Dodici studi per pianoforte, op. 10


Musica: Fryderyk Chopin (1810 - 1849)
  1. do maggiore: Allegro
  2. la minore Allegro
  3. mi maggiore: lento ma non troppo
  4. do diesis minore: Presto
  5. sol bemolle maggiore: Vivace
  6. mi bemolle minore: Andante
  7. do maggiore: Vivace
  8. fa maggiore: Allegro
  9. fa minore: Allegro molto agitato
  10. la bemolle maggiore: Vivace assai
  11. mi bemolle maggiore: Allegretto
  12. do minore: Allegro con fuoco "La caduta di Varsavia"
Organico: pianoforte
Composizione: 1830 - 1832
Edizione: Schlesinger, Parigi, 1833
Dedica: Franz Liszt
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

E' rimasta proverbiale la recensione che agli Studi op. 10 venne dedicata dal critico tedesco Ludwig Rellstab: di fronte alle novità tecniche che Chopin dispensava a piene mani il Rellstab non trovò di meglio, dopo una critica negativa, di consigliare a chi avesse voluto eseguirle di tenersi vicino due celebri chirurghi berlinesi. Le critiche negative piacciono sempre ai posteri, che possono dire: «Ma quant'erano stupidi quegli antichi censori, che non vedevano il sole splendente su di loro». Le critiche positive interessano di meno perché sembrano sempre un pò ingenue rispetto a ciò che si è saputo vedere dopo. Ma spesso nel recensore contemporaneo troviamo una freschezza di impressioni che raramente viene mantenuta più tardi. E perciò, invece di commentare gli Studi op. 10 dall'alto dei centosessant'anni che da essi ci separano, ci sembra di non deludere le attese del lettore ripubblicando una critica uscita nella rivista Le pianiste del 1° novembre 1833, che è rimasta ignorata. La rivista, si noti, usciva quel giorno con il suo primo numero, che si apriva con un ritratto litografato di Clementi, a cui seguivano una cronologia dei pianisti da Bach e Händel a Liszt, notizie su Clementi e Kalkbrenner, l'analisi degli Studi di Chopin, notizie e recensioni varie, e la prima lezione di un "Corso analitico di teoria musicale". Già la collocazione dell'analisi degli Studi, che occupa il posto d'onore, ci stupisce: cinque colonne per Chopin, che aveva ventitré anni ed era semisconosciuto, mentre a Kalkbrenner, la terza o quarta celebrità al mondo e sicuramente la prima a Parigi, venivano riservate tre colonne. Ma ancor di più ci stupisce la calda cordialità del giudizio critico. La recensione non è firmata: probabilmente è dovuta al direttore della rivista, Charles-Martin Charles detto Chaulieu, nato a Parigi il 21 giugno 1788, allievo di Adam per il pianoforte e di Catel per la composizione nel Conservatorio di Parigi, vincitore nel 1805 del primo premio di armonia e nel 1806 del primo premio di pianoforte.

I

«- E che! Signora, già protestate per il titolo, Studi?

- Ma alla fin fine, Signore, bisognerà dunque studiare per tutta la vita! abbiamo già

gli Studi di Boëly;
gli Studi di Czerny;
gli Studi di Clementi;
gli Studi di Schmkt;
gli Studi di Steibelt;
gli Studi di Cramer;
i Capricci di Müller;
i Capricci di Hiller;
gli Studi di Kalkbrenner;
i Preludi di H. Herz;
gli Studi di Liszt;
gli Studi di Zimmermann;
gli Studi di Kessler;
gli Studi di M.me de Montgeroult;
gli Studi di Désomery;
gli Studi di Chaulieu;
gli Studi di Moscheles;
gli Studi di Bertini;
Gli Studi....

- Piano, signora, riposatevi. Ecco un bel pò di studi, è vero, ed io mi complimento con voi per la vostra memoria; ma quando si fa un'opera di studi come quella che vi presento non se ne fa mai di troppo.

