo la crocifissione. Anche qui i chiaroscuri armonici rimangono uno strumento di potente suggestione.
Particolarmente efficace il momento dell'Et resurrexit, dove ascendendo dal basso verso l'acuto (altra immagine sonora tipica) le figurazioni orchestrali mimano la Resurrezione e l'assunzione in cielo del Salvatore. Il percorso espressivo termina con un gioioso fugato che proietta nei secoli venturi (Et vitam venturi saeculi) la nuova vita dell'uomo nel regno divino.
Anche l'inizio del Sanctus è momento di grande suggestione: la calibrata e pacata intonazione, con atteggiamento contrario alle scelte tradizionali, ha il valore di una meditazione. L'orchestra vi traccia pensosi fili fino all'esplosione del Pieni sunt coeli et terra sfociante nel nuovo fugato sul testo dell'Hosanna in excelsis. I passi contrappuntistici hanno qui una funzione mimica ed evocano la presenza del divino sulla terra: le voci si muovono come strumenti di una volontà superiore, del suo perfetto meccanismo.
Con il Benedictus si torna alle sfumature liederistiche che caratterizzano la Messa. Stupenda l'esclamazione cromatica del coro che reitera «benedictus» con calibrata dolcezza mentre i solisti proseguono l'enunciazione del testo.
Con simili modalità la declamazione addolorata dell'Agnus Dei è caratterizzata da un'esclamazione "chiave": l'implorazione «miserere nobis» funziona come suo controsoggetto intellettuale. L'orchestra ha però nell'Agnus Dei voce primaria: le poche parole cui il testo si riduce lasciano alla musica l'incarico di dare gradazioni sempre nuove al sentimento religioso fino alla sorprendente chiusa, dove la Messa termina con toni pacati e sognanti, meditativi, così come era iniziata. Nonostante la grande ricchezza delle scelte messe in campo, Beethoven infonde natura unitaria alla composizione partendo da un "affetto" solo: lo interessa quella pienezza intima che la fede, rifuggendo ogni pompa celebrativa, può apportare alla silenziosa coscienza del singolo, nella commovente convinzione che gli uomini debbano unirsi in un fraterno abbraccio di fronte al loro destino. Si avverte già qui l'incarnazione musicale di quella filosofica "solidarietà tra gli uomini" che caratterizzerà il messaggio di più celebri composizioni future, non ultima la Missa Solemnis.
Simone Ciolfi
L'opera nacque fra la primavera e l'estate del 1807 su
richiesta del principe Nicola Esterhàzy (il committente
delle tarde messe di Haydn) che ogni anno faceva eseguire una messa
come regalo d'onomastico alla moglie nel suo castello di Eisenstadt:
qui la Messa op. 86
fu eseguita la prima volta il 13 settembre 1807 sotto la dilezione
dell'autore, senza incontrare molto favore da parte del committente per
la novità e il non conformismo di alcune soluzioni. In
effetti Beethoven, alle prese con lo storico modello della messa, tiene
un duplice atteggiamento: da una parte aderisce (specie
in Gloria e Credo) ai canoni
della scrittura polifonica, dall'altra si apre al sinfonismo
più generoso (la Messa
op. 86 è quasi contemporanea alla Sinfonia Pastorale),
accordando agli strumenti grande indipendenza tematica e
libertà di combinazioni; con lo stile alla Palestrina di
larghe sezioni dell'opera contrasta così il carattere
intimo, da canto spirituale liederistico del Kyrie e in
particolare del Benedictus
e dell'Agnus Dei.
Proprio questo clima di intima tenerezza rappresenta, peraltro, il
nucleo più interessante dell'opera, ripreso in qualche
misura dalle messe di Schubert. In forma pubblica alcune sezioni della
Messa (Gloria,
Sanctus
e Benedictus)
furono eseguite la prima volta al teatro An der Wien di Vienna il 22
dicembre 1808 nel corso di un grande concerto tutto di musiche
beethoveniane. La partitura venne pubblicata a Lipsia nell'ottobre 1812.