Il ritorno di Ulisse in patria, SV 325
Tragedia di lieto fine in un prologo e tre atti
Musica: Claudio Monteverdi (1567 - 1643)
Testo: Giacomo Badoaro da Omero
Ruoli:
- L'Humana Fragilità (contralto)
- Il Tempo (basso)
- La Fortuna (soprano)
- Amore (soprano)
- Giove (tenore)
- Nettuno (basso)
- Minerva (soprano)
- Giunone (soprano)
- Ulisse (tenore)
- Penelope (soprano)
- Telemaco (tenore)
- Antinoo (basso)
- Pisandro (tenore)
- Anfinomo (contralto)
- Eurimaco (tenore)
- Melanto (soprano)
- Eumete (tenore)
- Iro (tenore)
- Ericlea (contralto)
- Coro di Feaci
- Coro di Marittimi
- Coro di Celesti
Organico: soli, coro misto, archi, basso continuo
Prima rappresentazione: Venezia, Teatro San Cassiano, Carnevale 1640
Edizione: Denkmäler der Tonkunst in Österreich, Vienna, 1922
È raro che un'opera ispiri un romanzo e non viceversa, eppure
la pubblicazione de La
peripezia d'Ulisse overo La casta Penelope (Surian,
Venezia 1640) testimonia il successo del lavoro che segna il
riavvicinamento di Monteverdi, Maestro di cappella della Serenissima,
al teatro. Confessa Federico Malipiero, autore del romanzo: «M'apportò
'l caso ne' Veneti Teatri a vedere l'Ulisse in Patria... rappresentato
con quello splendore, ch'è per renderlo memorabile in ogni secolo.
M'allettò così l'epico della Poesia, com'il delicato della Musica,
ch'io non seppi rattenerne la penna». Questo ci testimonia la data
della prima rappresentazione, di cui è incerto il teatro (San Cassiano
o Ss. Giovanni e Paolo?). L'opera fu replicata l'anno successivo, dopo
le recite bolognesi curate dalla compagnia di Francesco Manelli e
Benedetto Ferrari.
La vicenda segue fedelmente l'Odissea (libri
XIII-XXIII): la raccontiamo riferendoci all'unico manoscritto della
partitura, conservato a Vienna.
Atto primo.
Dopo il prologo, in cui l'Humana Fragilità si contrappone al Tempo,
alla Fortuna e ad Amore, ascoltiamo una delle più intense pagine
dell'opera, il lamento di Penelope ("Di misera regina") scandito da
ripetizioni testuali e dal ritorno di arcate melodiche espressivamente
scolpite ("Tu sol del tuo tornar perdesti il giorno", "Torna deh torna
Ulisse"). Al dolore segue una ventata di freschezza e gioia di vivere:
l'ancella Melanto intreccia un duetto con il suo Eurimaco. I Feaci
sbarcano sulla spiaggia di Itaca per deporvi Ulisse addormentato,
salpano cantando una canzonetta che rivela il loro agnosticismo, ma,
colpevoli di aver trasgredito al volere dell'inviperito Nettuno,
vengono mutati in scoglio. Ulisse si sveglia, è solo. Inizia con fatica
un monologo in cui dà sfogo alla disperazione: si crede ingannato dai
Feaci. Un pastorello si avanza cantando spensieratamente, gli annuncia
di trovarsi a Itaca e rivela di essere Minerva. Ulisse manifesta la
propria gioia ("O fortunato Ulisse") e si reca alla reggia occupata dai
Proci, sotto le vesti in anziano mendicante. Melanto cerca di
convincere Penelope a non sprezzare «gli ardori de' viventi Amatori»,
ma la regina è ferma nel suo rifiuto. Seguendo un diffuso
topos letterario,
Eumete canta l'elogio della vita serena dei campi (il parassita Iro non
è dello stesso parere, preferisce i pranzi di corte). Quando il finto
mendicante annuncia che Ulisse è vivo, Eumete gli offre con gioia
ospitalità ed amicizia.
Atto secondo.
Telemaco viene condotto a Itaca da Minerva ed è accolto da Eumete, che
invita il mendicante a cantare per rendergli omaggio (in "Dolce speme i
cor lusinga" le voci si avvitano su un ostinato tetracordo discendente:
proprio come nel duetto inserito, con ben altri intenti, al termine
della
Poppea).