E del resto, per il mio gusto, io vorrei che ogni compositore facesse un quaderno di studi, perché nulla, meglio di questo genere di composizione, mostra il carattere del talento d'un artista; là le sue abitudini si trovano al naturale, e quando le possedete bene avete il sigillo delle altre sue opere. Riparleremo di questo argomento.

Per ora ritorno agli Studi di Chopin, che ho l'onore di portarvi».

II

«Non faccio dell'adulazione dicendovi, signora, che voi suonate benissimo il pianoforte e che leggete correntemente la musica: è la pura verità.

Perciò vi parlo di un'opera degna di voi, tuttavia devo aggiungere che guardando con cura la scala delle proporzioni potete senza esitazioni collocare quest'opera al dodicesimo gradino; perché, quando avrete letto questi Studi, quando li avrete lavorati e commentati, se avrete la fortuna di ascoltarli eseguiti dall'autore vi potrà facilmente capitare di riconoscerli appena.

E state in guardia! Non giudicateli alla prima, e neppure alla seconda lettura; agite come fate con le odi di Lamartine che tanto vi piacciono: cercate il vero significato, scoprite il canto, sempre grazioso ma spesso avvolto in modo da esser trovato con difficoltà.

Questo giovane autore si colloca, al suo esordio, al livello dei grandi maestri - e voi sapete che ce ne sono pochi. Si è preteso che meritasse l'epiteto di enigmatico: non sono di questo parere. Lasciamo questo titolo all'autore delle Variazioni della rosa, e diciamo, per giustizia, che le composizioni di Fr. Chopin sono di un tipo a parte, ma sempre degne della fatica che si sosterrà per ben eseguirle.

Chi tacciava in altri tempi Beethoven di bizzarria non lo comprendeva più di quanto non comprendano oggi Chopin coloro che lo trattano da enigmatico».

III

«Vediamo ora in che cosa questi Studi tocchino un fine utilissimo e perché meritino, a parer mio, il titolo di speciali, titolo prezioso che io non accordo a tutte le opere decorate del nome di studi.

- Il primo facilita in modo prodigioso le estensioni della mano destra, e in una maniera del tutto nuova. Guardate, tentate. Ebbene, voi dite, vi fa male alle dita: ripetetelo dieci volte e non ci penserete più, e avrete acquisito le preziose estensioni.

- Guardate ora il nono, che è il corrispettivo per la mano sinistra; nello stesso tempo è uno studio di canto appassionato per la mano destra. Questo canto è pieno di fuoco e di gusto. Dite che non vi piace il re naturale al basso nella ottava battuta: mi rimetto al vostro delicato orecchio.

- Il secondo procura una grande indipendenza al terzo, quarto e quinto dito della mano destra, e l'armonia è deliziosa, se lo si suona rapido.

- Il terzo è uno dei più difficili. Il canto è soave, ma difficile da rendere. Vi raccomando una scala cromatica in settime diminuite, nella quale le due mani procedono per moto contrario. Questo passaggio è nuovo e di un buon genere; non posso dire altrettanto di quello della pagina seguente, righe 2, 3 e 4 [il passo conclusivo della parte centrale, indicato da Chopin con bravura]. Trovo che l'effetto non è piacevole, ma la conclusione in ritenuto, e soprattuto il canto che segue lo fanno interamente perdonare.

- Il quarto, leggero, vivo, brillante, è un esercizio eccellente per entrambe le mani. Diffidate del passaggio della terza riga, pag. 17, e di quello della terza riga, pag. 19.

- Il motivo del quinto è incantevole, e lo studio nell'insieme scioglie bene le dita. Proverete forse un forte impaccio alla terza battuta: il do bemolle della mano sinistra vi parrà duro, e avrete ragione, perché non può andar bene se non quando il re è pedale; ora, perché sia così bisogna togliere il la, quarta croma, che interrompe la durata del re fino alla battuta seguente, cosa che non mi sento di consigliarvi: consultate per questo l'autore. L'originalità dei passi di questo Studio è prodotta dall'impiego di tratti di quattro note ritmate di tre in tre.

