La prima delle tre musiche/fiabe proposte dal programma di questa sera affronta la dimensione del tempo; del resto, l'inizio di una fiaba non è spesso affidato a questa frasetta di tre parole: "C'era una volta..."? Una volta, quando? Non importa, quando. Le fiabe smarginano dal tempo, non hanno né l'orologio al polso, né il calendario con i mesi e l'anno appeso alla parete delle nostre cucine o dei nostri uffici. Antico quanto, il Menuet di Maurice Ravel? Le date dicono che la versione originale per pianoforte nasce nel 1895 e quella orchestrale molti anni dopo nel 1929. Al compositore francese erano care diverse traiettorie 'antiche': il tempo barocco (Le tombeau de Couperin, Pavane pour une infante defunte), gli arcaismi e la classicità greca (Daphnis et Chloé). La copertina dell'edizione originale a stampa propone un oceano di foglie e racemi, al centro spicca il torso nudo di un ragazzo che suona un aulos. Bellezza, seduzione, desiderio, in un'atmosfera art nouveau.
La partitura inizia "maestosamente" e festosamente, con una dimensione sonora da pomposa ouverture barocca, più tipica di una sarabanda che di un minuetto, con una scansione ritmica ben marcata, cui segue un momento pacato e raccolto - doux, dolce è qui la prescrizione dell'autore -, un delicato sortilegio timbrico che privilegia atmosfere scontornate, vicine ad un'armonia modale, appunto antica, prima che emerga la ripresa del carattere iniziale, con un accentuato aspetto marziale. Solenne e nostalgico, capace di ritagliarsi un proprio ambito del tutto peculiare nella produzione di quegli anni, questo breve schizzo sinfonico sarà gravido di conseguenze: non si parla ancora di neo-classicismo, ma Ravel guarda alle proprie spalle e - ha appena 20 anni quando scrive la versione per pianoforte - non esita a ripercorrere sentieri già battuti, lui che sarà tra i primi musicisti europei a capire ed assimilare l'importanza nuovissima del jazz statunitense.
La bellezza del Menuet antique è la sua ambiguità sfuggente, il giocare a capovolgere la clessidra del tempo, a confondere simultaneamente epoche diverse, ponendo una domanda che non cessa di interrogare artisti e pubblico: è contemporaneo soltanto ciò che appare tale? O la consapevolezza di quanto ci ha già preceduto è un antidoto indispensabile contro lo smarrimento delle radici, la perdita dei riferimenti stilistici e formali, la cancellazione della memoria, la tabula rasa? Un gioco inquieto. Che per Igor Stravinskij diventerà una via di fuga, una rinascita.
Sandro Cappelletto