Quando Telemaco e il padre rimangono soli, con un incantesimo Ulisse
riprende le sue sembianze e si fa riconoscere: si alternano sgomento,
incredulità, un'oasi di stupefatta cantabilità a due voci ("Oh Padre
sospirato"), un'energica sezione 'positiva' e quasi marziale; l'ultima
frase di Ulisse stempera nella speranza la tensione psicologica
precedente. A un intermezzo a sfondo amoroso tra Melanto ed Eurimaco
segue la scena in cui Antinoo, Anfinomo e Pisandro rinnovano le
proposte di matrimonio a Penelope, che rifiuta garbatamente. Si
alternano due sequenze: il terzetto dei Proci ("Ama dunque sì sì") e la
risposta della regina ("Non voglio amar no no"). Eumete annuncia il
ritorno di Telemaco e i Proci tramano per sbarazzarsene: cantano spesso
a tre, in polifonia, e Monteverdi è abilissimo nel rendere il passaggio
dalla baldanza all'impietrirsi di paura quando osservano che un'aquila
vola sul loro capo, pessimo presagio. Telemaco racconta alla madre di
aver incontrato Elena di Troia: il recitativo esitante, a tratti
ritmicamente animato, svela il suo adolescenziale invaghimento per la
bellissima donna; Penelope sibila seccata che Elena è una serpe. Eumete
conduce il finto mendicante davanti ai Proci, con disappunto di Iro,
che si crede usurpato. Volano insulti (Ulisse: «Trarrò il corpaccio tuo
sotto il mio piede/ mostruoso animale», Iro: «Rimbambito guerriero...
ti strappo i peli della barba ad uno ad uno») e nella zuffa Iro viene
sconfitto. È il momento della gara dell'arco di Ulisse. Invano i tre
pretendenti cercano di tenderlo, solo il mendicante riesce a caricarlo
per iniziare la strage dei Proci. È una scena lunga e varia, gli
interventi strumentali ne scandiscono i passi importanti: la sinfonia
che accompagna la zuffa con Iro è quella che si ascolterà dopo la prova
di Ulisse, come preludio alla strage; con un terzetto ricco di melismi,
ma venato da un'ombra di tristezza, i Proci si presentano alla gara; a
turno, introdotti sempre da una sinfonia, levano un'invocazione prima
di cimentarsi e ogni volta la melodia spiegata ricade nel mortificato
recitativo, punteggiato da pause, che rende lo sforzo e la delusione
del pretendente.
Atto terzo.
Iro descrive la strage e il suo dolore: è terrorizzato, si fissa su
un'unica nota lunghissima mentre il basso parodizza il suo
sconvolgimento interiore. Ritroveremo la varietà di gesti vocali di
questa scena nelle scene di pazzia delle successive opere veneziane: il
recitativo è spezzato da pause, la voce si inceppa su ripetizioni di
parole, sillabe, incisi melodici brevissimi, su un ritornello infantile
("Chi ne consola"), su una risata esterrefatta e isterica («qui cade in
riso naturale» si legge dopo un trillo, in partitura). Eumete e
Telemaco cercano di convincere Penelope a riconoscere Ulisse.
Nell'intermedio ‘marittimo' Minerva, Giunone, Giove e Nettuno risolvono
di dar fine alle peripezie di Ulisse e un doppio coro a otto voci
conclude la scena. La nutrice Ericlea è interdetta: deve rivelare a
Penelope il segreto che ha scoperto (la cicatrice di Ulisse, segno di
sicuro riconoscimento)? Sarà Ulisse in persona a farsi riconoscere
dalla sposa, descrivendole la coperta nuziale mai vista da nessuno al
di fuori del marito. "Illustratevi o Cieli" è lo sfogo melodico di
Penelope, misuratissimo e rasserenante, in cui ogni verso è ripetuto ad
eco dagli strumenti. Il successivo duetto ("Sospirato mio Sole") chiude
l'opera in una tonalità crepuscolare, in quel registro degli affetti
quotidiani al quale molto spazio ha riservato il compositore nel corso
dell'azione, a scandirne i momenti di riposo, quando i personaggi
riprendono fiato prima e dopo i momenti emotivamente più impegnativi o
vocalmente più impervi.