Insomma, questo studio mi piacerebbe moltissimo se non fosse per quel tal do bemolle.

All'osservazione precedente a proposito del ritmo aggiungete quest'altra: l'autore sviluppa molto gli accordi di passaggio, e con questi fa dei passi prolungati che di solito si fanno solo con accordi principali: intendo dire gli accordi perfetti e quelli di settima dominante e diminuita.

- Sesto studio. Basso intermedio [tenore] di esecuzione sostenuta e difficile. Vi dirò, signora, ma a voi soltanto, che il canto non mi pare rispondente al lavoro che ha dovuto costare all'autore.

- Bisogna armarsi di pazienza, per lavorare il settimo studio; ma quale ricompensa quando si arriva a suonarlo svelto! è scintillante e di grande effetto.

- L'ottavo è come un torrente che sembra non doversi mai arrestare. Ha sei pagine di passaggi senza respiro, c'è da restare soffocati. Ma richiamo la vostra attenzione sulle due righe a metà della pagina 35. Al tempo giusto sono diaboliche. Coraggio, ci avviciniamo alla fine.

- Il decimo è tanto più difficile in quanto le due mani hanno sempre un diverso atteggiamento: la mano sinistra quasi sempre su estensioni al di là dell'ottava, il che è un buon esercizio, la mano destra contiene particolari di ritmo abilmente combinati. Io farei qui un appunto all'autore. La sua musica è spesso difficile da leggere più del dovuto perché egli usa poco l'enarmonia, cosa che lo obbliga ad impiegare un gran numero vuoi di doppi diesis, vuoi di doppi bemolli, che affaticano il lettore. Ve ne darò un solo esempio all'ultima battuta della pagina 44, che sarebbe facilissima se fosse scritta con i diesis. Ha ragione lui? Perché accumulare le difficoltà?

- L'undicesimo, d'un armonia che ti rapisce, è tutto sulle estensioni, rese più facili dall'arpeggiamento degli accordi. È un'opera da maestro.

- Il dodicesimo è un gran lavoro per la mano sinistra, e di conseguenza utilissimo; è tutto quel che ne posso dire, perché non è originale.

Malgrado la promessa che m'avete fatto fare, signora, di rendervi conto particolareggiatamente delle opere che appaiono per lo strumento che tanto amate, vi assicuro fin d'ora che non sarò sovente così lungo. Sorridete? Ma vi assicuro che le produzioni di questa forza sono rare, e che è onorevolissimo per il giovane Chopin di esordire, per così dire, con un'opera in cui brillano tutte le qualità dell'uomo fatto».

Chissà se la signora a cui il recensore si indirizzava esisteva davvero! Chissà se andò a chiedere a Chopin spiegazioni su quel do bemolle!

Piero Rattalino

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Quando Chopin giunse a Parigi, alla fine del settembre 1831, aveva probabilmente già quasi completato una serie di studi pianistici che sarebbero poi stati presto pubblicati (per Schlesinger, nel 1833) come Studi per pianoforte op. 10: aveva poco più di vent'anni, ma l'entità dell'opera testimoniava del valore ormai acclarato di un nuovo astro nascente, di un artista completo. L'intenzione - perfettamente realizzata - era quella di ottenere un'ideale fusione tra virtuosismo ed espressività poetica, tra tecnica e arte. Emblematicamente gli Studi vennero dedicati a Franz Liszt, amico di Chopin e autore a sua volta di altre importanti serie pianistiche. Un ulteriore termine di confronto veniva dal «divino Paganini», che al tempo andava infiammando le platee di mezza Europa con le sue funamboliche esibizioni violinistiche. L'idea era quella di trasferire, di travasare le scoperte tecniche di uno strumento duttile quanto il violino al pianoforte ricercandone le infinite possibilità, le intrinseche capacità tecniche e musicali. L'esito dell'uscita dell'op. 10 fu un successo, tanto che il cronista del giornale parigino «Le pianiste» scriveva entusiasta nel novembre del 1833 alla sua immaginaria lettrice: «Quando avrà letto questi Studi, quando li avrà lavorati, commentati, se avrà la fortuna di sentirli eseguiti dal suo autore le capiterà di riconoscerli appena. Cerchi il senso vero, scopra il canto, mirabile sempre, ma spesso celato all'evidenza. Questo giovane già all'esordio è al livello dei grandi maestri, e lei sa quanti pochi siano». La novità che si sprigionava da questa raccolta conquistò perciò subito i favori del pubblico e degli esperti. Lo stesso Liszt, onorato per la dedica attribuitagli, si ritirò per qualche tempo in modo da studiarli a fondo; quando ricomparve in pubblico dimostrò di padroneggiare così bene la raccolta da strappare a Chopin l'ammirata affermazione: «Vorrei proprio rubargli il modo di eseguire i miei Studi».

La struttura di questi brani brevi, concisi, ripercorre il classico schema tripartito: a un primo spunto tematico che propone un determinato problema tecnico-pianistico fa seguito una zona di elaborazione delle idee precedenti o anche un vero e proprio secondo motivo; il ritorno della prima idea conclude il brano, spesso esteso a una sezione di coda. La scelta dello Studio è originata dall'intento di risoluzione di una determinata finalità didattica: la figurazione difficile di cui il pianista deve impadronirsi viene ripetuta, sottoposta a eventuali varianti, trasportata in varie tonalità così da farla divenire cangiante all'ascolto e a un tempo permettere l'uso di tutta una serie di tattiche e accorgimenti tecnici della mano.

Nel primo Studio della serie, ambientato nella solare tonalità di do maggiore, si richiede un'adeguata capacità di arpeggio in posizione lata e notevole è l'affinità con il primo numero dei Capricci paganiniani, cui il brano si ispira. Non per nulla Chopin raccomandava agli allievi un'esecuzione quasi «a colpi d'arco» e una notevole plasticità nell'uso della mano, così ben espressa dal verbo francese èlargir, come richiedeva espressamente all'allieva M.me Müller.

Lo Studio n. 2 in la minore tocca un altro tòpos tecnico, quello della scala cromatica: l'aveva già affrontato, tra gli altri, Ignaz Moscheles nei suoi Studien für Pianoforte op. 70; ma quest'ultimo si era limitato a far eseguire la scala sulle dita più forti e sicure, le prime tre, mentre Chopin cerca la difficoltà scrivendo appositamente per le dita medio, anulare, mignolo della mano destra, costringendo l'esecutore a risolvere problemi di movimenti innaturali e di scavalcamenti continui. Va detto che, per evitare ogni fraintendimento, fu il compositore stesso a segnare di suo pugno nella bozza di stampa ben cinquecento indicazioni di diteggiatura!

Il terzo brano è un Lento ma non troppo in mi maggiore; non riguarda problemi particolari di velocità ma si dedica alla resa del cantabile attraverso un tema calmo e lirico, «la più bella melodia che Chopin avesse mai creato», come sosteneva l'allievo Adolf Gutmann. Questo tema dolce, dal sapore di Notturno si increspa appena nel suo prosieguo e solo nella parte centrale cambia volto, diviene agitato, è scosso nel profondo. Infine, come d'incanto, la velocità si attenua, il clima si ridistende, torna l'aura espressiva iniziale e il brano si spegne sereno come un pallido sole al tramonto.

Si comprende dunque come brusco sia il contrasto con lo Studio seguente, il n. 4 in do diesis minore: romantico, passionale, basato sulla sincronizzazione e sull'uguaglianza delle due mani, sul legato, sul lavoro del pollice sui tasti neri. Chopin lo sentiva direttamente collegato con lo Studio n. 3, tanto da scrivere al termine del precedente «Attacca il Presto con fuoco».