Questi rifugi in una dimensione 'bucolica', media,
caratterizzano quasi ogni intervento del pastore Eumete e dello stesso
protagonista quando è travestito da mendicante. Ma ogni personaggio è
in genere connotato da un modo espressivo adatto al suo rango e alla
sua tempra: la dimensione sovraumana delle divinità è resa dallo stile
alto, melismatico; all'opposto, Melanto ed Eurimaco intervengono sempre
con facili canzonette. Penelope declama un recitativo severo, nello
stile tragico di Ulisse, il quale però, nella condizione di finto
mendicante, si permette alcune deroghe e imita lo stile umile di Iro.
Antinoo si esprime con un declamato impervio di sbalzi, segno di
statura sociale elevata, ma anche di pravità: nel confronto con Eumete
(II,12) i suoi sgraziati scarti di registro cozzano con la serena
compostezza del recitativo del pastore, che rispecchia in uno stile
medio la sua condizione inferiore, ma anche la sua civiltà. È una spia
del sentimento antimonarchico che compare ogni tanto nei versi di
questo personaggio (la polemica anticortigiana e repubblicana si
insinua anche nei versi di Melanto in III,2 ed è una costante dei primi
libretti veneziani, scritti da membri dell'Accademia degli Incogniti,
organici agli ideali della Serenissima). L'attenzione ai diversi tipi
di elocuzione crea una retorica vocale impiegata a fini teatrali: è
importante il modo in cui i personaggi si esprimono, non tanto il
contenuto musicale dei loro interventi. Il registro stilistico scelto
di volta in volta diventa funzionale al racconto, ad esempio quando un
personaggio devia dal suo registro abituale per assumerne un altro. Si
veda il primo incontro con Minerva: Ulisse si rivolge al pastorello
parodiando lo stile umile della sua canzonetta e quando la dea a poco a
poco si rivela, il recitativo del personaggio umano si eleva imitando i
caratteri stilistici dell'interlocutore divino. Oppure la scena (I,10)
in cui Melanto cerca di convincere la regina a concedersi all'amore e
inizia a parlarle, assumendo per un momento lo stesso stile espressivo
del lamento di Penelope. Il recitativo monteverdiano è ricchissimo di
impennate liriche, incisi ripetuti e suggerimenti ritmici, che sembrano
prendere il volo e poi ricadono nella declamazione libera; ciò
soprattutto quando il testo suggerisce una particolare temperatura
emotiva, ad esempio l'effusione di gioia. Lo spunto per tali momenti
deriva quasi sempre dall'organizzazione formale dei versi, che,
all'interno delle sequenze di sciolti, presenta microsistemi più
regolari. In generale però Badoaro ignora i raggruppamenti strofici, a
parte casi eccezionali e giustificati come canto verosimile. Il
compositore interviene spesso, sovrappone una sua struttura formale al
testo che ne è privo, organizza strofe o ripetizioni di versi,
inserisce ritornelli strumentali: per esempio nel lamento di Penelope
(I,1), nell'esplosione di gioia di Ulisse (I,9) o nella scena di
Ericlea (III,8). In questi casi e nei momenti in cui il recitativo
lievita ad arioso, in base ad esigenze teatrali e interpretative il
compositore ritma le sue dimensioni temporali: forza il tempo
rappresentato, quello dell'azione prevista nel testo, per dilatarlo nel
tempo irreale della rappresentazione, seguendo la logica degli affetti
e della musica.
Il Ritorno
è stato trascritto sontuosamente per orchestra moderna da Hans Werner
Henze e così rappresentato a Salisburgo (1985). Le versioni di Nikolaus
Harnoncourt (Vienna 1971) e di Raymond Leppard (Glyndebourne 1972), di
gusto filologico, si basano invece sullo studio della prassi esecutiva
dell'epoca.
(1)
"Dizionario dell'Opera 2008", a cura di Piero Gelli, edito da Baldini
Castoldi Dalai editore, Firenze
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Ultimo aggiornamento 1 marzo 2017