Anche lo Studio n. 5 in sol bemolle maggiore è molto veloce, ma di carattere diverso tanto che Liszt nella sua seconda edizione del libro dedicato a Chopin lo cita come «fantasia burlesca scoppiettante di brio» e ancora «improvvisazione piccante». Senso del gioco, ironia, leggerezza dunque lo dominano: nelle brillanti figurazioni pensate per i tasti neri del pianoforte, negli agili accordi della mano sinistra, nella ricerca di una scorrevolezza leggera e naturale.

Lo Studio n. 6 in mi bemolle minore abbandona il virtuosismo e passa ad aspetti squisitamente interpretativi: la necessità di sostenere con continuità una melodia lenta e rarefatta, l'ottenimento di un giusto equilibrio polifonico, un'adeguata restituzione del fraseggio. Lo domina un tema lirico, elegiaco che prosegue poi nella parte centrale sviluppato con accentuata espressività.

Il brano successivo, lo Studio n. 7 in do maggiore è fantasioso e toccatistico e riguarda il problema delle doppie note, eseguite per terze e seste parallele in elegante movimento ondeggiante alla mano destra mentre la sinistra contrappunta con brevi respiri melodici e appoggi armonici.

Nel n. 8 in fa maggiore si torna invece alla tecnica dell'arpeggio (già affrontata nello Studio n. 1) con lo scopo di rendere il polso elastico e le dita agili su continui movimenti laterali della mano; questa volta l'arpeggio è uno scintillante baluginìo sonoro e si presenta arricchito dall'inserzione di note di passaggio.

Dello stesso problema si occupa anche lo Studio n. 9 in fa minore, anche se le difficoltà passano ora alla mano sinistra: qui un tema triste e nostalgico è accompagnato dal fremente ribollire del basso; un motivo interrogante a note ribattute prende forma nella parte centrale e per un attimo interrompe l'ansia del tema principale che infine torna nella sezione di Ripresa ampliato da una dolcissima frase di coda.

Lo Studio n. 10 in la bemolle maggiore è un moto perpetuo di notevole difficoltà che richiede al pianista la difficile alternanza nella mano destra di nota singola suonata dal pollice con bicordo affidato alle dita indice-mignolo. L'effetto è di delicata leggiadria, ma l'esecuzione, estenuante, fece dire al grande pianista Hans von Bülow: «Chi riuscirà a suonare questo Studio in modo veramente perfetto, potrà felicitarsi per essere riuscito a raggiungere le più alte vette del Parnaso pianistico, perché esso è forse il più difficile della raccolta. Tutto il repertorio della musica pianistica, tranne Feux Follets di Liszt non contiene un esercizio di questo genere di perpetuum mobile così pieno di estro e di originalità».

Il penultimo della serie, lo Studio n. 11 in mi bemolle maggiore tratta ancora gli arpeggi, affidati contemporaneamente al gioco delle due mani in un'esecuzione di ardua asperità; proprio da essi, nella loro nota più alta, magicamente scaturisce una tenera melodia assai difficile da rendere se non si pratica un corretto fraseggio.

La raccolta si conclude con lo Studio n. 12 in do minore meglio noto come «La caduta di Varsavia», o anche, secondo gli appellativi coniati da Franz Liszt, «Studio della Rivoluzione» o «Il Rivoluzionario». Il biografo Karasowski narra che lo Studio nacque di getto, come segno di drammatica ribellione quando Chopin, trovatosi a Stoccarda, seppe della violenta presa della capitale polacca da parte delle truppe zariste (settembre 1831) e del conseguente fallimento dei moti nazionalistici in cui lui stesso aveva creduto e riposto speranze.

Sopra un turbinoso, incalzante movimento di semicrome ascendenti e discendenti della mano sinistra si staglia al canto un tema dolente ma perentorio, «eroico», fatto di enfatiche e lapidarie sentenze; l'ambientazione armonica cupa e tempestosa rimanda con l'immaginazione a eventi tragici, ma soprattutto la musica riflette uno stato d'animo, il moto interiore di un uomo avvilito, eppure non vinto. Circa vent'anni dopo, nel 1848, Chopin così scriveva a Julian Fontana a New York, dimostrando di non aver mai perso il proprio credo nazionale: «Il moscovita avrà del buon filo da torcere quando dovrà marciare contro il prussiano... Dovranno necessariamente verificarsi cose terribili, ma alla fine ci sarà una Polonia grande e gloriosa, in una parola "La Polonia"».

Marino Mora

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

I 12 Studi op. 10 di Federico Chopin insieme all'altro gruppo di 12 Studi che lo stesso compositore contrassegnò col numero d'opera 25, contano tra gli esempi più illustri di quella particolare categoria di lavori, i quali, pur partendo da intenti didattici, o prefiggendosi in linea collaterale degli scopi pedagogici, acquistano all'atto della loro realizzazione assoluti valori estetici.

Questo è il caso degli Esercizii per gravicembalo, come Domenico Scarlatti volle intitolare il solo gruppo di Sonate pubblicate durante la sua vita e la stessa cosa vale pure per i due volumi del Clavicembalo ben temperato e per tutte le opere che Bach fece stampare nelle quattro parti della sua Klavierübung. Ma lo Studio nella sua forma specifica è una creazione del romantico virtuosismo ottocentesco il cui cammino, preparato da Clementi, Cramer, Hummel ed altri, raggiunse le sue vette più alte in Chopin e quelle più appariscenti in Liszt. Questi compositori forgiarono un vero e proprio «stile dello Studio», un Etüdenstil, come lo chiamano i tedeschi, caratterizzato da una particolare configurazione delle idee musicali le quali vengono svolte non per mettere a frutto una loro fecondità contrappuntistica, né per realizzare una potenziale ricchezza di sviluppi tematici, ma per metterne in luce l'interesse tecnico o per centrare comunque un particolare problema, una determinata difficoltà interpretativa che viene isolata, cristallizzata in una formula, in un modulo meccanico, che rispetto al motivo puramente musicale acquista quasi il valore di un motto strutturale. Ma come si è detto, all'atto della sua realizzazione un simile assunto può venir trasceso, e l'opera musicale che ne nasce può sostanziarsi di assoluti valori musicali. Allora ogni elemento tecnico, da fine si trasforma in mero mezzo che l'esecutore deve padroneggiare al punto da renderlo inavvertibile per chi ascolta o da farlo dimenticare.

Chopin ha scritto in tutto ventisette Studi: infatti, oltre ai due gruppi citati prima, egli scrisse altri tre Studi destinati per il «Metodo dei Metodi» di Moscheles. Gli Studi op. 10 furono scritti da Chopin tra il suo diciannovesimo e il suo ventesimo anno. La loro pubblicazioni avvenne nel 1833, con la dedica, assai significativa, a Franz Liszt. L'assunto tecnico del primo Studio, formulato nella tonalità di do maggiore, risulta da quanto lo stesso Chopin ebbe a dire alla sua allieva, la Signora Streicher: «questo Studio vi farà del bene. Se lo studiate come io l'intendo, vi allargherà la mano e vi darà una gamma di accordi, come dei colpi d'arco. Ma spesso, ahimé, invece d'insegnare tutto ciò, lo fa disimparare». A queste frasi di Chopin bisogna aggiungere che, spesso, la difficoltà di eseguire quei mobilissimi arpeggi di accordi che si spostano continuamente dai registri più bassi a quelli più acuti, non solo irrigidisce, invece di sciogliere i muscoli di chi non riesce a padroneggiarla, ma anche a chi riesce a venirne a capo, impedisce di dare a questi aerei arabeschi, quel senso «spirituale» che postulava Baudelaire. Il pretesto tecnico del secondo Studio (in la minore) è la suddivisione dei compiti tra le singole dita di una mano: mentre il primo e il secondo dito eseguono marcati bicordi, agli altri è affidato il compito di realizzare passaggi cromatici di scroscianti semicrome. Nel terzo Studio (in mi maggiore), l'interesse tecnico passa davvero in secondo piano (salvo che nell'animata parte centrale, dove le due mani devono eseguire «con bravura» dei passaggi di seste, la cui disposizione cromatica anticipa lo Incantesimo del Fuoco della Walkiria di Wagner): nella prima e nella simmetrica terza parte di questo meraviglioso Lied tripartito, l'assunto tecnico è quello che informa ogni «monodia accompagnata» dove ad una melodia si deve conferire il dovuto rilievo rispetto ad un accompagnamento da calibrare soprattutto nei suoi valori timbrici. Chopin stesso diceva di questa melodia di non averne mai scritta una più bella. Si dice che, in un accesso di trasporto, mentre il suo allievo Guttmann l'eseguiva, egli avesse esclamato: «O. ma patrie!». Può darsi benissimo che la nostalgia della patria perduta per sempre avesse costituito la premessa emotiva che fece scattare la fantasia creatrice del compositore: in ogni caso il risultato musicale di questa e di ogni altra premessa formulabile in termini verbali le trascende tutte, con la sua purezza e la sua intensità lirica: aggiungere delle parole (come purtroppo si è voluto fare) a questo «canto senza parole» non può aggiungere, ma solo togliere qualcosa all'indicibile significato emotivo di questo brano, costituendo certamente una delle «tristezze» del nostro tempo dilaniato tra banalità ed esoterismo. Il quarto Studio (in do diesis minore) riprende l'agitata atmosfera del secondo: a tempestose figurazioni di semicrome svolte da una mano si oppone la febbrile pulsazione di accordi scanditi dall'altra. Nel quinto Studio (in sol bemolle maggiore) le dita della mano destra percorrono solo i tasti neri in un turbine di irridiscenti, brillantissime terzine. Il sesto Studio (in mi bemolle minore) fa invece rima col terzo: si tratta di un brano lento e cantabile, nella cui intonazione malinconica la dolcezza delle otto battute centrali in mi maggiore costituisce qualcosa come una parentesi evocativa.

L'idea tecnica che sta alla base del settimo Studio è l'alternanza, nella mano destra di intervalli di terze e di seste. Le sue qualità espressive si possono definire con aggettivi come «graziose», «petulanti», «leggiadre». L'ottavo Studio (in fa maggiore) è nuovamente un tipico studio di bravura dove la destra viene portata a trasvolare in un movimento, cui la bravura del pianista dovrebbe valere a togliere ogni peso, tutti i registri della tastiera. Nel nono Studio prevalgono i motivi espressivi: la sinistra rifrange costantemente larghi accordi minori, mentre la destra esegue ansanti, spezzati disegni melodici, che alla fine, assumono l'andamento di concitati recitativi. Del decimo Studio (in la bemolle maggiore) Hans Von Bülow diceva: «colui che lo suona perfettamente, può felicitarsi d'aver raggiunto una cima del Parnasso dei pianisti: tutta la musica pianistica non comprende uno Studio di movimento perpetuo così piena di genio e di fantasia, con l'eccezione, forse, dei Fuochi Fatui di Liszt».

L'undicesimo Studio (in mi bemolle maggiore) è sopranominato in tedesco «Harfenetüde» : esso consiste infatti esclusivamente in larghi accordi arpeggiati. Con la poetica dolcezza di questo Studio contrasta la drammatica violenza dell'ultimo, che porta i soprannomi popolari di «La Révolutìonnaire» o, in Italia, di «La presa di Varsavia». Si dice infatti che Chopin l'abbia scritta a Stoccarda apprendendo la presa di Varsavia da parte dei Russi. Qualunque sìa il movente della sua invenzione, si tratta di un'opera di epica grandiosità, di un'opera che basterebbe a smentire da sola la edulcorata immagine di uno Chopin femminilmente sdilinquito e salotiero e per affermarne per converso tutta l'ardente forza d'animo.

Roman Vlad


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia;
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 24 gennaio 1992
(2) Testo tratto dal libretto inserito nel CD allegato al n. 107 della rivista Amadeus
(3) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana;
Roma, Teatro Eliseo, 4 marzo 1957


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Ultimo aggiornamento 7 novembre 2019